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Il Foglio, 2 novembre 2012 – Perché voto Renzi, l’unica alternativa possibile a questa sinistra fallimentare

Bassi salari, alta disoccupazione, diseguaglianza crescente rischiano di trasformare le preoccupazioni economiche in risentimento. Prima che le difficoltà e il risentimento crescano ulteriormente, l’Italia deve optare per le riforme. E dobbiamo offrire un cambiamento nelle politiche e nel modo di fare politica. Stavolta non basterà attendere che passi la nottata. La destra ha fallito la prova di governo, ma i quieti equilibri del passato non si possono ricreare. E il problema del Pd rimane quello di costruire un’alternativa credibile: il centrodestra, infatti, si sta via via sfaldando senza che i consensi per il centrosinistra aumentino. Per il Pd il punto irrisolto è sempre lo stesso. L’incapacità del centrosinistra di promuovere un’aperta battaglia culturale all’interno del proprio «mondo di riferimento» in difesa di quelle idee che molte volte ha annunciato come l’orizzonte della propria azione politica. Da qui la continua riproposizione di una sorta di strategia dei «due tempi»: prima bisogna risolvere il problema della guida del partito (e del Paese) e solo in un secondo tempo, l’effetto carismatico di quella guida trascinerà il partito su nuove coordinate di cultura politica. Ma non ha funzionato e non può funzionare. Che fare dunque?

Voterò per Matteo Renzi. Sono dell’opinione che il centrosinistra ha bisogno di una rigenerazione, sia pure al prezzo di qualche scossa. C’è bisogno di una sincera e coraggiosa competizione con la vecchia sinistra: il tabù dell’unità del partito e del suo governo dal «centro» (tagliando le ali) ha fatto il suo tempo e, come abbiamo visto, è una modalità che consente solo deboli adattamenti e non innovazione duratura. E bisogna che le primarie sciolgano il nodo del posizionamento di fondo del Pd nella crisi italiana ed europea. Fare una campagna elettorale di opposizione dopo un anno in maggioranza è schizoide. Resto dell’opinione che il Pd deve rivendicare con orgoglio di aver partecipato (da protagonista) allo sforzo per salvare l’Italia, non vergognarsene; e deve prendersi il merito della popolarità di Monti in Europa, non accreditarsi come quello che non vede l’ora di toglierselo dai piedi.

Si può pensare quello che si vuole di Matteo Renzi, ma non c’è dubbio che nei suoi discorsi (e nel suo programma) il sindaco di Firenze abbia ripreso quasi tutte le idee-chiave della sinistra liberale; e non c’è dubbio che è con queste idee che prova a sfidare la maggioranza del Pd.  Senza contare che la vera rupture rispetto agli ultimi anni di vita del Pd, più forte della stessa rottamazione, è il suo appello agli elettori delusi da Berlusconi. E, a ben guardare, ci voleva qualcuno che mettesse apertamente in discussione la continuità burocratica del gruppo dirigente e una concezione del partito e della politica che ha al centro proprio la funzione del «gruppo dirigente».

Dovesse prevalere Renzi alle primarie, non finiremmo nell’anarchia, ma il Pd diventerebbe un partito un po’ più simile a quelli (di sinistra) presenti nelle democrazie europee. Mentre le sinistre europee rompono anche simbolicamente con il loro passato (Hollande compie scelte di governo contro le quali Melenchon organizza mobilitazioni di piazza e l’Spd sceglie Steinbrück come proprio candidato alla cancelleria, per tacere degli inglesi), perché sono obbligate a considerare nuovi problemi e nuovi traguardi, il Pd si auto-confina nel recinto della sinistra tradizionale. Ma quella sinistra non è «la» sinistra. Anzi, se c’è un’esigenza in Italia, è proprio quella di costruire la sinistra come crogiuolo dei diversi filoni che si sono variamente intrecciati nella sinistra europea. Il rischio della sinistra italiana è di morire di nostalgia: tutto quel che è accaduto nel passato ha valore, tutto ciò che è presente, è corrotto. Ma il passato diventa motivo di forza e di vanto solo per un equivoco: lo si idealizza; lo si rende perfetto. E a forza di pensare nostalgico ci si dimentica che il futuro si forgia, si costruisce, non lo si aspetta mica. Per conquistare la credibilità necessaria per costruire una alternativa di governo, il Pd deve definire la propria identità e la propria cultura politica. E proprio perché non ha ancora completato il suo processo di conversione a un liberalismo sociale, il Pd ha bisogno di una riflessione ancora più vasta e profonda su cosa significa essere di (centro) sinistra oggi. In discussione, in altre parole, è la «versione dei fatti» fin qui proposta dal gruppo dirigente. Ma non c’è verso: il partito non ha altra possibilità che quella di provare a conquistare quegli elettori delusi dal centrodestra, che ora possono volgere lo sguardo altrove in cerca di una nuova speranza, facendo proprie le loro istanze. Facendo proprie, cioè (sulla base dei nostri valori), quelle domande, quelle aspirazioni – sul fisco, sulla giustizia, sulle libertà economiche – che esse esprimono e che Berlusconi ha lasciato insoddisfatte. Non è scritto da nessuna parte che il declino, la decadenza siano un esito inevitabile. La tecnologia, il ruolo dell’immigrazione, i miglioramenti nella sanità pubblica, norme che incoraggino una partecipazione più grande delle donne nell’economia, sono solo alcune delle misure che potrebbero cambiare la traiettoria delle tendenze attuali che puntano a un possibile declino. Il ruolo della leadership sarà cruciale circa gli esiti. I leader e le loro idee contano. Ma serve coraggio, che, come scriveva Robert Kennedy, «è la dote indispensabile per chi voglia cambiare un mondo che accetta così faticosamente il cambiamento».

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