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Il Foglio, 1 dicembre 2015 – Non è la povertà che uccide, ma la pedagogia dell’intolleranza

Il terrore islamista è nuovo, però abbiamo conosciuto qualcosa di simile negli anni 70. Sappiamo come batterlo

La povertà non c’entra nulla. Gli attentati di Parigi sono soltanto l’ultimo dei colpi sferrati da un’ideologia che cerca da decenni di ottenere il potere attraverso il terrore. È la stessa ideologia che ha ucciso i giornalisti di Charlie Hebdo e i poliziotti in servizio per proteggerli, che ha costretto a nascondersi per un decennio Salman Rushdie (condannato a morte per aver scritto un romanzo), che ha poi ucciso il suo traduttore giapponese e che ha cercato di uccidere quello italiano. È la stessa ideologia che ha ucciso 3.000 persone negli Stati Uniti l’11 settembre del 2001 e che ha massacrato Theo Van Gogh nelle strade di Amsterdam nel 2004 per aver fatto un film. È la stessa ideologia che ha dispensato stupri di massa e massacri alle città e ai deserti della Siria e dell’Iraq; che ha massacrato 132 bambini e 13 adulti in una scuola a Peshawar e che regolarmente uccide così tanti nigeriani che ormai nessuno vi presta più attenzione.

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Guerre civili: «la politica internazionale con altri mezzi»

La convinzione che l’Iraq fosse una sorgente cruciale del jihadismo sunnita più radicale (e perciò conquistarlo era la prima indispensabile mossa nella «war on terror» post 9/11) è stata una caratteristica distintiva dell’amministrazione Bush. All’epoca, si è trattato di un’idea molto controversa. I legami di Saddam Hussein con il terrorismo erano reali ma non particolarmente importanti. L’Iraq era in basso nella classifica degli Stati sponsor del terrorismo e il terrorismo non era tra i principali motivi di preoccupazione in relazione all’Iraq di Saddam; ed anche i programmi segreti riguardanti le armi di distruzione di massa, allora ritenuti la principale minaccia, si sono rivelati un problema di poco conto. Ma questa, come si dice, è un’altra storia.

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Un Islam in movimento

Fronte

 

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Tocca anzitutto alle popolazioni locali respingere l’ideologia dell’estremismo

Da tre giorni Bruxelles è blindata. Il primo ministro Charles Michel ha comunicato che il livello di allerta rimane al massimo nella capitale poiché la minaccia di un attacco terroristico rimane «seria e imminente». Le metropolitane, le scuole e le università resteranno chiuse e i residenti sono invitati a stare alla larga da concerti, stazioni ferroviarie, centri commerciali e luoghi affollati. Tutti i ristoranti ed i caffè chiudono alle sei. Veicoli corrazzati si muovono per le strade e i soldati sorvegliano gli spazi pubblici e gli hotel. Michel ha detto che la decisione di sigillare una città di più di un milione di abitanti è «basata su informazioni piuttosto precise circa il rischio di un attacco del tipo di quello effettuato a Parigi». Ed ha chiarito che il governo ritiene che «un gruppo di individui con armi ed esplosivi» potrebbe attaccare la capitale del Belgio, «forse perfino in diversi luoghi nello stesso momento».

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All’incontro con il presidente ucraino Porošenko al Centro Studi Americani

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LIBERTÀeguale Magazine, 17 novembre 2015 – Fuori dalla Ue non c’è una “terra di latte e miele”

 

Venerdì sera, mentre si stava consumando l’attacco a Parigi, Ian Bremmer, il presidente di Eurasia Group, ha scritto su Twitter:«At a time when European solidarity is most urgent, the nations of Europe stand critically divided». L’attacco dei terroristi a Parigi testimonia che l’Europa è un fronte della guerra che si combatte in Siria ed in Iraq contro i gruppi jihadisti. Ma i limiti politici e strutturali del nostro continente nella difesa della sicurezza dei cittadini sono sotto gli occhi di tutti.

C’è una guerra in corso e l’integrazione europea stenta a decollare. Ed ora, proprio la concomitanza di elementi imprevisti (le sfide legate ai profughi e ai migranti, alla guerra asimmetrica in corso, alla sicurezza interna ed esterna, alla necessità di spendersi seriamente per lo sviluppo dell’Africa e del Medio Oriente, anche per evitare che si scarichino sull’Europa flussi e tensioni insostenibili) sembra destinata a trasformare il Brexit in una prospettiva concreta, con implicazioni politiche potenzialmente devastanti.

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Formiche.net, 15 novembre 2015 – Sta nascendo un nuovo bipolarismo in Italia?

Che oggi lo spartiacque fondamentale della politica italiana non sia più quello usuale tra la sinistra e la destra tradizionali, lo testimoniano la manifestazione che abbiamo visto sabato della scorsa settimana a Roma, al Teatro Quirino, di una sinistra che prova ad inseguire Beppe Grillo e quella che abbiamo visto invece a Bologna, in piazza Maggiore, di una destra incline ad inseguire Salvini.

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PARIGI SOTTO ATTACCO

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Matteo Renzi all’assemblea dei gruppi dem: «Le riforme stanno cambiando l’Italia»

Martedì scorso, per la prima volta, Matteo Renzi si è presentato all’Assemblea dei gruppi parlamentari del Pd di Camera e Senato con un lungo discorso scritto (Il discorso di Matteo Renzi ai gruppi parlamentari del Pd).

«Perdonatemi se non sarò breve: del resto sono reduce da una visita a Cuba e dunque non potete certo aspettarvi un discorso da 140 caratteri», ha ironizzato il premier che poi ha esordito risolutamente: «Giudico la stagione che stiamo vivendo una stagione di straordinario rilievo, destinata ad entrare nella cronaca del nostro Paese: forse non nella storia, perché la storia è troppo grande per occuparsi di noi. Ma nella cronaca sì. La mia convinzione infatti è che ciò che – tutti insieme – stiamo facendo è destinato a cambiare in modo profondo e strutturale la politica italiana».

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I DANNI DELLA POLITICA DELL’ANTIPOLITICA

Secondo Giovanni Orsina, la surreale vicenda del sindaco Ignazio Marino può essere considerata la quintessenza della «politica dell’antipolitica». Infatti, ha spiegato Orsina, presentando a Roma un candidato col quale, per la sua estraneità ai meccanismi di potere, sperava di poter affrontare la concorrenza grillina, la politica (vale a dire il Pd, il più «tradizionale» dei partiti italiani), ha cercato di sconfiggere l’antipolitica sul suo stesso terreno – «mascherandosi» da antipolitica.
«L’operazione però non è riuscita», constata però Orsina. «E via via che il suo fallimento s’è venuto facendo sempre più palese, sono esplose le sue contraddizioni interne. Il Partito democratico ha accarezzato l’idea di espellere al più presto il «marziano» per la sua conclamata incapacità politica e i gravi danni amministrativi e d’immagine che essa stava causando. Tuttavia, soprattutto dopo che la magistratura ha svelato la cosiddetta mafia capitale, non ha resistito alla tentazione di continuarne a sfruttare la marzianità antipolitica. Non per caso, pure quando alla fine, assai tardivamente, il Pd s’è deciso a sfiduciare il sindaco, lo ha fatto sul terreno antipolitico degli scontrini, non su quello politico dell’inettitudine amministrativa. Più in generale, anche l’interpretazione che l’opinione pubblica ha dato della crisi s’è divisa lungo il crinale del rapporto ambiguo fra politica e antipolitica: da un lato chi ha attribuito la responsabilità per il fallimento all’antipolitica, reclamando il ritorno alla politica; dall’altro invece chi ha ritenuto che fosse stata proprio la politica a boicottare la marzianità virtuosa» (Se la politica si maschera da antipolitica).

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