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Tocca anzitutto alle popolazioni locali respingere l’ideologia dell’estremismo

Da tre giorni Bruxelles è blindata. Il primo ministro Charles Michel ha comunicato che il livello di allerta rimane al massimo nella capitale poiché la minaccia di un attacco terroristico rimane «seria e imminente». Le metropolitane, le scuole e le università resteranno chiuse e i residenti sono invitati a stare alla larga da concerti, stazioni ferroviarie, centri commerciali e luoghi affollati. Tutti i ristoranti ed i caffè chiudono alle sei. Veicoli corrazzati si muovono per le strade e i soldati sorvegliano gli spazi pubblici e gli hotel. Michel ha detto che la decisione di sigillare una città di più di un milione di abitanti è «basata su informazioni piuttosto precise circa il rischio di un attacco del tipo di quello effettuato a Parigi». Ed ha chiarito che il governo ritiene che «un gruppo di individui con armi ed esplosivi» potrebbe attaccare la capitale del Belgio, «forse perfino in diversi luoghi nello stesso momento».

Il brutale attacco a Parigi questo mese è stato una mazzata inferta alla joie de vivre della Francia. L’assedio allo sfavillante Westgate Shopping Mall in Kenia è stato un attacco alla crescente prosperità, alla modernità e alla stabilità del paese. Il terrificante attacco al Radisson Blu nella capitale del Mali è un colpo ai fragili sforzi di quella nazione di restaurare la pace dopo anni di scontri. Ma in tutti questi posti la domanda fondamentale è sempre la stessa: come fa una società democratica a proteggere se stessa da alcuni estremisti risoluti che possono sbaragliare un’intera nazione con un singolo attacco devastante? «Nessuno ha trovato il modo di mettere in piedi un approccio multidimensionale per contrastare il radicalismo» ha detto Jean-Herve Jezequel, un analista dell’International Crisis Group.

Perfino in Iraq e in Afghanistan, dove migliaia di vite e miliardi di dollari sono stati spesi nel tentativo di strappare questi paesi dal caos, le forze estremiste stanno prosperando. Una lezione che il Mali conosce molto bene.Prima che lo Stato Islamico si diffondesse in ampie porzioni della Siria e dell’Iraq, stabilendo un auto proclamato califfato, le bandiere nere sventolavano nel Mali. In seguito alla ribellione e al colpo di stato militare che gettarono il paese nel disordine, i jihaidisti penetrarono dal Shael nel Mali settentrionale. Hanno sequestrato ragazze e le hanno stuprate, hanno imposto la loro severa versione dell’Islam alle città che hanno conquistato, condotto esecuzioni sommarie e distrutto gli antichi santuari Sufi. Hanno scacciato dalle loro case decine di migliaia di persone e governato la parte settentrionale del paese per mesi nel 2012 mentre il resto del paese poteva fare poco più che guardare. A differenza della Siria, l’Occidente non si è seduto in disparte mentre il paese andava in pezzi. La Francia, l’ex potenza coloniale, ha messo sul terreno centinaia di soldati, cacciando gli estremisti dalle città occupate, disperdendoli nel deserto e uccidendo alcuni dei loro capi, mentre le Nazioni Unite si sono impegnate a definire una’intesa tra il governo e i ribelli.

Ci sono ancora 10.000 peacekeepers nel Mali. Insieme ai droni che volteggiano sulla regione. E tuttavia, anche dopo le elezioni e l’accordo di pace, che dovevano mettere il paese su un nuovo binario, gli estremisti hanno portato a termine multipli attacchi terroristici contro obiettivi civili come ristoranti e un altro hotel, scuotendo la fiducia del paese. Significa che non è ancora finita. Una soluzione politica per la nazione spaccata rimane difficile da raggiungere, oltretutto con i jihadisti che la rifiutano del tutto. «Ampie parti del territorio» restano «prive di autorità statale» lasciando liberi i gruppi armati di compiere «abusi che restano impuniti», ha ammonito quest’anno Human Rights Watch. Parecchi dei protagonisti continuano a costituire una minaccia e, in termini di debolezza statuale, non siamo lontani da dove eravamo nel 2012. C’è chi ritiene che gli attentati mostrino i limiti dell’approccio meramente militare alla lotta la terrorismo e quando sia difficile trovare una soluzione che funzioni davvero. «Sono passati tre anni da quando la Francia ha eliminato alcuni leader degli estremisti, peraltro con un certo successo», ha detto Jezequel. «Ma ciò – ha aggiunto – non risolve il problema».

Anche in Siria qualcosa si può fare solo se si prende atto di come stanno le cose. Il nostro interesse è quello di eliminare o contenere le due minacce che stanno diventando metastasi: l’ISIS, la cui crescita minaccia la regione e ora le nostre città, e la tragedia dei rifugiati siriani che stanno inondando il Libano e la Giordania e che, di questo passo, possono destabilizzare l’Unione europea. Ma non c’è ragione di credere che l’approccio di chi in ogni occasione non fa che urlare «Puntare, mirare, fuoco!» possa funzionare meglio di quanto abbia funzionato in Iraq o in Libia. Senza contare che un’alleanza contro l’ISIS è più facile a dirsi che a farsi. Specie se si considera (come Kerry ha dovuto constatare) che, ad eccezione della Francia e degli Stati Uniti, nessuno dei diversi attori coinvolti (oltre all’Iran, all’Iraq e alla Russia, che sembra più incline a preservare Assad che a combattere il terrorismo, ci sono anche la Turchia e l’Arabia Saudita che lo vogliono rimuovere) ritiene che la priorità sia quella di occuparsi dell’ISIS.

Non per caso, anche dopo il terribile attacco terroristico a Parigi, Obama è rimasto della convinzione che quel che davvero farà la differenza (oltre agli sforzi per bloccare la capacità di finanziarsi dello Stato islamico, le sue linee di rifornimento ed i rinforzi e rendergli più difficile conservare il controllo del territorio) sarà solo la soluzione diplomatica della guerra civile siriana (che ha creato il vuoto riempito dallo Stato Islamico) e che mandare un significativo contingente di truppe di terra a combattere lo Stato islamico non farebbe che ripetere quel che egli considera l’errore dell’invasione dell’Iraq nel 2003, senza risolvere il problema che abbiamo di fronte. «Ciò sarebbe un errore, non perché il nostro esercito non sarebbe in grado di entrare a Mosul o a Raqqa o a Ramadi e sloggiare l’ISIL, ma perché vedremo una replica di quel che abbiamo già visto», ha detto Obama ad Antalia. La vittoria sui gruppi terroristi, ha rimarcato, richiede che siano le popolazioni locali a respingere l’ideologia dell’estremismo «a meno che non pensiamo di occupare questi paesi in eterno». «Supponiamo – ha aggiunto – di mandare 50.000 uomini in Siria. Cosa accadrebbe se ci dovesse essere un attacco terroristico concepito dallo Yemen? Manderemmo più soldati anche lì? O li invieremmo in Libia? E se ci fosse una rete terroristica che opera da qualche altra parte in Nord Africa o in Asia sudorientale?».

 

 

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