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GIORNALI2009

Europa, 15 ottobre 2009 – Lezione tedesca: il vecchio non si può restaurare

L’abbiamo archiviata rapidamente. Ma la batosta della Spd prova ancora una volta quanto sia fiacco e inefficace quel richiamo alle origini perdute propagandato nei congressi di circolo dai presentatori della mozione Bersani.
Per 146 anni, in patria o in esilio, i socialdemocratici tedeschi sono stati il partito del lavoratori e dei sindacati. Ora non è più così. Del resto, proprio Berthold Huber, il capo dei metalmeccanici tedeschi della Ig Metall (2 milioni e 400mila iscritti) aveva annunciato, il 31 luglio scorso in un’intervista alla Süddeutsche Zeitung, che la sua organizzazione, per la prima volta, non avrebbe dato un’indicazione di voto. «Lo so che i rapporti tra la Spd e il sindacato sono stati storicamente molto forti – aveva detto Huber – ma ora siamo nel ventunesimo secolo. L’era in cui i sindacati possono dire “vota per questa o quella persona” è finita. La gente ha la sua testa. Dice “lasciate che a quello pensiamo noi”. Quindi non ci sono più raccomandazioni e pietre di paragone elettorali. Possiamo essere coinvolti sui temi e lo facciamo».
Ovviamente, la decisione dei metalmeccanici tedeschi di non schierarsi politicamente è anzitutto una presa d’atto. Da tempo, parecchi iscritti alla Ig Metall votano per la Linke, per i Verdi, ma anche per il centrodestra: per la Cdu e la Csu e per i liberali dell’Fdp. Come in Italia. Un sondaggio Ipsos del maggio scorso realizzato per il Sole 24 Ore dava il voto operaio per il 60% a favore del centrodestra. Niente di nuovo, ovviamente, a parte la dimensione. Ma la presa d’atto della differenza tra l’operaio del secolo scorso e quello di oggi che può (e vuole) scegliere finirà per portare lontano, non solo in politica ma anche nelle preferenze in fatto di scuola, pensione, sanità eccetera. Certo che la gente vuole essere protetta dalle peggiori conseguenze della globalizzazione. Ma i cittadini vogliono anche avere la possibilità di raggiungere i propri obiettivi. E abbiamo bisogno di immaginazione per distribuire più potere e controllo ai cittadini sulla sanità, sull’educazione e sui servizi sociali che ricevono.
Non è un caso che l’esito del voto abbia ridimensionato le speranze che in Italia erano state riposte nella Grande coalizione e anche l’infatuazione per il sistema elettorale tedesco. In molti non facevano mistero di ritenere che un governo basato sulle due grandi forze politiche tedesche fosse la strada giusta per realizzare una coraggiosa politica di riforme. E il «governissimo », l’intesa tra i partiti cardine dei due poli, doveva essere la soluzione giusta anche per l’Italia. Ma, come abbiamo visto, non è così scontato che sia una soluzione produttiva e non è scontato che i cittadini la ritengano desiderabile.
I tedeschi come gli italiani non vogliono saperne di tornare alle ambiguità e agli «inciuci». Basterebbe dare un’occhiata sui blog e sui giornali tedeschi agli interventi di quanti, anche tra gli elettori socialdemocratici, hanno salutato il pessimo risultato della Spd come una benedizione del cielo. Non c’è dubbio che dietro i propositi di introdurre la legge elettorale «alla tedesca » si celi il ritorno al proporzionale e ai governi che si fanno e che si disfano nelle aule del parlamento sottraendo ai cittadini il diritto di conoscere e scegliere prima le alleanze. Ma come si fa a pensare di poter ripristinare il vecchio sistema con un semplice intervento di restauro? Quel che è avvenuto in questi anni (a partire dalla dissoluzione del vecchio sistema dei partiti) non è un incidente di percorso. Nel vecchio sistema si esaltavano l’appartenenza e l’identificazione in un partito, si aderiva alla sua ideologia, alla sua utopia, alla sua morale. Ci si faceva cittadini del partito e nel partito, perché non si riusciva ad esserlo interamente nello stato e dello stato. Adesso l’identificazione e l’appartenenza non ci sono più. Come si risponde allora a tutto ciò se non esaltando in modo compiuto la possibilità della scelta, la responsabilità della scelta, l’esercizio della cittadinanza nello stato? Non è per questo che abbiamo scelto le primarie? Il rispetto della competenza decisionale degli individui non è forse l’unica risposta possibile a una crisi di fiducia ormai incontenibile? Forse dovremmo guardare di più alle tendenze di fondo della società, comuni a tutti i paesi avanzati: dalla struttura economica all’eguaglianza di genere, dalla natura della famiglia all’individualizzazione dei valori. La comprensione dei cambiamenti strutturali e nei valori è infatti la condizione per presentare un progetto di governo riformista per cambiare l’Italia, cosa di cui il nostro paese ha bisogno. Keynes una volta osservò sarcasticamente: «When fatcs change, I change my mind: What do you do, sir?».
Un esempio: la politica presidenziale è diventata, ormai parte integrante della nostra scena nazionale. E Berlusconi, manco a dirlo, ne approfitta per governare per decreto come la maggior parte dei presidenti sudamericani. Ma, allora, perché non è il centrosinistra ad avanzare e precisare il tema del presidenzialismo (visto che bisogna ricostruire il sistema dei checks and balances tra poteri e istituzioni dello stato) come complemento necessario dell’Italia federale? Non è una questione tecnico-istituzionale. È una questione etico-politica.
Nel nostro paese la limitatissima fiducia nello stato e nelle istituzioni si è ulteriormente ridotta. E la dirompente sfiducia nello stato ne investe ormai ogni livello territoriale e non viene più surrogata dalla fede in un superiore destino europeo. Se il nostro congresso non discute di questo, di una crisi in cui si nasconde davvero il rischio di un impoverimento della democrazia; se non si interroga sul ruolo (diverso dal dirigismo degli anni ’60 e ’70 ma non meno «attivo») che lo stato dovrebbe giocare oggi nel regolare il capitalismo, di che discute?

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Il Piccolo, 26 novembre 2009 – Maran: «Pd unito per l’alternativa»

«La mia elezione? È avvenuta mentre ero in volo al rientro da una missione parlamentare a Belgrado…». Il Pd completa l’ufficio di presidenza alla Camera. E Alessandro Maran diventa, seppur ”in contumacia”, vice di Dario Franceschini. Il deputato goriziano, nel giorno in cui Ettore Rosato viene confermato tesoriere e Debora Serracchiani applaude al peso rafforzato del Pd del Friuli Venezia Giulia, si prepara al nuovo compito avendo ben chiara la priorità assoluta: «Unire le forze e costruire l’alternativa a Silvio Berlusconi per fare le riforme che l’Italia attende da vent’anni».
Il Pd ha eletto tre vicecapigruppo a Montecitorio: uno per mozione. Che significa? Che la ”tregua” regge?
Significa che il Pd, dopo un’estate in cui non si è risparmiato nulla, archivia la discussione, raccoglie le energie e si struttura per costruire l’alternativa: i gruppi parlamentari, in tal senso, sono uno strumento decisivo.
Decisivo per cosa?
Per rendere evidente che c’è un futuro diverso da quello che Berlusconi si limita a promettere. L’Italia ha problemi serissimi – la giustizia, la scuola, le infrastrutture – ma il premier affronta solo i suoi problemi. Alcuni li ha risolti, gli altri scandiscono l’agenda di governo.
Come il processo breve e il nodo della giustizia?
Il processo breve non centra nulla con la giustizia. Centra solo con la vicenda personale di un premier ossessionato dai suoi processi.
In queste condizioni quali sono gli spazi per il dialogo?
Il Pd, non da oggi, avanza proposte che si propongono di modernizzare il Paese e rendere più efficiente il sistema. E il Pd, non da oggi, è disponibile al confronto: un’intesa è necessaria, dobbiamo smetterla di litigare sempre, ma finché Berlusconi antepone i suoi problemi al resto, è difficilissimo uscirne.
La ”bozza Violante” può aiutare?
Evidenzio che si parla, non a caso, di una ”bozza Violante” a dimostrazione che il Pd ha un’iniziativa incalzante e coerente sulle riforme.
Ma l’intesa è possibile? Il Pd è pronto a fare la sua parte?
Trovo curioso che si chieda sempre all’opposizione di fare qualcosa. Certo, il Pd è pronto a concorrere. Ma Berlusconi, intanto, che fa? Perché non propone riforme vere, avendo una maggioranza numericamente fortissima, anziché tentare di scassare il sistema per mettersi al riparo dai suoi guai?
Governo e maggioranza sono sempre più litigiosi. Quanto dureranno?
Continueranno all’infinito… È un film già visto nella legislatura del 2001: la maggioranza apparentemente solidissima è bloccata dalle vicende del capo, è incapace di proporre alcunché, ma va avanti.
Gianfranco Fini, però, si smarca sempre più spesso. È di queste ore lo stop alla fiducia sulla Finanziaria…
Fini gioca a smarcarsi. Ma fa parte di questa maggioranza e infatti, grazie al ruolo ricoperto alla Camera, sinora ha consentito il ricorso alla fiducia.
Qual è il banco di prova del Pd a guida Pierluigi Bersani? Le regionali?
Le regionali sono un appuntamento importante. Ma la scommessa di Bersani e di tutto il Pd sono le politiche del 2013.

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Europa, 11 dicembre 2009 – Cosentino, non era pregiudizio

A carico del deputato Nicola Cosentino si ipotizza il concorso esterno in associazione mafiosa in relazione al sodalizio di tipo camorristico che opera in varie zone dell’entroterra campano, in particolare nella provincia di Caserta, ed è stato chiesto dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli – l’autorizzazione a eseguire la misura cautelare della custodia in carcere. La Giunta per le autorizzazioni aveva risposto “no”. Ieri la camera ha confermato questa risposta col voto contrario del Partito Democratico.
Ricordo quando la tv portò nelle case le immagini di Enzo Tortora, del presentatore con i ferri stretti attorno ai polsi, lo sguardo sbigottito e la barba lunga: l’allora più popolare divo della tv trascinato in catene davanti alle telecamere con l’accusa di essere un corriere della droga al servizio del camorrista Raffaele Cutolo, senza uno straccio di prova, basandosi sulle parole, oggi possiamo dire sulle menzogne, di un manipolo di pentiti, o meglio di camorristi in piena attività di servizio. Ricordo l’appello, il primo allora, lanciato da Enzo Biagi con il grido «E se Tortora fosse innocente?». Ricordo questo pensiero, il pensiero di sua figlia: «Mi ha insegnato – diceva – a essere rigorosa e a non giudicare mai gli altri da quello che si sente dire di loro, a non dare giudizi affrettati, a non lanciarsi contro una persona perché ci può essere epidermicamente antipatica, sostanzialmente a conservare la propria dignità anche se gli altri vorrebbero che tu fossi diverso da quello che sei».
Non ho condiviso le opinioni di chi vede nell’opera della magistratura addirittura l’occasione per riformare dall’alto l’Italia e gli italiani.Nè l’atteggiamento di chi è arrivato a considerare la magistratura come un baluardo indispensabile per difendere le istituzioni democratiche da una destra populista e illiberale.
Noi non abbiamo mai esibito nell’aula di Montecitorio il cappio o le manette.
Nessun pregiudizio, dunque, però ricordo a tutti che con le stesse accuse rivolte al deputato Cosentino un cittadino comune, un italiano qualunque, sarebbe costretto oggi in carcere. Ciascuno di noi deve tenerlo costantemente a mente, per non cadere in una difesa corporativa, insostenibile di fronte all’opinione pubblica.
Inoltre, ciascuno di noi dovrebbe tenere a mente il quadro descritto dall’inchiesta napoletana. L’ordinanza descrive un quadro degradato, dove impera la camorra, descrive interessi, condotte, intrecci politico-malavitosi inaccettabili e indegni di un paese civile, una società che è ormai sequestrata e occupata da organizzazioni criminali. Ovviamente non era nostro compito un’analisi con intenti di condanna o assoluzione; il nostro compito era valutare unicamente se vi fosse fumus persecutionis, se vi fosse parvenza di persecuzione.
Si tratta di un’espressione che indica che le azioni compiute dal giudice non sembrano dettate da applicazione della legge e ricerca della verità, ma dall’intenzione di nuocere ad una persona precisa, cioè al deputato Cosentino. Insomma, dovevamo verificare se la magistratura fosse intenzionata ad abusare delle proprie prerogative. Non è così: la Giunta per le autorizzazioni ha potuto constatare come gli indizi di colpevolezza a carico di Nicola Cosentino siano gravissimi, le dichiarazioni attendibili, riscontrate da elementi esterni, in relazione alle modalità dei fatti denunciati, con strumenti che sono idonei a collegare i fatti all’indagato. E la stasi istruttoria di cui si alimenta la difesa di Cosentino è piuttosto indice della cautela e della ricerca da parte della procura, una volta tanto, di riscontri probanti per rafforzare la tesi accusatoria.
È nostra convinzione, e non da oggi, che sia venuto il momento per uno sforzo grande di riforma dello stato: questo è il compito nazionale della fase storica in cui stiamo vivendo. Per questo compito il nostro partito mette a disposizione tutte le sue risorse, così come i grandi partiti di massa le misero a disposizione per il compito di ricostruzione democratica del paese durante la guerra e il dopoguerra.
È nostra convinzione che sia possibile costruire una democrazia capace di decidere, onesta, in grado di gestire servizi pubblici efficienti, provvedere ad un sistema giudiziario ben funzionante; ma la prima battaglia è quella della legalità, per riconquistare il territorio occupato dalle mafie, per sottrarre i nostri concittadini, tanti cittadini onesti, giovani, donne, a un destino di oppressione, per restituire loro libertà e dignità. Per questo abbiamo votato “no” alla richiesta della Giunta che negava l’arresto di Cosentino.
Per questo avremmo voluto che il deputatosottosegretario fosse stato, di fronte alla legge, un cittadino comune, un italiano qualunque.

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l’Unità, 23 dicembre 2009 – Serbia in Europa garanzia di pace e stabilità

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GIORNALI2010

Europa, 19 gennaio 2010 – Rosarno colpa di questa Italia

Stavolta Avvenire l’ha messa giù dura, esortandoci, nell’apertura dell’edizione di sabato scorso, a «smetterla di non vedere». L’editoriale di Antonio Maria Mira cominciava così: «Rosarno, Italia: cinquemila immigrati, in gran parte irregolari, pagati (quando va bene) 18-20 euro al giorno per 12-14 ore di lavoro a raccogliere agrumi, ammucchiati in ex fabbriche senza acqua e senza luce, sfruttati…».«Val di Non, Italia: settemila immigrati, tutti regolari, pagati 6,90 euro all’ora per 8 ore di lavoro a raccogliere mele, con vitto e alloggio assicurato dai datori di lavoro, sotto il rigoroso controllo della provincia di Trento e dei comuni della zona. Dietro alla drammatica rivolta degli immigrati africani della Piana di Gioia Tauro, dietro la reazione degli abitanti, sfociata ieri sera in due feroci gambizzazioni, c’è ancora una volta questa Italia spaccata in due, questo paese che, come ha denunciato più volte il capo dello stato, viaggia a velocità diversissime. Due Italie, forse addirittura due pianeti diversi».

Forse dovremmo davvero «smetterla di non vedere». Berlusconi è quello che è, ma il nodo irrisolto della storia della repubblica, il punto su cui si concentra la crisi, non è forse il divario terribile fra il Sud e il Nord? Non è forse questo il vero punto di rottura? Non è da qui che ha avuto origine l’idea federale? «Quell’idea che – come osserva Biagio de Giovanni nel suo ultimo libro – da allora non sarebbe più uscita dal dibattito politico, con – da destra a sinistra: ecco il senso dell’egemonia! – la parola d’ordine “tutti federalisti” (…) e la Lega federalista sembra addirittura diventare paladina di un rinnovamento possibile (l’unico, si comincia a dire) del Mezzogiorno: quante cose può significare l’egemonia!».

Dico di più. Sicuramente il Cavaliere di problemi ha risolto solo qualcuno dei suoi, ma di certo non è la sola fonte dei nostri guai. La mafia, la corruzione, il terrorismo, l’evasione fiscale, il debito pubblico, il disastro della scuola, della giustizia, di Alitalia, delle ferrovie, l’inefficienza dell’apparato pubblico, l’illegalità edilizia, il divario Nord-Sud, c’erano anche prima dell’arrivo di Berlusconi. E forse converrebbe abbandonare l’illusione che una volta tolto di mezzo il Caimano, ritornerà l’età dell’oro. O si pensa davvero che, come va dicendo Di Pietro, Berlusconi sia il fascismo? Non scherziamo: Berlusconi non ha la cultura politica di Mussolini e in Italia non c’è una dittatura fascista. Al contrario, Berlusconi ha aiutato la costituzionalizzazione della destra. Perché gli serviva, naturalmente. Il che non toglie che abbia contribuito anche all’evoluzione della democrazia italiana. Al punto che non sarebbe fuori luogo chiedersi se Berlusconi non stia svolgendo (addirittura) una funzione democratica: dopotutto, ha integrato la destra fascista nella democrazia italiana ed europea e sta tenendo a bada un partito secessionista.

Dico questo perché con il Caimano fuori dai piedi, le cose potrebbero persino peggiorare: con al Nord (un Nord ormai largamente disponibile a una «separazione di velluto » come quella cecoslovacca) un grande partito secessionista in grado di rompere l’argine emiliano e, al Sud, un’alleanza tra clan, formazioni autonomiste e i cocci del Pdl. Non è un mistero per nessuno che oggi il punto di vista della Lega (il peso insopportabile di un Mezzogiorno parassita, improduttivo e preda dell’illegalità criminale) sia ormai diventato senso comune. Anche in conseguenza del fallimento nel Mezzogiorno del compito riformatore che si era assegnato il centrosinistra. Non è un caso che uno come Vittorio Feltri abbia scelto, per l’edizione del Giornale dedicata alla «caccia al negro» scatenatasi a Rosarno, un titolo provocatorio: «Anziché ai negri, sparate ai mafiosi». «Se i calabresi – si legge nel sottotitolo dell’apertura – combattessero la ‘ndrangheta con la stessa foga con cui si ribellano agli immigrati, risolverebbero i problemi della loro regione. Ma preferiscono i criminali agli africani che sgobbano al posto loro: peccato…».E ora, per espandersi elettoralmente, la Lega cerca di riplasmare il senso comune locale, in direzione di un ritorno a un cattolicesimo preconciliare e dell’etnicizzazione della religione. Da qui l’insofferenza crescente verso quella Chiesa che si oppone a xenofobia e tramonto del solidarismo.

Come ha osservato Luciano Violante in una recente intervista: «Dobbiamo fare le riforme. Urge un gesto sano per il nostro paese che, oggi, ha un unico perno attorno cui bene o male ruota: il presidente del consiglio (…) E «l’indebolimento del carisma del capo mette in crisi partito e sistema. Possono naufragare entrambi». Per questo, sostiene Violante, dobbiamo «consolidare il sistema attraverso le riforme». Giusto. Il fatto è che la realtà di tutti i giorni non fa che dimostrare quanto sia velleitario il progetto di restaurare la «democrazia dei partiti» della (non rimpianta) Prima repubblica e quanto sia impraticabile e chimerica la delega ai «professionisti». Per la semplice ragione che non c’è modo di ripristinare il vecchio sistema con un intervento di restauro.

Il bello è che ormai si prende atto che non è più possibile praticare la vecchia forma della partecipazione alla politica, ma si continua a ritenere che quella forma della partecipazione politica e quel sistema politico siano i migliori.

Perciò, si cerca di avvicinarsi il più possibile a quel modello e di salvare più elementi possibili di quella esperienza. Inevitabilmente, chi coltiva questo atteggiamento nostalgico e questa visione conservatrice ha anche una disponibilità incerta, temporanea e reversibile ad emancipare la politica dalle vecchie ipoteche. Finendo per dire una cosa la mattina (le primarie e il maggioritario sono nel dna del Pd) per poi contraddirla la sera (se si può, le primarie è meglio evitarle e sarebbe meglio tornare al proporzionale).

Abbiamo ripetuto fino alla noia che il Novecento è finito. E non possiamo restare impelagati nelle sue macerie. Ha scritto ancora De Giovanni:«Se non si riesce a pensare nel nuovo contesto si resta nel vecchio, dove la gran parte dei dirigenti è stata allevata, e aggirandosi tra i suoi frammenti vi si resta impigliati, e si ritrova quella parzialità delle anime riformiste, quell’avviticchiarsi a spezzoni di idee che non hanno più la forza di una visione complessiva, quel sedersi sulla resistenza di grandi e piccole corporazioni che di volta in volta costituiscono i punti di forza: ora gli studenti, ora i magistrati, ora gli immigrati, spesso elevati, loro malgrado, a soggetti generali della storia».

Dobbiamo cambiare. Evadere dalle vecchie idee. Per non arrenderci all’idea che il Sud è il Sud, l’Italia è l’Italia e che bisogna farsene una ragione.

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Europa, 26 marzo 2010 – Dal predellino all’ampolla

Bossi lo annuncia nei comizi, i giornali lo scrivono in prima pagina, gli analisti lo commentano nei fondi. Il sorpasso della Lega sul Pdl è, per ora, una notizia che non esiste. Dovremmo aspettare lunedì notte o martedì 29 per commentare quel che è successo nelle 13 regioni che si apprestano al voto. Come si sa, in questa settimana, è vietato pubblicare i sondaggi, ma ciò non significa che non si facciano, che non siano tema di discussione interna ed esterna nei partiti o tra gli addetti ai lavori. Dunque se tanta carta è stata utilizzata per discernere del “sorpasso” leghista, qualche appiglio ci dovrà essere.

Quel che mi stupisce non è che se ne scriva. Quel che mi preoccupa è che ci sia chi ritiene che è alla Lega che si affidano anche le speranze del Pd per il dopo elezioni.
Berlusconi è quello che è (anche se spesso si sottovaluta la sua dimensione politica), ma come si fa a non vedere che è la Lega che costituisce il reale (e iniziale) punto di rottura del sistema italiano. Il punto su cui si concentra la crisi non è forse il dualismo italiano? Non è questo il nodo irrisolto, la breccia aperta? Non è da qui che ha avuto origine l’idea federale, vista come la panacea di tutti i mali. E con il federalismo (che ha significato passare dalla questione meridionale a quella settentrionale) non si voleva forse dire che andava rinnovato il “patto” repubblicano? Sono più di vent’anni che la Lega insiste sul peso del Mezzogiorno: improduttivo, parassita, preda dell’illegalità criminale. E oggi comincia ad incassare i risultati della sua fatica. Anche perché la dirompente sfiducia nello stato ne investe ogni livello territoriale e non viene più surrogata dalla fede in un superiore destino europeo. Ormai c’è un pezzo di Nord che del Sud non vuole più sentirne parlare e vuole separare il suo destino dal Mezzogiorno. E c’è un altro pezzo di Nord che non è comunque disposto a tornare alla vecchia Italia. La responsabilità di questo non è soltanto della destra ma anche del fallimento delle politiche e delle culture politiche repubblicane che, in passato, sono state dominanti.

È dalla crisi degli anni novanta che la questione aperta è quella di un profondo cambiamento della cultura nazionale e del modo di stare insieme degli italiani. Ed è da allora che andiamo ripetendo che dalle macerie o dal fallimento di Roma, dello stato nazionale, non si potesse costruire un paese migliore. Ebbene lo penso ancora oggi e mi stupisco che qualcuno coltivi l’illusione che, tolto di mezzo Berlusconi, consegnata l’egemonia dall’uomo del predellino a quello dell’ampolla, si possa aprire uno spazio di cambiamento o di riforme. Oltretutto indolore. Berlusconi è quello che è, ma se la Lega dovesse davvero fare cappotto al Nord e si aprisse nel centrodestra una fase di forte instabilità, potrebbe riproporsi lo scenario che dipingevano i Bossi e i Miglio vent’anni fa: scardinare le istituzioni, creare il caos, dividere l’Italia. E c’è da dubitare che in uno scenario del genere sapremmo (o potremmo) gestire quel dialogo sulle riforme di cui parla oggi Calderoli.

Mentre, vent’anni fa, cominciava a soffiare questo vento, abbiamo saputo far volare qualche speranza. Ricordate la primavera di Napoli? Ricordate come, per qualche anno, siamo stati capaci di unire l’Italia coinvolgendo le amministrazioni, dalla Val D’Aosta alla Sicilia, nelle famose “Cento idee per lo sviluppo” fortemente volute dal ministro del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione economica, Carlo Azeglio Ciampi? Era il 1998, governava Romano Prodi. Bossi dava del piduista e del mafioso a Berlusconi, ma dichiarava a Telelombardia: «Non è vero che la secessione è stata tolta. Il parlamento della Padania eletto da milioni di persone funziona: quello è lo strumento per la secessione. E il 27 settembre si vota per la secessione».
Sono passati molti anni, ora il Senatùr usa soltanto parole di elogio per il suo alleato, reclama posti nella «Roma ladrona». Ma se alle prossime regionali la Lega raccogliesse il malcontento verso Berlusconi, vorrebbe dire che quella speranza di cambiamento che abbiamo suscitato e poi fatto sopire sotto cumuli d’immondizia, ha trovato dove andare. E non è venuta da noi.

Abbiamo idee, donne e uomini da contrapporre a Berlusconi e a Bossi. Dobbiamo vincere su queste basi. Rivolgendoci anche a quei settori di classe media indipendente del Nord non catturabile dalla Lega e dal tremontismo, perché, come scrive oggi Panebianco, «delusi dalla dismissione del programma liberista» e «refrattari alle chiusure del comunitarismo leghista».Niente scorciatoie, né il cielo, né i giudici, né la Lega possono liberare l’Italia da un governo che non si merita. L’alternativa passa per la nostra credibilità e per speranze che, stavolta, non dovremmo deludere.

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Europa, 8 aprile 2010 – Coraggio, presidenzialismo e federalismo

«Gli italiani – ha detto lapidario Bossi commentando alla radio l’esito delle elezioni – vogliono il cambiamento. E la Lega è il cambiamento». E, aggiungo io, il centrosinistra è l’immagine della conservazione.
Se così stanno le cose, stavolta dovremmo sfidare quella che è stata descritta da due esponenti del progressive liberalism americano come la “politics of evasion”, cioè la politica della scappatoia, dello sfuggire ai problemi. I due usarono questa frase per riassumere quello che ai loro occhi era stato il ripetuto rifiuto dei democratici negli Stati Uniti di guardare in faccia la drammatica perdita di fiducia nel partito tra gli elettori, seguita da una serie di sconfitte consecutive nelle elezioni presidenziali.
Troppi americani erano arrivati a vedere i democratici come disattenti ai loro interessi economici, indifferenti se non ostili ai loro sentimenti morali e inefficaci nella difesa della loro sicurezza nazionale. Invece di affrontare la realtà, parecchi democratici scelsero di abbracciare la «politica dell’evasione», ignorando i problemi fondamentali del loro partito.
Diedero la colpa della sconfitta a ogni genere di cose: alle scarse sottoscrizioni e alla tecnologia inadeguata, alla debole presenza nei media, alle personalità, alle leadership “sbagliate”, al fallimento nel mobilitare la “base tradizionale”, costruirono scuse allo scopo di evitare di confrontarsi i problemi e le domande di fondo per un progetto di cambiamento.
In questo siamo bravissimi anche noi, ma stavolta dovremmo resistere alla tentazione: i problemi sono senza dubbio difficili, ma è ora di affrontarli.
Tanto per capirci, sul Corriere della sera, Giovanni Sartori sostiene che «l’interesse prioritario di tutte le opposizioni» sia quello «di battersi per un sistema elettorale meno iniquo » e che il Pd dovrebbe puntare «sul sistema tedesco tenacemente chiesto da Casini». Ora, ammesso e non concesso che sia auspicabile il ritorno ai governi fatti e disfatti in parlamento, perché mai Berlusconi dovrebbe concedere quel proporzionale senza premi? Ma il punto è un altro: l’interesse prioritario del Pd devono essere gli italiani. Anzi, per salvare se stesso deve occuparsi dei problemi del paese. Detto altrimenti, il Pd deve porsi una domanda che viene prima dei marchingegni elettorali e delle alleanze: come mai (anche in condizioni dovunque molto difficili per chi governa, anche in una situazione di malcontento diffuso) gli elettori non riescono a vedere nel Pd e nel centrosinistra una alternativa credibile? Senza dubbio le tradizioni, le culture politiche, da cui è derivato il Pd hanno perso da tempo consistenza e presa sulla realtà e sono inadeguate a interpretare le domande del Paese.
Ma senza idee nuove non si andrà da nessuna parte. È dalla crisi degli anni Novanta che la questione aperta è quella di un profondo cambiamento della cultura e del modo di stare insieme degli italiani. E la persistente sottovalutazione della dimensione politica di Berlusconi (fino alla attribuzione consolatoria di un carattere antiberlusconiano al successo della Lega) è la prova del nostro smarrimento.
Eppure, a modo loro, sia la Lega che Berlusconi sono l’espressione di un grande rivolgimento iniziato nel secolo scorso: la sollevazione dei ceti produttivi (dipendenti, imprenditori, agricoltori, professionisti, commercianti, artigiani e altri lavoratori del settore privato) contro la truffa e lo sfruttamento di una classe politico-burocratica che, spacciandosi per paladina dell’interesse generale, si appropria da quasi cent’anni di una parte sempre più cospicua del loro reddito, riuscendo a vivere ed arricchirsi nell’ozio, nella sicurezza e nel privilegio, alle spalle di chi lavora nella fatica e nell’insicurezza tipiche di ogni attività di mercato.
Questa sollevazione antiburocratica e antistatalista, una vera e propria rivolta dei produttori, è il filo rosso che collega la svolta reaganiana in America, quella thatcheriana in Gran Bretagna, quella antisocialista in Germania, Belgio, Scandinavia e Francia e perfino (fatte salve le ovvie specificità) quella anticomunista all’Est. Con questa «cosa», nella versione di casa nostra, dobbiamo fare i conti. La maggioranza moderata non è un castello di carte destinato a cadere all’improvviso. E proprio l’illusione che una volta sparito il Caimano ritornerà l’età dell’oro, impedisce di vedere e di comprendere la domanda di cambiamento del paese.
Continuo a ritenere che anziché inseguire alleanze improbabili, il Pd debba scommettere sul fatto che possa avvenire, in futuro, un mutamento nelle propensioni degli elettori. Ma per conquistare nuovi elettori bisogna cambiare. E oggi quel che occorre non è il ritorno alle antiche certezze, ma il dichiarato superamento di vecchi atteggiamenti e vecchie posizioni. Proprio per stare dalla parte degli italiani. Il problema fondamentale del paese è quello di una modernizzazione mancata. Ed è proprio lo stato il nostro peggior problema. Cioè la gravissima crisi di efficienza e affidabilità del sistema politico-istituzionale.
E visto che la nostra repubblica è già cambiata (in modo magari imprevisto) e oggi risulta incompiuta, a metà; visto che da un pezzo la premiership è diventata la vera e fondamentale posta in gioco, perché allora non è il centrosinistra ad avanzare e precisare il tema del presidenzialismo come compimento necessario dell’Italia federale? Una volta tanto, come se Berlusconi non ci fosse e a starci a cuore fossero solo gli italiani.

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Left – Avvenimenti n.12, 26 marzo 2010 – Carcere, basta coi fortini

«La violenza si riduce anche con condizioni migliori per i detenuti». Di fronte all’ennesimo morto in cella, il vicepresidente dei deputati Pd torna a parlare di giustizia.

di Sofia Basso

Di nuovo un morto in circostanze sospette, di nuovo mentre era sotto custodia dello Stato. Il caso di Giuseppe Uva, deceduto nel 2008 dopo essere stato trattenuto in una caserma di Varese, si aggiunge a quelli già noti di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino e di tutti gli altri cittadini fermati in buone condizioni di salute dalle forze dell’ordine e restituiti alle loro famiglie cadaveri e pieni di lividi. Ne abbiamo parlato con Alessandro Maran, vicepresidente dei deputati Pd, tra i firmatari di una mozione sul carcere approvata all’unanimità a gennaio:«Servono educatori e lavoro. Utilizziamo i fondi delle ammende per le misure alternative». Per ridurre la violenza e rispettare la Costituzione.

Ennesima morte sospetta in carcere: il Pd cosa dice?

Dobbiamo chiedere conto al governo: è evidente che qualcosa non ha funzionato. Devono chiarire cosa è successo, come e perché. Non è tollerabile che persone consegnate alla responsabilità dello Stato entrino vive ed escano morte. Appena si riconvoca l’aula dopo le lezioni presenteremo una interrogazione e chiameremo a riferire il ministro. Su questo insisteremo. Anche perché non si tratta di un episodio isolato:l’elenco è ormai lungo, come dimostrano i dossier annuali. La legittimazione dello Stato a punire non può prescindere dal modo in cui ciò viene svolto. La violenza in carcere, sia da parte degli operatori che tra i detenuti, si genera spesso in un contesto di sovraffollamento, degrado e condizioni sanitarie intollerabili.

Che proposte avete per migliorare la situazione?

A gennaio abbiamo approvato una mozione sul carcere, votata all’unanimità anche dalla maggioranza, in cui chiediamo di assumere nuovi educatori e puntare sulle misure alternative. In Italia i detenuti sono tornati ad essere 65mila, 20mila in più del previsto. Di questi, 30mila sono in attesa di giudizio, altri 30mila stanno in carcere meno di 11 giorni in un anno. Il carcere totale, il fortino, è necessario solo per 10mila detenuti. Come si fa all’estero: nella vicina Spagna il fortino è riservato solo alla criminalità organizzata. Gli altri lavorano dentro e fuori il carcere. Se il fine ultimo è il recupero sociale, il reinserimento come dice la Costituzione, la pena deve essere certa ma non rigida. Noi proponiamo di utilizzare i fondi della Cassa ammende, 159 milioni di euro, per le misure alternative. Anche perché i dati ci dicono che chi lavora ha una recidivia del 19 per cento, contro il 68 per cento di chi sta in carcere. Una differenza enorme. Con metà dei detenuti in carcere, tra l’altro, ci sarebbero anche notevoli risparmi economici.

Oggi invece come sono destinate le risorse?

In questi anni abbiamo assistito alla crescita non della criminalità ma della criminalizzazione. Gli stranieri sono ormai il 38 per cento dei carcerati, poi ci sono i tossicopidendenti e i malati psichici. Mentre cresce l’intervento penale, diminuiscono gli interventi socio-sanitari: mancano psichiatri, assistenti sociali e, soprattutto, educatori. Prevale la custodia rispetto alla rieducazione individuale. La polizia carceraria rappresenta l’80 per cento del costo dell’amministrazione. Sono 43mila mal utilizzati, dispersi in tante piccole carceri: l’80 per cento delle strutture italiane ha meno di 300 detenuti, senza economia di scala. L’idea che tutto si risolva solo con nuove carceri e nuovi poliziotti è sbagliata. Bisogna ripensare il modello di istituto penitenziario.

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GIORNALI2010

Europa, 28 aprile 2010 – Magari il modello Westminster

I dibattiti televisivi tra Gordon Brown, David Cameron e Nick Clegg (mandati in onda da Sky Tg24) andrebbero trasmessi a reti unificate. Nei sondaggi, lo spostamento dell’opinione degli elettori inglesi non è mai stato così ampio e le elezioni del 6 maggio potrebbero riscrivere le regole della politica inglese.
Nick Clegg ne ha indubbiamente approfittato del confronto tv per mettersi in vetrina. Ma la dimensione insospettata del gradimento per la sua performance suggerisce che gli elettori stanno facendo qualcosa di più che scegliere il vincitore di un concorso di bellezza. La questione che si pensava avrebbe dominato la campagna elettorale, l’enorme buco nei conti pubblici, è stata dimenticata (anche se tagliare la spesa sarà la vera sfida) e, come ha osservato Philip Stephens sul Financial Times, la campagna ora si basa su quel che pensano gli elettori della politica e dei politici. E non ne pensano molto bene, alle prese con una dolorosa recessione e con lo scandalo dei rimborsi spese gonfiati dai deputati, che hanno fatto scoprire all’opinione pubblica inglese l’esistenza di una «casta» che abusa dei propri privilegi.
La fortuna o il genio di Nick Clegg è stato quello di un uomo di partito che ha assunto la guida del partito dell’antipolitica.
Eppure, Clegg è uno dei figli più coccolati dell’establishment e, prima diventare un libdem, a lungo si è trastullato con l’idea di aderire ai conservatori; e quanto alle politiche, ha alcune idee sensate sulle libertà civili e la politica estera e alcune idee («strampalate», scrive il Ft) sulle tasse. Ma non importa.
Quel che davvero conta è il riferimento continuo agli old parties, labour e conservatives, i partiti vecchi ed esausti.
Ecco, seguire il confronto tra i tre leader inglesi ci aiuterebbe a tenere presente che i tempi sono parecchio cambiati.
Da quant’è che dalle nostre parti si discute della crisi della politica come se l’erosione della fiducia fosse dovuta a fattori propri solo del nostro paese? Certo, gli italiani non ne possono più delle distorsioni della politica, ma in realtà in tutte le società industriali avanzate la gente è diventata più autonoma e sfida le élite. L’accrescersi della sicurezza esistenziale, le condizioni di prosperità economica raggiunte dalle società industriali avanzate, hanno generato, come ha documentato Ronald Inglehart, una nuova visione del mondo che si accompagna alla de-enfatizzazione di tutte le forme di autorità (da quella burocratica a quella religiosa, come stiamo vedendo) e a un’erosione di molte delle istituzioni chiave.
In un libro pubblicato non molto tempo fa da Polity Press con un titolo emblematico, Why We Hate Politics, Colin Hay ha esaminato le ragioni della disaffezione per la politica e del disimpegno nelle società occidentali.
Hay osserva che, tanto negli Usa che nel Regno Unito, i dati sembrano suggerire tre cause principali.
In primo luogo, la (percepita) tendenza delle élite politiche di rovesciare l’interesse pubblico collettivo nella gretta ricerca dell’interesse di partito o personale. In secondo luogo, la (percepita) tendenza delle élite politiche di finire preda dei grandi interessi. Infine, la (percepita) tendenza del governo all’uso inefficiente delle risorse pubbliche.
Tutte cose che dovrebbero suonare familiari anche alle nostre orecchie. Bisognerà, prima o poi, farsene una ragione: oggi nessuno partecipa più alla politica come in passato.
Per questo bisogna passare definitivamente da una concezione e da una pratica politica fondate su una dichiarazione e una scelta di appartenenza a quelle fondate sulla responsabilità della scelta per il governo del paese. Specie se si considera che il nostro paese deve fare i conti non solo con il malessere che, dovunque in Occidente, circonda l’attività politica, ma anche con una dirompente sfiducia nello stato. Una costante nella storia nazionale che la mancata modernizzazione del paese ha aggravato al punto che oggi è in discussione la stessa unità nazionale. Naturalmente per i «costituenti» impegnati nell’ormai trentennale dibattito sulle riforme, la frequenza alle «lezioni di inglese» dei leader britannici è obbligatoria.
Se non altro, per mandare a memoria l’ammonimento di Giovanni Sartori: «Occorre ricordare che la costruzione di un sistema di premiership sfugge largamente alla presa dell’ingegneria costituzionale. Le varianti britannica o tedesca di parlamentarismo limitato (di semi-parlamentarismo) funzionano come funzionano soltanto per la presenza di condizioni favorevoli». Se ancora ce ne fosse bisogno, la meschina campagna delle regionali, lo scontro tra il premier e il presidente della camera, l’attesa rinascita di un grande centro e la stessa ipotesi di un Cln, mostrano che l’idea di trapiantare il modello Westminster alle nostre latitudini è fatta, direbbe un altro grande inglese, della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni.

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GIORNALI2010

Il Foglio, 7 maggio 2010 – Un altro giovane capo del Pd interviene con libertà di tono sulla giustizia e sul caso Scaglia

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