Monthly Archives: Ago 2015

GIORNALI2013

Il Gazzettino, 17 gennaio 2013 – «Hanno fatto sparire l’area moderata»

 

Com’era prevedibile, nei giorni scorsi sui giornali è andata in scena, «l’ira del partito contro il traditore». «Non trovo giustificazioni – ha sentenziato Debora Serracchiani. E’ una scelta personale che non può essere ammantata da valore politico. Anche perché i riformisti in questo momento sono nel centrosinistra e perché Monti non è un riformista. Inoltre – ha concluso – non credo affatto che al’interno del Pd non sia rappresentata la cosiddetta area moderata». Per Gherghetta sono «semplicemente» andato da chi mi «garantiva la busta paga». Una «scelta personale»? Comprendo il nervosismo che si cela dietro le scomuniche e i giudizi sprezzanti che, come nei tempi andati, lasciano intendere che «anche nella criniera di un nobile cavallo da corsa si possono sempre trovare due o tre pidocchi». E potrei ironizzare a lungo su quanto le «scelte personali» abbiano contato nelle decisioni della segretaria del Pd. Ma la questione è molto semplice: se avessi pensato unicamente alla «busta paga» in questi anni mi sarebbe bastato stare con la maggioranza e sostenere Bersani. Come hanno fatto in tanti. Anche quelli che si erano schierati dalla parte opposta, prima con Veltroni e poi con Franceschini. Avrei potuto adeguarmi semplicemente alla maggioranza e tenere la bocca chiusa. Senza contare che, se avessi fatto il bravo, mi avrebbero «recuperato» in qualche modo, come in molti ora lasciano intendere. Ma io non voglio fare il bravo. La politica è lo spazio della scelta. Che per me non ci sia posto in lista può capitare, ma che non ci sia posto per un’ intera area politico-culturale è inammissibile. E poi: sostenere, come ha fatto Serracchiani, che Monti non è un riformista è un’altra sciocchezza. Di più: oggi «Riformismo versus Populismo» è la dicotomia che spiega il tempo che ci è dato vivere. Ora solo dalla collaborazione tra Bersani e il polo riformatore di Monti è possibile immaginare che il governo del Paese resti orientato in direzione del riformismo contrastando il populismo diffuso in tutti gli altri partiti in gara (Berlusconi, Grillo, Ingroia) e neutralizzando le spinte conservatrici. E il Pd farebbe bene a tenerlo a mente. Anche perché su tutti i temi dell’agenda politica che verrà – come si affanna a ripetere il presidente Napolitano – «saranno necessari nel nuovo Parlamento sforzi convergenti, contribuiti responsabili alla ricerca di intese». Potrà non piacere a molti nel Pd, ma la strada da seguire è quella dell’iniziativa di quest’anno del presidente Monti. Come l’area liberal ha, appunto, cercato di indicare con l’iniziativa per l’agenda Monti del luglio scorso. Quei riformisti che il Pd non ama e non vuole tra i piedi.

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GIORNALI2013

Il Gazzettino, 22 gennaio 2013 – GIÀ VACILLA L’ASSE FRA PD E SEL

 

di ALESSANDRO MARAN

La campagna elettorale è appena cominciata e già la prima (grave) crisi internazionale si è incaricata di dimostrare quanto sia precario l’accordo tra Partito democratico e Sinistra e libertà. Le prime divergenze tra gli alleati Pd e Sel si sono consumate proprio in questi giorni sull’intervento militare deciso da Francois Hollande in Mali. Bersani difende la decisione del presidente socialista francese e Vendola non è d’accordo.
Come da copione, la collocazione internazionale dell’Italia fa vacillare il progetto di alleanza di governo del Pd. Anche stavolta la comunità internazionale è direttamente coinvolta (a cominciare dalle Nazioni Unite, il cui rappresentante speciale per il conflitto nel paese è Romano Prodi) e l’accelerazione della crisi ha reso del tutto evidente che il rapido contagio regionale può arrivare fino alle coste mediterranee.
E qui diventa più chiaro l’interesse dei paesi europei per quanto accade nel paese subsahariano – compresa la decisione del governo italiano (come di quello tedesco) di contribuire alle operazioni internazionali, per ora con una forma di supporto logistico. L’Algeria è un attore di notevole importanza come fonte di approvvigionamento energetico, soprattutto per l’Italia.
Ma alla vigilia di un probabile nuovo governo di centrosinistra non è cambiato molto rispetto ai tempi dell’Unione di Romano Prodi.

(*) Capolista al Senato

“Con Monti per l’Italia”

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GIORNALI2013

Il Gazzettino, 30 gennaio 2013 – ‘Il caso Moretton in Fvg e la riforma europea del Paese’

 

Anche Gianfranco Moretton, capogruppo del Pd in consiglio regionale, ha lasciato il partito. Anche stavolta si è parlato di «scelta personale» e di «caccia alle poltrone». Ovviamente ciascuno è libero di pensarla come crede, ma se l’asse destra-sinistra come modo di sintetizzare il menù offerto agli elettori è in crisi, se è in crisi il bipolarismo belluino del recente passato, se «gli schemi sono stati scompaginati», è tutta e solo colpa del «vecchio che rispunta»? Non sta accadendo qualcosa di più profondo nella politica italiana?

Il fatto è che oggi è in gioco la piena integrazione dell’Italia in Europa. E lo spartiacque fondamentale della politica italiana è tra chi è convinto che la strategia migliore per uscire dalla crisi sia quella concordata con i nostri partner europei e chi invece è convinto che proprio questa strategia sia la rovina del Paese; tra chi vuole cogliere l’occasione offerta dalla crisi per innescare un processo di rapido allineamento dell’Italia ai migliori standard europei e chi pensa che questo progetto sia velleitario o addirittura dannoso (perché «l’Italia è diversa», perché «in Italia queste cose non si possono fare», ecc.). Mi spiego con un esempio: nei paesi dell’Unione e dell’Ocse c’è una forza di polizia per il controllo capillare del territorio e una forza di polizia per il contrasto della grande criminalità. In Italia ci sono sei diverse e autonome forza di polizia, senza contare la polizia municipale, spesso in competizione l’una con l’altra e ciascuna incaricata di occuparsi di tutto, ben al di la della propria specializzazione. La conseguenza è che otteniamo, spendendo tre punti di Pil (il 30% in più della Germania), risultati decisamente inferiori a quelli degli altri. Ecco il benchmarking: possiamo fare «come in Europa»? E’ su questo punto (le riforme necessarie per la piena integrazione dell’Italia nella nuova Europa) che (anche) nel Pd vivono due anime diverse. Stante le contraddizioni nella linea del Pd (per tacere del resto: come da copione le prime divergenze tra Pd e Sel si sono consumate proprio in questi giorni sull’intervento militare deciso da Francois Hollande in Mali), siamo in molti a pensare che il modo più efficace per tenere stabilmente il governo italiano sul versante giusto rispetto allo spartiacque fondamentale (pro o contro la riforma europea dell’Italia) non sia restando nel Pd, ma sostenendo la nuova forza politica che sta nascendo attorno all’Agenda Monti. Di più. Il vecchio schema politico che contrappone una destra conservatrice o liberista a una sinistra progressista o statalista non corrisponde più a ciò che effettivamente accade nella politica italiana.

La scelta più rilevante che il Paese può (e a nostro avviso deve) compiere è quella pro o contro la profonda trasformazione dell’Italia, in contrapposizione alle forze conservatrici, corporative  e anti europee. Oltretutto, la riforma europea dell’Italia è quanto di più utile possiamo fare per combattere le disuguaglianze e ristabilire l’equità intergenerazionale. Ed è su questa scelta che dovrebbe concentrarsi la campagna elettorale.

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Social News – Numero 1 – Gennaio 2013 – www.socialnews.it – L’impoverimento umano

 

Siamo di fronte a un reale impoverimento umano, oltre che intellettuale, con rilevanti ripercussioni anche dal punto di vista sociale, visto che il livello di istruzione è in relazione anche con elementi quali l’aspettativa di vita o la partecipazione al voto.

Stando al rapporto Istat Migrazioni internazionali e interne della popolazione residente, negli ultimi dieci anni, il numero dei giovani laureati italiani che ha lasciato il Paese verso mete più attraenti, è quasi triplicato. Il rapporto registra, inoltre, a conferma di una sempre più marcata ‘fuga dei cervelli’, una significativa modifica della distribuzione dei flussi in uscita rispetto al titolo di studio posseduto: la quota di laureati, rispetto al totale degli ‘esuli’ passa dall’11,9% del 2002 al 27,6% del 2011, mentre la quota di espatriati con licenza media scende dal 51% al 37,9%. Una vera e propria emorragia di risorse intellettuali che metteranno a frutto le proprie potenzialità altrove e un concreto danno economico per l’Italia. Secondo l’Ocse, infatti, il costo sostenuto dallo Stato per la formazione di un giovane – che studia in media 13 anni per ottenere il diploma e ulteriori 5 anni per arrivare alla laurea – ammonta a 164.000 dollari (circa 124.000 euro). Una cifra che, moltiplicata per il numero dei laureati in fuga (68.000 nell’intero decennio), raggiunge la ragguardevole somma di otto miliardi e mezzo di euro. Un investimento a perdere al quale andrebbe aggiunta la conseguente perdita di competitività per il nostro sistema produttivo. Va da se che, al giorno d’oggi, il fatto che giovani neolaureati vadano a lavorare in Università e centri di ricerca di altre Nazioni appare fisiologico, perché legato alla forte globalizzazione della ricerca. I grandi centri di ricerca attirano persone brillanti provenienti da tutto il mondo. E la mobilità degli studiosi è un fenomeno antico e, di per sé, un fattore di arricchimento culturale e professionale perché la ricerca non conosce frontiere. Inoltre, è perfettamente comprensibile il desiderio dei giovani laureati di sperimentare nuove strade altrove, soprattutto in considerazione del fatto che, in Italia, contrariamente a quanto accade negli altri Paesi europei, l’istruzione a livello universitario non garantisce affatto maggiori tassi di occupazione. Non è un mistero per nessuno che molti giovani neolaureati interessati ad utilizzare e sviluppare le proprie capacità lascino l’Italia poiché non riescono a trovarvi posizioni adatte, ben remunerate e con prospettive di carriera. Tuttavia, ci troviamo di fronte ad un reale impoverimento umano, oltre che intellettuale, con rilevanti ripercussioni anche dal punto di vista sociale, visto che il livello di istruzione è in relazione anche con elementi quali l’aspettativa di vita o la partecipazione al voto, specie se si considera che il problema nasce quando il saldo tra studiosi e laureati che lasciano un Paese e quelli che vi ritornano o vi si trasferiscono risulta negativo. Il problema nasce non solo e non tanto perché i nostri giovani se ne vanno, ma anche perché da noi non viene nessuno. Il che la dice lunghissima sui problemi del Paese, sul nostro mercato del lavoro e sui tre giacimenti di domanda di lavoro ignorati (solo che si consideri gli sklill shortages, il difetto gravissimo dei servizi di orientamento scolastico e professionale, una domanda di servizi inespressa ed un enorme problema di investimenti esteri). Negli Stati Uniti, un territorio paragonabile all’Unione europea, è normale trasferirsi da uno Stato all’altro in cerca di opportunità di vita e di lavoro, ma tra gli Stati si compete, appunto, per attrarre capitali e risorse umane. Come si affanna a ripetere Pietro Ichino, bisogna superare il regime di apartheid fra lavoratori protetti e non protetti, abbattere il muro che impedisce l’incontro tra chi ha bisogno di opere e servizi e chi può offrirli e, soprattutto, bisogna rovesciare il modo in cui abbiamo guardato fin qui il mercato del lavoro: nell’era della globalizzazione, esso non è più soltanto un luogo dove gli imprenditori selezionano ed ingaggiano i lavoratori, ma anche un luogo dove i lavoratori stessi possono selezionare ed ingaggiare il meglio dell’imprenditoria mondiale. Dopo la Grecia, l’Italia è il Paese europeo meno capace di attrarre investimenti stranieri. Secondo il comitato investimenti esteri, se la nostra Nazione riuscisse ad allinearsi con la media europea, ne risulterebbe un flusso di investimenti in entrata pari a circa 30-35 miliardi l’anno. Se, in questi anni, avessimo avuto la stessa capacità di attrazione dell’Olanda, che occupa una posizione mediana nella classifica europea, avremmo registrato un maggiore flusso annuo di investimenti in entrata pari al 3,6 % del nostro Pil. Per capirci: circa 29 volte l’investimento che Marchionne ci ha proposto nel 2010 con il piano “Fabbrica Italia”. Fosse anche soltanto la mèta, il maggior flusso di investimenti in entrata porterebbe con se dai 200.000 ai 300.000 nuovi posti di lavoro ogni anno. Senza contare che, nelle imprese a capitale e management straniero, il lavoro è più produttivo e meglio retribuito. Manco a dirlo, la cause della cattiva performance del nostro Paese nel mercato globale sono diverse: i difetti delle nostre infrastrutture, la burocrazia, il collasso della giustizia civile, il costo dell’energia, la criminalità organizzata, la legislazione del lavoro caotica, il sistema di relazioni industriali, ecc. Dobbiamo cambiare. La globalizzazione indebolisce i lavoratori italiani mettendoli in diretta concorrenza con i lavoratori di tutto il mondo. Questo indebolimento potrebbe essere ampiamente compensato da un altro effetto della globalizzazione stessa: la possibilità di mettere in concorrenza, in casa nostra, sul versante della domanda di manodopera, gli imprenditori di tutto il mondo, soprattutto i migliori tra loro. È il discorso che fece Tony Blair alle Trade Unions verso la metà degli anni ’90: “Noi rappresentiamo l’1% della popolazione del pianeta. Se scegliamo di tenere fuori dal nostro territorio gli imprenditori stranieri, il risultato in tutti i settori in cui non sono i nostri imprenditori ad eccellere, sarà quello di privarci degli imprenditori migliori. Sarebbe un errore gravissimo. Al contrario, se sapremo attirare in casa nostra il meglio dell’imprenditoria mondiale, questo si tradurrà non soltanto in un afflusso di capitali che porteranno domanda aggiuntiva di lavoro, ma anche in un aumento della produttività del lavoro, quindi margini di miglioramento dei terms and conditions del lavoro nel Regno Unito”. Lo stesso discorso vale per noi. Chiuderci agli investimenti stranieri significa tenerci le conseguenze negative della globalizzazione senza approfittare delle assai più rilevanti conseguenze positive che essa può offrire. A chi dubita ancora dello slogan “Hire Your Best Employer” basterebbe forse ricordare che “salvare l’italianità” di Alitalia ci è costato circa tre miliardi, più la colossale tassa monopolistica che ogni giorno i viaggiatori pagano alla nostra compagnia di bandiera sulle grosse tratte interne. Ed è solo un esempio.

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The Report, 2 febbraio 2013 – Il Pd di Bersani ha eliminato un’intera area politico-culturale

 

Il Pd di Bersani ha eliminato un’intera area politico-culturale

The Report, 2 febbraio 2013

 

di Giacomo Lagona

 

Alessandro Maran è attualmente capogruppo del Partito Democratico in Commissione Esteri e Vice Presidente del gruppo parlamentare del Pd alla Camera. È stato eletto per la prima volta alla Camera dei Deputati per l’Ulivo con il sistema maggioritario nel collegio di Gorizia; una seconda volta col Porcellum nel 2006 ed una terza nel 2008. Lo scorso anno, alle primarie del centrosinistra, ha appoggiato la candidatura a premier della coalizione del sindaco di Firenze Matteo Renzi. Alle primarie per i parlamentari del 30 dicembre scorso non ha partecipato; dopo pochi giorni ha accettato la candidatura al Senato, per le politiche del 24 e 25 febbraio, come capolista in Friuli Venezia Giulia con la lista “Con Monti per l’Italia“. L’abbiamo incontrato a Gorizia e ci siamo soffermati sugli avvenimenti che hanno reso possibile il suo passaggio dal Pd a Monti.

 

Onorevole Maran, l’ultima volta che ci siamo incontrati è stato ad un evento per le primarie del centrosinistra nel quale eravamo entrambi relatori. Nel frattempo Bersani ha vinto quelle primarie, si sono fatte le Parlamentarie del Pd – dove tra l’altro lei non si è nemmeno candidato – e il successivo passaggio dai Democratici a Scelta Civica con Monti. È successo di tutto in questi pochi mesi, anzi: ci spiega cosa è successo?

– In poche parole, Bersani ha scelto di silenziare l’ala destra del partito. L’area politica che in questi mesi ha ininterrottamente sottolineato l’esigenza di porre l’Agenda Monti al centro della prossima legislatura. Il che, ovviamente, non significa ignorare gli errori e le lacune nell’operato del governo Monti nel corso di quest’anno. Il punto cruciale non è neppure il ruolo istituzionale che avrà Monti dal marzo prossimo, ma quell’Agenda, cioè la nostra strategia europea, le riforme necessarie per la piena integrazione dell’Italia nella nuova Europa. Questo è oggi il discrimine fondamentale della politica italiana. Abbiamo lavorato perché il Pd resti saldamente sul versante giusto rispetto a questo spartiacque. Ma ci hanno messo alla porta. Salvo Giorgio Tonini (ma solo perché in Trentino si vota con il Mattarellum), nessuno dei parlamentari democratici che hanno promosso l’appello e le assemblee nel luglio scorso e poi ancora a settembre è stato ricandidato. Ho preso atto che per i “montiani” non c’è più posto nel Pd.

Tra gli esclusi del Pd alle politiche di fine mese, in molti hanno appoggiato Matteo Renzi alle primarie. Se inizialmente si poteva pensare ad una sorta di vendetta postuma dell’establishment verso quel 5% scarso di parlamentari che avevano appoggiato il sindaco di Firenze, all’indomani della presentazione delle liste si è notato come il taglio sia stato trasversale e bipartisan. Perché Alessandro Maran non è in quella lista? È plausibile che il suo lavoro in commissione Esteri e come vice capogruppo alla Camera non sia stato apprezzato da qualcuno in grado di gestire profondamente le candidature? Insomma Maran, chi è il suo nemico?

– Non è un caso personale. C’è una volontà evidente di restringere i confini del Pd marcando una frontiera netta con Monti. Il Pd ha scelto di bandire una precisa area politico-culturale: non solo da una lista elettorale, ma dallo stesso progetto politico del partito. E mentre si libera di parlamentari competenti e preparati come Stefano Ceccanti o Lanfranco Tenaglia, candida Mario Tronti. Il fatto è che il Pd ha trovato consenso su una deriva identitaria. Lo slogan congressuale di Bersani («Trovare un senso a questa storia»), dove l’uso della storia è al singolare, era rivelatore. E’ prevalsa la logica di chi, per paura, sotterra i talenti, ripiega sulle tradizioni consolidate. Un tradimento.

Appena due giorni prima che annunciasse il passaggio con Monti, lei scrisse sul suo sito che le voci che circolavano su un suo presunto accasamento con il Presidente del Consiglio erano tutte baggianate giornalistiche. Due giorni dopo quellebaggianate sono risultate fondate. Pur considerando che Bersani, secondo alcuni detrattori, avrebbe giocato sporco non includendo nel suo listino quei parlamentari con competenze specifiche come potrebbero essere le sue; tra l’opinione pubblica serpeggia invece l’idea che il suo accasamento con Monti sia dovuto esclusivamente all’arte tutta politica di tenersi stretta la poltrona anche quando sarebbe il caso di mollarla. Cosa è successo di tanto importante in due giorni da farle cambiare idea?

– Ciascuno è libero di pensarla come crede, ma se avessi pensato unicamente alla “poltrona” in questi anni mi sarebbe bastato stare con la maggioranza e sostenere Bersani. Come hanno fatto in tanti. Anche quelli che si erano schierati dalla parte opposta, prima con Veltroni e poi con Franceschini. Sarebbe bastato che mi adeguassi alla maggioranza e tenessi la bocca chiusa anziché battermi apertamente con l’iniziativa per l’Agenda Monti e una grande quantità di interventi e prese di posizione che chiunque può trovare sul mio sito. Ora che per me non ci sia posto in lista può capitare. Che non ci sia posto per un’intera area politico culturale è inammissibile. E di questo ho preso atto solo dopo la riunione della Direzione nazionale. Il che spiega l’incoerenza tra le due dichiarazioni e rivela anche che non avevo architettato la fuga.

Lei ha deciso di sostenere Monti e di candidarsi come capolista al Senato nella circoscrizione Friuli Venezia Giulia. Che tipo di risultato personale si aspetta, e che tipo di risultato della lista in regione?

– Oggi la scelta che il Paese deve compiere è quella pro o contro la profonda trasformazione dell’Italia. E’ su questa scelta che dovrebbe concentrasi la campagna elettorale. Mi aspetto che gli italiani comprendano la posta in gioco e sostengano lo sforzo di Mario Monti. Sarebbe una novità “eversiva”, in grado di scompaginare in bipolarismo belluino del recente passato.

Tra le regioni che entro l’estate cambieranno amministrazione, ad aprile si voterà anche nel suo FVG. Tutti i sondaggi danno Debora Serracchiani (csx) e Renzo Tondo (cdx) praticamente a pari merito; considerando l’uscita del capogruppo regionale Pd Moretton – in procinto di creare una lista civica regionale per Monti – e tenendo ben presente che la legge elettorale regionale prevede l’elezione automatica solo per i due candidati governatori che si piazzeranno in testa, secondo lei come si posizionerà un’ipotetica lista Monti regionale, e quale sarà lo scenario politico nella sua regione dopo le elezioni di aprile?

– Oggi il vero discrimine della politica italiana non è quello tra la sinistra di Bersani-Vendola e la destra di Berlusconi-Maroni. Il vero discrimine è tra chi è convinto della strategia che abbiamo concordato con i nostri partner europei per uscire insieme dalla crisi, e quanti, (come Vendola, Berlusconi, Maroni e parecchi dirigenti del Pd) sono convinti che proprio quella strategia sia la causa dei nostri mali. Queste sono le due alternative tra cui gli italiani devono scegliere il 24 febbraio. La “salita in campo” di Mario Monti mira a creare un nuovo bipolarismo positivo, sulla linea di discrimine che conta davvero per il Paese. Vale anche per la nostra Regione, che dovremmo provare finalmente rivoltare come un calzino. Una nuova formazione concorrenziale con la vecchia destra e la vecchia sinistra potrebbe buttare all’aria i vecchi equilibri. Alle primarie, lo slogan di Renzi (e prima ancora quello di Franceschini) era “Adesso!”. Non “dopo” o “tra un’po’”. Adesso! E non ho cambiato idea.

Perché non ha partecipato alle primarie per i parlamentari?

– Le primarie sottintendono un confronto. E il confronto, tra Santo Stefano e l’ultimo dell’anno, non ci poteva essere. Il metodo prescelto presupponeva un consenso territorialmente molto concentrato e il sostegno della corrente di maggioranza del partito. Non è il mio caso. L’esito era già scritto: collegi provinciali con effetti localistici, tre giorni di campagna elettorale, limitata oltretutto solo all’elettorato di appartenenza, mobilitabile dagli eletti locali o dal principale sindacato di riferimento, ecc. La scelta della commissione nazionale di consentire a Brandolin (lettiano) di gareggiare, unico caso in regione, liberando così un posto in Consiglio regionale per il segretario provinciale ha poi chiuso la partita. L’appello al popolo ha rilegittimato il gruppo dirigente «centrale» (che si è garantito e resta intatto, tanto che si dice che D’Alema farà il Ministro) facendo rotolare le teste degli oppositori interni e di qualche dirigente periferico. Come in Cina, durante la Rivoluzione culturale. Non mi dirà che l’ordine delle liste del Pd tiene conto dell’esito delle primarie? E il capolista del Pd al Senato ha fatto le primarie?

Nessuna legge elettorale e nessuna elezione è perfetta, lo sappiamo tutti, figuriamoci quindi delle primarie organizzate appena un mese prima del voto…

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Il Piccolo, 10 febbraio 2013 – Maran gela gli aspiranti montiani del Fvg

 

Maran gela gli aspiranti montiani del Fvg

di Marco Ballico

TRIESTE «La lista Monti non è una zattera di naufraghi». Constatazione o avvertimento che sia, Alessandro Maran, capolista del “listone” del Professore al Senato dopo aver lasciato il Pd un attimo prima della definizione delle liste, sta con Gian Luigi Gigli, numero uno di Scelta civica alla Camera. Il riferimento è all’intervento dell’ex Udc martedì scorso a Pordenone, in occasione della visita del premier. Parole nette contro i politici di professione che pensassero di approfittare del carro del Prof.

Anche in Fvg si sta lavorando sul progetto “montiano” ma non mancano attriti. Gigli ha piazzato l’altolà alla politica? Ha detto semplicemente che la lista Monti non è una zattera di naufraghi e che di gente disposta a impegnarsi, con spirito di sacrificio e slancio innovativo, c’è n’è parecchia.

Ma come riuscirete a mettere d’accordo anime così diverse?Monti candida un’agenda, no?

Già vi bollano come “fuoriusciti”. In Parlamento non c’è più nessuno dei partiti che hanno dato vita alla Costituzione e il partito più vecchio è la Lega Nord. Siamo tutti «fuoriusciti». Dal Novecento. E non abbiamo ancora raggiunto un approdo idoneo. È questo il problema.

È vero che avete già sondato Illy, Cecotti e Compagno? Non che io sappia. Ma, come Alice, a volte riesco a credere anche a sei cose impossibili prima di colazione. Non dimentico che è grazie ai sacrifici e alle decisioni “impossibili” prese con Monti che possiamo ora puntare alla crescita e al lavoro.

L’apertura di Bersani a Monti che segnale è? Il messaggio è rivolto ai mercati e agli osservatori internazionali: niente panico, il centrosinistra non ha intenzione di rinchiudersi nel suo recinto ma di aprirsi alle forze più responsabili.

Non pensa che dipenda dalla paura della rimonta di Berlusconi?Berlusconi non vincerà.

Nel caso andasse in porto un’intesa con il Pd, pure in regione, lei si troverebbe a collaborare con il partito che ha appena lasciato. Le contraddizioni della politica? Ho fatto parte del gruppo di parlamentari Pd che ha ininterrottamente sottolineato l’esigenza di porre l’agenda Monti al centro della prossima legislatura. E ho ripetuto fino alla noia che solo dalla collaborazione tra Bersani e Monti è possibile immaginare che il governo del Paese resti orientato nella direzione giusta, contrastando populismo e spinte conservatrici. Adesso che Bersani ha assicurato che il centrosinistra e il centro di Monti sono destinati ad incontrarsi, che faranno, mi riabilitano?

Tra Sel e Monti non le sembra un dialogo impossibile? Le prime divergenze si sono consumate proprio tra Pd e Sel sull’intervento militare deciso da Hollande in Mali. Sulla collocazione internazionale dell’Italia. Come da copione.

Monti scalda poco i cuori in campagna elettorale? Cerca di usare un linguaggio di verità. È uno dei lasciti più importanti del suo governo. Due decenni di scelte mancate nascono dal fatto che molti politici si sono comportati come amici superficiali, incapaci di parlare con schiettezza agli italiani.

I sondaggi vi danno in doppia cifra ma lontani dalla vittoria. Si aspettava di più quando ha deciso di scegliere il Professore? Ho ritenuto semplicemente che il modo più efficace per tenere stabilmente il governo italiano sul versante giusto rispetto allo spartiacque fondamentale – pro o contro la riforma europea dell’Italia – fosse quello di sostenere la nuova forza politica che sta nascendo attorno all’agenda Monti.

Come giudica la campagna elettorale di Berlusconi? Siamo al solito illusionismo? Berlusconi è come il Cappellaio Matto di Alice e ci tiene inchiodati alla sua perenne ora del tè. Ma è una illusione quella di bandire, con lui, anche le aspirazioni di molti elettori – su fisco, giustizia, libertà economiche – che Berlusconi ha lasciato insoddisfatte.

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GIORNALI2013

Il Gazzettino, 10 febbraio – PD, L’ORA DELLE RIABILITAZIONI

 

PD, L’ORA DELLE RIABILITAZIONI

L’apertura (dalla Germania) di Bersani a Monti è un messaggio rivolto anzitutto ai mercati e agli osservatori internazionali: niente panico, Berlusconi non vincerà, non ci sarà nessuna rimonta; e state tranquilli, il centrosinistra non ha intenzione di rinchiudersi nel suo recinto ma vuole aprirsi alla collaborazione con le forze più responsabili.

Ho fatto parte, con Pietro Ichino, di quel gruppetto di parlamentari «montiani» del Pd che nei mesi scorsi ha ininterrottamente sottolineato l’esigenza di porre l’agenda Monti – cioè le riforme necessarie per allineare l’Italia ai migliori standard europei  – al centro della prossima legislatura. E in queste settimane ho ripetuto fino alla noia che solo dalla collaborazione tra Bersani e il polo riformatore di Monti è possibile immaginare che il governo del Paese resti orientato in direzione della riforma «europea» dell’Italia  contrastando il populismo e neutralizzando le spinte conservatrici.

Berlusconi è come il Cappellaio Matto di Alice nel Paese delle Meraviglie e ci tiene inchiodati alla sua perenne ora del tè. Ma è una illusione quella di bandire, con lui, anche le aspirazioni di molti elettori – sul fisco, sulla giustizia, sulle libertà economiche – che Berlusconi ha lasciato insoddisfatte. Non per caso, Monti a Pordenone ha detto chiaramente: «Sarò disponibile ad alleanze con tutti e solo coloro che saranno seriamente impegnati sul piano delle riforme strutturali». Non è un mistero per nessuno che, tanto per fare un esempio, quello che la Cgil propone per rimettere in moto l’Italia è lontanissimo da quello che propone Monti. La Cgil vede nella spesa pubblica non il nostro problema principale, ma la soluzione di tutti (o quasi) i nostri problemi; mentre Monti indica come leve prioritarie su cui agire la riduzione del carico fiscale su lavoro e impresa e l’apertura del Paese agli investimenti stranieri. Ma uno dei lasciti più importanti del governo Monti ha a che fare proprio con uno stile di governo che ha cercato di usare un linguaggio di verità, mettendo gli italiani di fronte a uno specchio, senza nascondere loro i problemi. Due decenni di scelte mancate nascono dal fatto che molti politici si sono comportati come amici superficiali, incapaci di parlare con onestà agli italiani. E in questi giorni, al capezzale di un paese in crisi, tornano ad affacciarsi tanti falsi amici pronti a vendere promesse irrealizzabili e ad additare capri espiatori. Ma, dopo che si è conosciuto un amico che ti parla con sincerità e ti invita a scuoterti, è difficile farne a meno. E, come Alice, «a volte riesco a credere anche a sei cose impossibili prima di colazione». Non dimentico, infatti, che è grazie ai sacrifici e alle decisioni «impossibili» prese quest’anno, con Monti, che possiamo ora puntare alla crescita, al lavoro. Soprattutto per chi è rimasto indietro.

Ho solo un dubbio: ora che Bersani ha assicurato che il percorso del centrosinistra è destinato ad incontrarsi con quello del «centro» di Monti, che faranno? Come le vittime delle repressioni, dopo le scomuniche e i giudizi sprezzanti, mi «riabilitano»?

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Messaggero Veneto, 11 febbraio 2013 – «Niente panico Berlusconi non vincerà»

 

Per Maran il percorso del centrosinistra è destinato a incontrarsi con quello del Professore

L’apertura (dalla Germania) di Bersani a Monti è un messaggio rivolto anzitutto ai mercati e agli osservatori internazionali: niente panico, Berlusconi non vincerà, non ci sarà nessuna rimonta; e state tranquilli, il centrosinistra non ha intenzione di rinchiudersi nel suo recinto ma vuole aprirsi alla collaborazione con le forze più responsabili. Ho fatto parte, con Pietro Ichino, di quel gruppetto di parlamentari «montiani» del Pd che nei mesi scorsi ha ininterrottamente sottolineato l’esigenza di porre l’agenda Monti – cioè le riforme necessarie per allineare l’Italia ai migliori standard europei – al centro della prossima legislatura. E in queste settimane ho ripetuto fino alla noia che solo dalla collaborazione tra Bersani e il polo riformatore di Monti è possibile immaginare che il governo del Paese resti orientato in direzione della riforma «europea» dell’Italia, contrastando il populismo e neutralizzando le spinte conservatrici. Berlusconi è come il cappellaio matto di Alice nel Paese delle meraviglie e ci tiene inchiodati alla sua perenne ora del tè. Ma è un’illusione quella di bandire, con lui, anche le aspirazioni di molti elettori – sul fisco, sulla giustizia, sulle libertà economiche – che Berlusconi ha lasciato insoddisfatte. Non per caso, Monti a Pordenone ha detto chiaramente: «Sarò disponibile ad alleanze con tutti e solo coloro che saranno seriamente impegnati sul piano delle riforme strutturali». Non è un mistero per nessuno che, tanto per fare un esempio, quello che la Cgil propone per rimettere in moto l’Italia è lontanissimo da quello che propone Monti. La Cgil vede nella spesa pubblica non il nostro problema principale, ma la soluzione di tutti (o quasi) i nostri problemi; mentre Monti indica come leve prioritarie su cui agire la riduzione del carico fiscale su lavoro e impresa e l’apertura del Paese agli investimenti stranieri. Ma uno dei lasciti più importanti del governo Monti ha a che fare proprio con uno stile di governo che ha cercato di usare un linguaggio di verità, mettendo gli italiani di fronte a uno specchio, senza nascondere loro i problemi. Due decenni di scelte mancate nascono dal fatto che molti politici si sono comportati come amici superficiali, incapaci di parlare con onestà agli italiani. E in questi giorni, al capezzale di un Paese in crisi, tornano ad affacciarsi tanti falsi amici pronti a vendere promesse irrealizzabili e ad additare capri espiatori. Ma, dopo che si è conosciuto un amico che ti parla con sincerità e ti invita a scuoterti, è difficile farne a meno. E, come Alice, «a volte riesco a credere anche a sei cose impossibili prima di colazione». Non dimentico, infatti, che è grazie ai sacrifici e alle decisioni «impossibili» prese quest’anno, con Monti, che possiamo ora puntare alla crescita, al lavoro. Soprattutto per chi è rimasto indietro. Ho solo un dubbio: ora che Bersani ha assicurato che il percorso del centrosinistra è destinato ad incontrarsi con quello del «centro» di Monti, che faranno? Come le vittime delle repressioni, dopo le scomuniche e i giudizi sprezzanti, mi «riabilitano?».

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GIORNALI2013

Messaggero Veneto, 19 febbraio 2013 – Maran alla Cgil: «No a posizioni degli anni Cinquanta»

 

Il deputato replica al sindacato e spiega le priorità dell’Italia per rilanciare il comparto del lavoro

di ALESSANDRO MARAN

Che oggi lo spartiacque fondamentale della politica italiana non sia quello tra la sinistra di Bersani-Vendola e la destra di Berlusconi-Maroni, lo testimonia l’intervento del segretario della Cgil, Franco Belci. Il vero discrimine è tra chi è convinto che la strategia migliore per uscire dalla crisi sia quella concordata con i nostri partner europei e chi invece (come Vendola, Berlusconi, Maroni e parecchi dirigenti del Pd) è convinto che proprio questa strategia sia la rovina del Paese. In altre parole, tra chi vuole cogliere l’occasione offerta dalla crisi per innescare un processo di rapido allineamento dell’Italia ai migliori standard europei e chi pensa che questo progetto sia irrealizzabile, perché «in Italia queste cose non si possono fare». La riforma del mercato del lavoro approvata dal governo Monti è ovviamente migliorabile (come propone Pietro Ichino: superamento del dualismo fra protetti e non protetti, un sistema di welfare che dia sicurezza a tutti, indipendentemente dal tipo di lavoro, ecc.), ma onestà intellettuale sconsiglierebbe di far partire dal luglio scorso la contabilità dei posti di lavoro persi in Italia, come se tutti i problemi fossero nati con l’entrata in vigore della riforma Fornero. Ben prima che arrivasse Monti, dal 2000 al 2010, il pil pro capite nel nostro paese ha perso in media 0,4 punti percentuali ogni anno, ed è da qui che discende la nostra incapacità di creare posti di lavoro. Altro che Fornero. La Cgil sostiene che la priorità per l’Italia sia un piano straordinario di 175 mila nuove assunzioni nel 2013 che costerebbe allo Stato (e quindi ai cittadini) la bellezza di 10 miliardi e propone altre misure che porterebbero l’aumento di spesa pubblica a 35 miliardi. La logica del piano della Cgil è: tagliamo la spesa pubblica per finanziare nuova spesa pubblica. In sostanza, per la Cgil, la cassetta degli attrezzi rimane la stessa dell’immediato dopoguerra. Ecco, stimo Belci e resto legato alla Cgil, ma queste idee non mi persuadono. Non mi convince l’idea che oggi si possa discutere di lavoro, equità e giustizia sociale come negli anni cinquanta. Ora, quello che la Cgil propone per rimettere in moto l’Italia è lontanissimo da quello che propone Monti. La Cgil vede nella spesa pubblica non il nostro problema principale, ma la soluzione di tutti (o quasi) i nostri problemi; mentre Monti indica come leve prioritarie su cui agire la riduzione del carico fiscale su lavoro e impresa e l’apertura del Paese agli investimenti stranieri. Se, in questi anni, avessimo avuto la stessa capacità di attrazione dell’Olanda che occupa una posizione mediana nella classifica europea, avremmo registrato un maggiore flusso annuo di investimenti in entrata pari al 3,6 % del nostro Pil. Per capirci: circa 29 volte l’investimento che Marchionne ci ha proposto nel 2010 con il piano “Fabbrica Italia”. Ovviamente, la strategia europea disegnata da Monti per uscire dalla crisi cerca di far sì che l’Italia partecipi da protagonista alla costruzione di una UE capace di fare una politica economica seria a dimensione continentale. In qualche misura questo sta già accadendo (manovra di Draghi e costituzione del Fondo Salva-Stati). Ma i tedeschi (il socialdemocratico Steinbrück esattamente come la cristiano-democratica Merkel) non sono disposti a emettere eurobond per lo sviluppo, se questo serve agli italiani per eludere la necessità di tagliare gli sprechi, rendere efficienti le loro amministrazioni e far funzionare meglio il loro mercato del lavoro. E il piano della Cgil tende in qualche misura a usare la spesa pubblica proprio per evitare di fare i conti con la necessità delle riforme delle amministrazioni pubbliche e del mercato del lavoro. Due capitoli sui quali stiamo avanzando con il freno a mano tirato mentre avremmo bisogno di accelerare il più possibile. Insieme alla Cgil, come spero. Di Marx possiamo invece fare tranquillamente a meno. È dagli anni cinquanta che i socialdemocratici tedeschi lo hanno messo in soffitta.

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GIORNALI2013

Il Gazzettino, 20 febbraio 2013 – IL GAZZETTINO: LAVORO ALLE DONNE PER CRESCERE MEGLIO

 

Da anni l’Italia cresce pochissimo. Cresce poco dal punto di vista economico e cresce ancor meno dal punto di vista demografico. I due fenomeni sono collegati: una società «vecchia» fatica a tenere il passo con società più giovani e dinamiche. Per rilanciare la crescita si devono fare molte cose: un fisco più leggero per imprese e lavoratori, liberalizzazioni, mercati più efficienti, più incentivi per ricerca e innovazione.

Ma c’è una cosa più importante su cui puntare: il lavoro delle donne. Per far ripartire il Paese, si deve «fare largo alle donne», dare più spazio alle loro aspirazioni, ai loro talenti, ai loro bisogni.

Nell’ultimo decennio l’incremento dell’occupazione femminile nei Paesi sviluppati ha contribuito alla crescita del Pil globale (quello di tutto il pianeta) più dell’intera economia cinese. Da noi solo il 46,3% delle donne ha un’occupazione: uno dei valori più bassi d’Europa. E nelle regioni del Sud (sommerso incluso) solo il 31%. Se aumentassimo la percentuale di donne che lavorano al livello degli uomini (circa il 70%), il reddito italiano crescerebbe di quasi il 20%. Aumenterebbe ovviamente il reddito delle famiglie; e se anche la donna guadagna, le famiglie hanno non soltanto maggiore capacità di consumo, di risparmio e di investimento, ma diminuisce anche il rischio di povertà e vulnerabilità e aumenta la disponibilità ad accettare flessibilità e cambiamenti, favorendo il dinamismo dell’economia e della società.

Inoltre l’occupazione femminile crea altro lavoro. Per ogni 100 donne che entrano nel mercato del lavoro si possono creare fino a 15 posti aggiuntivi nel settore dei servizi: assistenza all’infanzia, agli anziani, ricreazione, ristorazione, ecc. Infine, più donne occupate significa più nascite e meno bambini poveri. In tutto l’Occidente sono le donne che hanno un impiego (e che sono aiutate a conciliare impegno professionale evita domestica) quelle che mettono al mondo più figli e che sono in grado di garantire loro una buona educazione. Nel nostro Paese il 17% dei minori vivono in famiglie monoreddito, al di sotto della soglia di

povertà, e al Sud il fenomeno interessa il 28,8%.

Ma per immettere nel circuito produttivo questa risorsa inutilizzata bisogna riorientare le politiche di welfare a favore delle famiglie e mettere al centro della politica sociale le libertà e le opportunità dei singoli individui e, in particolare, quelle di ciascuna singola donna, come succede in tanti Paesi vicini a noi. Per lavorare e fare figli una donna francese o scandinava non deve essere per forza Wonder Woman. Può, ad esempio, appoggiarsi agli asili nido (che sono aperti molte più ore) e a servizi di ogni tipo: noi abbiamo solo 15 posti nel nido ogni cento bambini al Nord e addirittura due al Sud. E una donna francese o scandinava può contare su un sistema fiscale che incoraggia l’occupazione femminile. Da noi la scoraggia in quanto le detrazioni diminuiscono al crescere del reddito familiare.

Ma non è vero che i programmi sono tutti uguali. L’Agenda Monti prevede una forte «azione positiva» mirata non solo ad aumentare in Italia l’occupazione femminile, ma anche a produrre un mutamento positivo nella distribuzione tra uomini e donne del lavoro domestico. La prima parte del progetto consiste nella sperimentazione della detassazione selettiva del reddito da lavoro delle donne (che ricalca una mia proposta di legge del 2010) per far crescere il tasso di occupazione femminile dall’attuale 46% al 60% previsto dal Trattato di Lisbona. Una delle priorità dell’Agenda Monti è la riduzione dell’Irpef sui redditi di lavoro e di impresa; l’idea, dunque, è di concentrare questa riduzione sui tre segmenti che oggi più soffrono nel nostro mercato del lavoro: giovani, donne e 50-60enni.  L’Agenda Monti prevede poi altre misure mirate a realizzare l’«obiettivo di Barcellona» in tema di assistenza alla prima infanzia: un piano straordinario per gli asili nido e un piano nazionale per l’offerta di un servizio qualificato di assistenza alle persone non autosufficienti, che al tempo stesso attivino una nuova domanda e una nuova offerta di lavoro retribuito femminile.

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