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Messaggero Veneto, 19 febbraio 2013 – Maran alla Cgil: «No a posizioni degli anni Cinquanta»

 

Il deputato replica al sindacato e spiega le priorità dell’Italia per rilanciare il comparto del lavoro

di ALESSANDRO MARAN

Che oggi lo spartiacque fondamentale della politica italiana non sia quello tra la sinistra di Bersani-Vendola e la destra di Berlusconi-Maroni, lo testimonia l’intervento del segretario della Cgil, Franco Belci. Il vero discrimine è tra chi è convinto che la strategia migliore per uscire dalla crisi sia quella concordata con i nostri partner europei e chi invece (come Vendola, Berlusconi, Maroni e parecchi dirigenti del Pd) è convinto che proprio questa strategia sia la rovina del Paese. In altre parole, tra chi vuole cogliere l’occasione offerta dalla crisi per innescare un processo di rapido allineamento dell’Italia ai migliori standard europei e chi pensa che questo progetto sia irrealizzabile, perché «in Italia queste cose non si possono fare». La riforma del mercato del lavoro approvata dal governo Monti è ovviamente migliorabile (come propone Pietro Ichino: superamento del dualismo fra protetti e non protetti, un sistema di welfare che dia sicurezza a tutti, indipendentemente dal tipo di lavoro, ecc.), ma onestà intellettuale sconsiglierebbe di far partire dal luglio scorso la contabilità dei posti di lavoro persi in Italia, come se tutti i problemi fossero nati con l’entrata in vigore della riforma Fornero. Ben prima che arrivasse Monti, dal 2000 al 2010, il pil pro capite nel nostro paese ha perso in media 0,4 punti percentuali ogni anno, ed è da qui che discende la nostra incapacità di creare posti di lavoro. Altro che Fornero. La Cgil sostiene che la priorità per l’Italia sia un piano straordinario di 175 mila nuove assunzioni nel 2013 che costerebbe allo Stato (e quindi ai cittadini) la bellezza di 10 miliardi e propone altre misure che porterebbero l’aumento di spesa pubblica a 35 miliardi. La logica del piano della Cgil è: tagliamo la spesa pubblica per finanziare nuova spesa pubblica. In sostanza, per la Cgil, la cassetta degli attrezzi rimane la stessa dell’immediato dopoguerra. Ecco, stimo Belci e resto legato alla Cgil, ma queste idee non mi persuadono. Non mi convince l’idea che oggi si possa discutere di lavoro, equità e giustizia sociale come negli anni cinquanta. Ora, quello che la Cgil propone per rimettere in moto l’Italia è lontanissimo da quello che propone Monti. La Cgil vede nella spesa pubblica non il nostro problema principale, ma la soluzione di tutti (o quasi) i nostri problemi; mentre Monti indica come leve prioritarie su cui agire la riduzione del carico fiscale su lavoro e impresa e l’apertura del Paese agli investimenti stranieri. Se, in questi anni, avessimo avuto la stessa capacità di attrazione dell’Olanda che occupa una posizione mediana nella classifica europea, avremmo registrato un maggiore flusso annuo di investimenti in entrata pari al 3,6 % del nostro Pil. Per capirci: circa 29 volte l’investimento che Marchionne ci ha proposto nel 2010 con il piano “Fabbrica Italia”. Ovviamente, la strategia europea disegnata da Monti per uscire dalla crisi cerca di far sì che l’Italia partecipi da protagonista alla costruzione di una UE capace di fare una politica economica seria a dimensione continentale. In qualche misura questo sta già accadendo (manovra di Draghi e costituzione del Fondo Salva-Stati). Ma i tedeschi (il socialdemocratico Steinbrück esattamente come la cristiano-democratica Merkel) non sono disposti a emettere eurobond per lo sviluppo, se questo serve agli italiani per eludere la necessità di tagliare gli sprechi, rendere efficienti le loro amministrazioni e far funzionare meglio il loro mercato del lavoro. E il piano della Cgil tende in qualche misura a usare la spesa pubblica proprio per evitare di fare i conti con la necessità delle riforme delle amministrazioni pubbliche e del mercato del lavoro. Due capitoli sui quali stiamo avanzando con il freno a mano tirato mentre avremmo bisogno di accelerare il più possibile. Insieme alla Cgil, come spero. Di Marx possiamo invece fare tranquillamente a meno. È dagli anni cinquanta che i socialdemocratici tedeschi lo hanno messo in soffitta.

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