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GIORNALI2012

qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 65 del 12 giugno 2012 – Per un’Italia presidenziale e federale

La classe politica tutta e anche la politica come attività, si sa, sono completamente delegittimate agli occhi dei cittadini. A ben guardare però, nei giorni scorsi una prima risposta alla crescente sfiducia dei cittadini nei confronti del sistema politico c’è stata. Finalmente – ha scritto addirittura Roberto D’Alimonte – «si comincia a vedere una luce in fondo al tunnel della politica italiana». La confusione sotto il cielo è ancora grande ma, sia per il Pd che per il Pdl, la strada per tornare a farsi ascoltare dagli italiani passa dal bagno rigeneratore delle primarie. Immaginando perfino un evento parallelo, in una stessa giornata di autunno. Era ora. Non basta, però. Per sanare il contrasto fra società e stato, fra società e politica servono nuove regole e nuove istituzioni; e come scrivono i firmatari dell’appello alla responsabilità lanciato ieri sul Corriere della Sera: «Oggi è possibile un accordo virtuoso tra i riformisti di questo paese; un accordo che preveda la disponibilità di ciascuno ad accogliere le ragioni dell’altro».
«Il semipresidenzialismo – ha detto Bersani venerdì scorso – non è la nostra opzione, è una posizione legittima ma non è comunque percorribile in questo scorcio di legislatura. E per favore non si mostri di voler proseguire l’iter o far finta di proseguirlo con qualche voto a maggioranza perché in questa situazione sarebbe ridicolo». Era prevedibile. Eppure, restiamo dell’opinione che l’«accordo virtuoso» possa essere raggiunto; e che al Pd non resti che vedere le carte laicamente e senza pregiudizi. E’ un’opportunità da non lasciarsi sfuggire. Specie se si considera che, come ha detto Bersani venerdì scorso alla riunione della Direzione nazionale del Pd, «la grande traduttrice, colei che traduce l’individuo nella comunità, e cioè la politica, ha ormai un suono che tantissima gente non sente» e che il «punto principale della questione» sta nella «faglia» che si è aperta fra grande parte dei cittadini e il sistema politico istituzionale.

Dal crollo della Prima repubblica, consentire ai cittadini di scegliere col voto un leader e una maggioranza, è stata la fonte principale di forza e di legittimazione di tutta la strategia riformista sul tema della forma di governo e delle leggi elettorali. Da un po’ di tempo a questa parte, invece, il bipolarismo, il maggioritario la personalizzazione, l’elezione diretta (tutti, indistintamente, accomunati sotto l’etichetta del populismo personalistico) sono diventati il segno della fine della democrazia, della abdicazione della politica e di altre terribili catastrofi. Ma la crisi economica europea (che cresce, si complica e potrebbe mettere in discussione la stessa integrazione europea) si è incaricata di dimostrare che il problema fondamentale dell’Italia non è la presunta «emergenza democratica» di cui si è molto parlato lamentando il bipolarismo «forzoso e incivile», ma la mancata modernizzazione del paese. Ed ha chiarito, se ancora ce ne fosse bisogno, che la politica non tornerà «normale» con l’uscita di scena di Berlusconi. Quello che è avvenuto in questo ventennio non è una parentesi antistorica, un’invasione degli Hyksos. Nel ’94 non si è causata una ferita che attende di essere sanata, ma sono saltate gerarchie culturali che non è possibile ripristinare.

Diciamoci, allora, la verità: la competizione bipolare è stata costantemente ipotecata dalla persistenza del precedente sistema istituzionale e da una struttura incoerente e frammentata delle due principali coalizioni. Ma la nostra repubblica non è più quella di prima, è già cambiata (in modo spesso involontario e imprevisto: Ilvo Diamanti l’ha definita argutamente una «repubblica preterintenzionale») e oggi risulta incompiuta, a metà. Il nodo irrisolto non riguarda tanto la legge elettorale, quanto la forma di governo, cioè la qualità della forma di stato. E con questo rivestimento istituzionale, l’Italia prima o poi sbatterà la testa contro il muro. È da un pezzo che la premiership è diventata la vera e fondamentale posta in gioco. Al punto che si è fatto dell’investitura popolare diretta (o come se diretta) il perno attorno al quale ruota il sistema, senza, peraltro, introdurre alcun serio contrappeso.

Oggi in molti prendono atto che non è possibile praticare la vecchia forma della partecipazione alla politica, ma continuano a ritenere che quella forma e quel sistema politico siano i migliori; e dunque cercano di avvicinarsi a quel modello e di salvare più elementi possibili di quella esperienza. Questo atteggiamento nasce da una visione statica e conservatrice. Ma come si fa a pensare di poter ripristinare il vecchio sistema con un semplice intervento di restauro? Quel che è avvenuto in questi anni (a partire dalla dissoluzione del vecchio sistema dei partiti) non è un incidente di percorso. Nel vecchio sistema ci si faceva cittadini nel partito e del partito, perché non si riusciva ad esserlo interamente nello stato e dello stato. Adesso che l’identificazione e l’appartenenza (all’ideologia, all’utopia, alla morale del partito) non ci sono più, l’unica strada praticabile (come ha detto anche Bersani) è quella di esaltare la possibilità della scelta, la responsabilità della scelta, l’esercizio della cittadinanza nello stato. Non si tratta di una questione tecnico-istituzionale, ma di una questione etico-politica. Caduti gli stimoli del passato, come si riattiva la partecipazione alla politica? Non è per questo che abbiamo scelto le primarie? Il rispetto della competenza decisionale degli individui non è forse l’unica risposta possibile a una crisi di fiducia ormai incontenibile? Specie se si considera che il nostro paese deve fare i conti anche con una dirompente sfiducia nello stato. Una costante nella storia d’Italia che la mancata modernizzazione del paese ha aggravato al punto che è in discussione la stessa unità nazionale.

Siamo anche noi convinti che «i problemi dell’Italia affondino le proprie radici nella presenza di istituzioni fatiscenti e ormai inadeguate a sostenere le necessità di una grande democrazia ». Ma se bisogna ricostruire il sistema dei checks and balances tra poteri e istituzioni dello stato, cosa aspetta il Pd ad avanzare e precisare il tema del (semi)presidenzialismo come complemento necessario dell’Italia «federale»? La scelta semipresidenziale non è forse una «strada europea»? E’ tempo anche per noi di riconoscere la necessità di uno stato più leggero (il che significa ridurre le occasioni di intermediazione della politica nel funzionamento della società e dell’economia) e di istituzioni più forti. Come scrivono i firmatari dell’appello di ieri sul Corriere della Sera «è in gioco il futuro della nostra democrazia».

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Il Gazzettino, 23 giugno 2012 – «Adesso basta, Debora ci tiene tutti impiccati»

«Dobbiamo darci un programma, indirizzare il dibattito. Impegnarci con tutta l’anima per garantire ai figli almeno il livello di vita dei padri. E invece cosa facciamo? Stiamo fermi, maledettamente fermi, impiccati alle mutevoli convenienze di una Debora che non si decide».

Alessandro Maran, il vicecapogruppo del Pd alla Camera, non ha problemi ad assimilare la segretaria regionale del partito, Debora Serracchiani, alla mozartiana Zerlina del Don Giovanni , che nel celebre duetto con il dissoluto protagonista intona “Vorrei e non vorrei, mi trema un poco il cor”.

 

Il dubbio è sempre quello: Roma o Trieste? Il Parlamento e la ribalta nazionale o la Regione e la prima linea della propria gente? «Lei è agganciata soprattutto al dibattito nazionale – certifica Maran – ed è significativo che Il Foglio abbia parlato di sua sua candidatura alle primarie nazionali in chiave anti-Renzi». Il fatto è che «qui nel nostro Friuli Venezia Giulia i cittadini vogliono sapere dove andare, assai più che da dove si venga. Nel mondo nessuno ti chiede la provenienza, ma tutti vogliono la meta».

Invece «la nostra politica è il peggiore tallone d’Achille, da noi siamo troppo polarizzati e per giunta sulle cose sbagliate», attacca Maran. «Metti che arrivi un marziano e scopra quale sia il nostro più gravoso problema: se la Serracchiani abbia deciso o no cosa fare!». Invece «occorre affrontare un patto fra generazioni e coinvolgere i portatori d’interesse – spiega il vicecapogruppo nazionale del Pd – per creare più imprenditori di più alto livello e così formare di conseguenza un’occupazione maggiore e migliore». E per giunta «mettere vigorosamente mano a giustizia e istruzione, i cui disastri pesano ciascuno per un punto di Pil». Perciò «si muova una buona volta», che oltretutto «se dice no a questo punto, è chiaro che ci metterà in un mare di guai».

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Messaggero Veneto, 4 luglio 2012 – IL SECONDO TEMPO DEL FRIULI

Molti cinefili – e, dunque, molti fan di Clint Eastwood – ricorderanno il commercial della Chrysler durante l’intervallo del Super Bowl di Indianapolis: «It’s Half-time in America». Il protagonista del cortometraggio non sono le automobili della casa di Detroit, ma gli Stati Uniti. Nello spot, in due minuti, Eastwood riassume così lo stato delle cose negli Usa: «Stiamo decadendo come paese, ma abbiamo tutte le risorse e le capacità per risorgere. Lo abbiamo fatto in passato e possiamo rifarlo, ma solo se lavoriamo tutti insieme e facciamo ciò che, allo stesso tempo, è giusto e difficile. Siamo alla fine del primo tempo e il secondo tempo sta per cominciare». Da noi le cose non stanno diversamente. Sia in Italia che nella nostra regione sta per cominciare il secondo tempo ed è ora di porsi all’altezza delle sfide e delle opportunità che decideranno se rimarremo un paese in grado di trasmettere prosperità da una generazione alla successiva, come abbiamo fatto in passato, e in grado di contribuire alla stabilizzazione globale, come dovremo fare in futuro. Ma senza un’azione collettiva non possiamo sistemare quel che ha bisogno di essere sistemato. Non per caso, da tempo il Presidente Napolitano non fa che ripetere che «l’Italia non può ritrovare la sua strada in un clima di guerra politica» e che «occorre una straordinaria coesione sociale e nazionale di fronte alle difficoltà molto gravi, alle prove molto dure che l’Italia deve affrontare nel quadro della sconvolgente crisi finanziaria che ha investito l’Europa e che incombe sulle nostre economie e sulle nostre società». Nel nostro Paese l’urgenza di due azioni di politica economica obbligate e interrelate (mettere il bilancio pubblico su una dinamica sostenibile e rianimare la capacità di crescita dell’economia attraverso incisive riforme strutturali) è chiara da parecchio tempo. Il governo Monti le ha intraprese entrambe e ha aperto un vasto cantiere i cui lavori vanno proseguiti con energia accresciuta e visione ampia, dall’istruzione alla sanità, alla giustizia. Tanto per fare solo un esempio, le stime della Banca d’Italia indicano che la perdita annua di prodotto attribuibile ai difetti della nostra giustizia civile (la durata stimata dei processi ordinari in primo grado supera i 1.000 giorni e colloca l’Italia al 157esimo posto su 183 paesi nelle graduatorie stilate dalla Banca Mondiale) potrebbe giungere a un punto percentuale. Servono certo risposte europee comuni alle difficoltà dell’euro, ma l’Italia ha bisogno disperatamente di un grande patto tra i maggiori partiti politici del paese e i maggiori stake-holders in tutta una serie di campi (nella finanzia, nell’istruzione, nell’energia, eccetera). Abbiamo bisogno anche di un patto tra le generazioni, perché dobbiamo investire nel futuro e non solo nel passato. Abbiamo bisogno di un patto tra lavoro, capitale e amministrazione pubblica, perché per creare nuovi posti di lavoro, dobbiamo incoraggiare la creazione di nuove imprese (se vogliamo più occupati abbiamo bisogno di più imprenditori) e dobbiamo fare in modo che un numero maggiore di italiani possa acquisire le abilità e la preparazione che richiedono le industrie e i servizi del XXI secolo. Non resteremo una potenza manifatturiera se tutti insieme (lavoro, capitale, amministrazione pubblica, centrodestra e centrosinistra) non saremo capaci di: garantire l’accesso all’istruzione post-secondaria al maggior numero di italiani; migliorare le infrastrutture; attirare immigrazione di qualità; adottare regole che permettano di promuovere l’innovazione e assumerne rischi; spendere di più nella ricerca. Il che significa, in una regione come la nostra, che la speciale autonomia deve essere vista finalmente come uno spazio di libertà, consegnato alle istituzioni (e alle tecnostrutture) e alla loro capacità di iniziativa, di progettare il futuro, di organizzarsi nell’azione, di assumere i rischi delle scelte compiute. Molto dipende dalla politica, ma il nostro sistema politico non è all’altezza del momento. Non è soltanto che siamo troppo polarizzati; siamo polarizzati sui problemi sbagliati. A un anno dalle elezioni regionali, un marziano che atterrasse in Friuli Venezia Giulia potrebbe ritenere (a ragione) che la questione più importante nella nostra regione è se Debora scioglie la riserva o se Tondo mantiene lo schema di alleanze giusto. Non abbiamo bisogno soltanto di più civiltà, abbiamo bisogno di più realtà. E’ davvero indispensabile mantenere le province, una miriade di piccoli comuni, sei corpi di polizia, 1300 tribunali, un gigantesco apparato burocratico che costa un occhio e rende complicata l’esistenza dei contribuenti? La questione centrale nella vita politica nazionale e regionale di oggi dovrebbe essere questa: come possiamo crescere abbastanza e creare posti di lavoro a sufficienza, in modo da pagare i nostri debiti, tramandare uno standard di vita più alto ai nostri figli senza depredare l’ambiente? E magari, aggiungo, contribuire, nel frattempo, alla leadership globale che il mondo richiede. Abbiamo bisogno disperatamente di un dibattito sui veri problemi, connesso al mondo in cui viviamo. Se i due principali schieramenti non saranno in grado di offrire il dibattito di cui abbiamo bisogno, perché stupirsi se la gente crederà opportuno votare Grillo? La gente, in Italia come dappertutto, oggi è affamata di tre cose: verità, leadership e soluzioni. Sfortunatamente il nostro dibattito non ce la fa a porsi la domanda più importante per le politiche pubbliche: in che mondo viviamo? E la gente rischia di pagarne le conseguenze. Certo che come paese (e come regione) abbiamo affrontato sfide ben più impegnative di quelle che affrontiamo oggi. Ma sta per cominciare il secondo tempo.

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Europa, 7 luglio 2012 – Fare come in Francia

Ci troviamo in un passaggio di fase di rilevanza storica. Poche altre volte nella nostra breve storia repubblicana abbiamo vissuto un tempo di sfilacciamento, di cedimento del tessuto politico istituzionale così profondo e radicale. La cinghia di trasmissione del consenso tra cittadini, partiti e istituzioni si è logorata in un modo che, per alcuni aspetti, può apparire quasi irrecuperabile. C’è bisogno di un colpo d’ala. Di un atto di consapevolezza e coraggio da parte della classe politica.
E scriviamo classe politica, un concetto nobile e non dispregiativo come è invece quello di Casta entrato, per via giornalistica e malauguratamente, nel lessico comune. Il compito di una classe politica è allora quello di ambire ad essere una classe dirigente, di non nascondersi dietro opportunismi o tatticismi, ma di dire la verità al paese. Dobbiamo quindi riconoscere che sono ormai venti anni che il sistema politico italiano cerca un diverso equilibrio, una nuova stabilità, e pertanto non riacquista credibilità e fiducia nelle coscienze dei cittadini.
Questo è avvenuto solo per i livelli di governo locale, comuni province e regioni, attraverso l’introduzione dell’elezione diretta del capo del governo locale e della relativa maggioranza consiliare. Ora proprio il gap che in questi venti anni si è formato tra forza e autorevolezza dei governi locali e persistente debolezza dei governi centrali è una delle ragioni che rende ineludibile un adeguamento anche della forma di governo nazionale.
Per questo, insieme ai colleghi deputati del Partito democratico Barbi, Boccia, Ferrari, Giachetti, Gozi, Martella, Merloni, Misiani, Peluffo, Pizzetti, Recchia, Tenaglia e Viola abbiamo presentato una proposta di legge costituzionale che ricalca il modello semipresidenziale francese. C’è bisogno di un atto di consapevolezza e coraggio che ci faccia sciogliere quei nodi rimasti irrisolti nella transizione infinita e che operi il riallineamento tra forma di governo e pratica della politica. Era il 1993 quando scoprivamo con il referendum maggioritario la possibilità di trasformare la democrazia italiana in democrazia dei cittadini. Con un governo scelto direttamente nelle urne dalla volontà popolare che fungeva da formidabile strumento per responsabilizzare i partiti una volta arrivati in parlamento. Sappiamo quanto questo principio, pur avendo conquistato la maggioranza dei cittadini, non sia mai riuscito a diventare prassi politico- istituzionale.
È doveroso pertanto completare il percorso intrapreso negli anni ’90 con l’introduzione del maggioritario e dell’elezione diretta dei sindaci e presidenti di province e regioni, e proseguito nei primi anni del XXI secolo con l’innovazione, sperimentata per la prima volta in Italia a livello continentale, delle elezioni primarie.
Ora, noi constatiamo come sia il sistema uninominale e maggioritario sia le elezioni primarie presuppongano una forma di governo diversa da quella attualmente in opera nella nostra repubblica. O si opta per un capo del governo indicato direttamente dai cittadini, come suggeriscono le primarie, oppure si resta nel solco dei governi fatti e disfatti in parlamento, di cui abbiamo già conosciuto la scarsa efficacia, l’instabilità, l’irresponsabilità.
Vale pertanto rilevare a questo punto come in nessun paese occidentale a democrazia matura, succede come è successo in Italia, che un capo del governo uscente e sconfitto, si ripresenti alle elezioni successive come è avvenuto in Italia più volte con Silvio Berlusconi. Sarebbe opportuno arrivare anche in Italia al fatto che un capo del governo uscente una volta sconfitto possa dire: è tutta colpa mia, assumendosi per intero la responsabilità.
La ricostruzione del nesso potere-responsabilità non è determinata da una appartenenza ideologica ma dalla organizzazione e strutturazione del sistema politico. Un sistema politico opaco che nasconde le responsabilità genera discredito. Un sistema politico competitivo, conflittuale, presidenziale concorre alla chiarezza delle opzioni e alla partecipazione trasparente e consapevole dei cittadini.
Per tutte queste ragioni è oggi opportuno che la nostra repubblica democratica e il nostro parlamento valutino con serietà l’ipotesi di trasformazione del sistema politico istituzionale, dalla forma di governo parlamentare alla forma di governo presidenziale o semi-presidenziale sul modello della Francia. Il presidenzialismo sembra essere sempre di più quel sistema che lungi dal liquidare la democrazia rappresentativa e la forma partito è piuttosto in grado di aggiornarla e adeguarla alle nuove dinamiche della vita democratica che richiedono un livello più alto, diretto e consapevole di partecipazione da parte dei cittadini.
Il presidenzialismo sembra essere dunque quel passaggio che manca e che è necessario per riallineare nella democrazia italiana forma del governo e sostanza del governo, quel passaggio che sembra essere in grado di portare finalmente e definitivamente l’Italia in quella democrazia competitiva, governante e dei cittadini a cui milioni di persone hanno lavorato negli ultimi venti anni e più.

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Corriere della Sera, 10 luglio 2012 – I DEMOCRATICI VERSO IL 2013 – LA LETTERA DOCUMENTO «Il Pd porti l’agenda Monti nella prossima legislatura»

Basta ambiguità «Stop a inaccettabili inversioni di marcia sulle iniziative di riforma dell’esecutivo».

Il testo scritto da quindici esponenti del Pd sulle prospettive del partito, in vista della prossima legislatura, che sarà oggetto di un’assemblea convocata per il 20 luglio a Roma: un documento-appello che invita i democratici a seguire l’agenda delle riforme di Mario Monti.

 

Il governo Monti ha assunto un ruolo da protagonista in Europa. Dagli interventi immediati per far fronte all’emergenza, fino a un nuovo ambizioso piano di unione fiscale, finanziaria e politica, sono le proposte e le iniziative italiane a informare di sé il confronto, le possibili soluzioni, le tappe di un credibile percorso di avvicinamento agli obiettivi. Per noi, che siamo tra quanti hanno prima proposto e poi attivamente operato perché il governo Monti nascesse, si tratta di una conferma attesa: l’azione sviluppata dal presidente del Consiglio e dal suo governo in questi mesi – sia in Italia, sia nell’Unione Europea e nel più ampio contesto globale – può essere coronata da successo e deve quindi essere sostenuta, con piena convinzione, fino alla scadenza naturale della legislatura, nella primavera del 2013.

 

I termini essenziali dell’agenda riformatrice dei prossimi mesi sono chiari: incisiva e coraggiosa revisione della spesa pubblica, per conseguire il pareggio strutturale di bilancio, per ridurre l’imposizione fiscale sul lavoro e l’impresa, per tornare a investire sulla formazione del capitale umano, sulla ricerca e sull’infrastrutturazione del Paese, per introdurre maggiori elementi di equità intergenerazionale nel sistema del welfare, affrontando la fase transitoria attraverso soluzioni coerenti e non regressive, rispetto alla logica della riforma. Nel breve, devono derivare da risparmi di spesa le risorse necessarie per centrare l’obiettivo del pareggio strutturale senza ricorrere – dal primo ottobre prossimo – al già deliberato aumento delle aliquote Iva, che finirebbe per approfondire la recessione in atto. È in questo contesto che noi vogliamo operare, nell’immediato, per il pieno superamento, nel Partito democratico – che ha avuto il merito di concorrere in modo determinante a questa decisiva svolta politica – di ogni residua ambiguità sul giudizio circa l’azione svolta fino a oggi dal governo Monti.

Al sostegno, col voto parlamentare, delle iniziative di riforma, si sono troppo spesso accompagnate critiche aspre e manifestate intenzioni di revisione non ispirate al superamento delle lacune, certamente presenti, ma all’obiettivo di inaccettabili inversioni della direzione di marcia. Di più: considerato che la fase di crisi e di difficoltà non si concluderà in tempi brevi e che i processi virtuosi avviati (pensiamo solo allo spostamento di prelievo dai redditi di lavoro ai patrimoni) daranno i loro frutti solo attraverso un’azione di governo pluriennale, noi intendiamo promuovere nel Pd una trasparente discussione sulle strade che vanno intraprese perché obiettivi e principi ispiratori dell’agenda del governo Monti – collocati dentro un disegno almeno decennale di cambiamento del Paese – possano travalicare i limiti temporali di questa legislatura e permeare di sé anche la prossima.

Siamo infatti convinti che debba essere in primo luogo il Pd – quale partito asse dello schieramento riformatore – a rendere credibile questo proposito, che corrisponde alle aspettative della maggioranza degli italiani. Su questo tema, abbiamo convocato una prima assemblea di discussione a Roma, venerdì 20 luglio alle ore 16.30, presso le Scuderie di Palazzo Ruspoli (ingresso da via della Fontanella Borghese n. 56/b).

Alessandro Maran, Antonello Cabras, Claudia Mancina, Enrico Morando, Giorgio Tonini, Magda Negri, Marco Follini, Marilena Adamo, Paolo Gentiloni, Paolo Giaretta, Pietro Ichino, Salvatore Vassallo, Stefano Ceccanti, Umberto Ranieri, Vinicio Peluffo.

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qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 69 del 10 luglio 2012 – Il semipresidenzialismo del Pd

Un gruppo di deputati democratici ha presentato una proposta di legge costituzionale per il modello frrancese. Sono Alessandro MARAN, Mario BARBI, Francesco BOCCIA, Pierangelo FERRARI, Roberto GIACHETTI, Sandro GOZI, Andrea MARTELLA, Maria Paola MERLONI, Antonio MISIANI, Vinicio PELUFFO, Luciano PIZZETTI, Fausto RECCHIA, Lanfranco TENAGLIA e Rodolfo VIOLA.

A seguire la relazione della proposta di legge e il link dell’articolato.

Onorevoli Colleghi! – Ci troviamo in un passaggio di fase di rilevanza storica. Poche altre volte nella breve storia repubblicana abbiamo vissuto un tempo di sfilacciamento, di cedimento del tessuto politico istituzionale così profondo e radicale. La cinghia di trasmissione del consenso tra cittadini, partiti e istituzioni si è logorata in un modo che, per alcuni aspetti, può apparire quasi irrecuperabile. La velocità poi, con cui tale deterioramento si manifesta, inimmaginabile fino a poco tempo fa, rende necessaria e quanto mai urgente una straordinaria assunzione di responsabilità da parte della politica e in primis delle istituzioni rappresentative che altrimenti rischiano di venire travolte.

C’è bisogno di uno scatto di reni. Di un colpo d’ala. Di un atto di consapevolezza e coraggio da parte della classe politica. E scriviamo classe politica con tutta la considerazione e gravità che questa definizione, nata nelle università italiane, ha assunto nella storia e nel pensiero politico. Un concetto nobile e non dispregiativo come è invece quello di “casta” entrato, per via giornalistica e malauguratamente, nel lessico comune. Il compito di una classe politica è allora quello di ambire ad essere una classe dirigente, di non nascondersi dietro opportunismi o tatticismi, ma di dire la verità al Paese e proprio per questo riuscire ad esprimere una compiuta e trasparente, capacità di direzione.

La consapevolezza che qui richiamiamo e a cui ci richiamiamo è quella di riconoscere che sono risultati fallimentari tutti i tentativi fin qui compiuti per riformare la nostra democrazia attraverso la restaurazione della repubblica dei partiti novecenteschi, colpita a morte dalla crisi morale, politica, finanziaria, e giudiziaria del 1992-93. Tali tentativi non hanno retto alla prova dei fatti e della storia. La smentita più recente è documentata dai risultati delle amministrative della primavera 2012. Dobbiamo quindi riconoscere che sono ormai venti anni che il sistema politico italiano cerca un diverso equilibrio, una nuova stabilità, e pertanto non riacquista credibilità e fiducia nelle coscienze dei cittadini. Se la fine della guerra fredda, alla fine degli anni ’80 del XX secolo e le iniziative referendarie agli inizi degli anni ’90 hanno concorso a scongelare un sistema bloccato, scomponendo e ricomponendo aggregazioni, trasformando i nomi dei soggetti delle forze politiche, rinnovando i rappresentanti, ciò nondimeno, guardando le cose retrospettivamente, noi dobbiamo ora riconoscere come vera e propria mancanza quella di non avere introdotto, nella costituzione formale, i necessari adeguamenti che il nuovo assetto politico, ispirato al bipolarismo e alla democrazia dell’alternanza, necessariamente richiedeva.

Questo è avvenuto solo per i livelli di governo locale, comuni province e regioni, attraverso l’introduzione dell’elezione diretta del capo del governo locale e della relativa maggioranza consiliare. Ora proprio il gap che in questi venti anni si è formato tra forza e autorevolezza dei governi locali e persistente debolezza dei governi centrali è una delle ragioni che rende ineludibile un adeguamento anche della forma di governo nazionale. Possiamo quindi riconoscere usando le categorie del costituzionalista e costituente Costantino Mortati la trasformazione della costituzione materiale della nostra repubblica democratica, e parimenti riscontrare che, a detta trasformazione, non abbia corrisposto alcun intervento di modifica della Costituzione formale. Risulta pertanto di tutta evidenza il disallineamento tra una forma di governo parlamentare – intrinsecamente consociativa – fondata su un sistema proporzionale della rappresentanza e sulla centralità dei partiti e una pratica della lotta politica competitiva, fondata su una legittimazione diretta dell’alleanza di governo e del suo leader, incardinata su processi, peraltro presenti in tutto il mondo democratico, di personalizzazione della politica; ci si riferisce alla lotta politica come si è venuta svolgendo in Italia dal 1994 ad oggi.

Ora, è venuto il momento di mettere definitivamente a tema l’impossibilità di uscire dalla crisi percorrendo in Italia la via della restaurazione di quella forma di democrazia fondata sulla centralità dei partiti e sul loro fattuale primato nelle istituzioni così come l’abbiamo conosciuta dal 1945 al 1992. Ed è venuto il momento di riconoscere che, anche in Europa, la cosiddetta democrazia dei partiti non vive proprio la sua stagione migliore. C’è bisogno di un atto di consapevolezza e coraggio che ci faccia sciogliere quei nodi rimasti irrisolti nella transizione infinita e che operi il riallineamento tra forma di governo e pratica della politica. Era il 1993 quando scoprivamo con il referendum maggioritario la possibilità di trasformare la democrazia italiana in democrazia dei cittadini.

Con un governo scelto direttamente nelle urne dalla volontà popolare che fungeva da formidabile strumento per responsabilizzare i partiti una volta arrivati in parlamento. Sappiamo quanto questo principio, pur avendo conquistato la maggioranza dei cittadini, non sia mai riuscito a diventare prassi politico-istituzionale. I ripetuti tentativi di portare in Italia un’autentica democrazia competitiva e dei cittadini si sono scontrati con una forma di governo, quella parlamentare, a vocazione “assembleare”, che ha confuso, reso opache, che ha nascosto alla trasparenza scelte politiche fondamentali per un giudizio libero e consapevole dei cittadini. Se così non fosse stato non avremmo visto succedersi in ogni passaggio critico governi tecnici ad hoc: dapprima quello di Ciampi che chiude la cosiddetta “prima repubblica”, quella dei partiti storici; e ora quello di Monti, che chiude la “seconda repubblica”, quella dei partiti personali; passando per l’anfibio governo Dini che nel ribaltamento della maggioranza parlamentare accompagna il passaggio di legislatura dal centrodestra al centrosinistra. Governi tecnici quindi, per un verso pura espressione della democrazia parlamentare creativa, per altro verso espressione di un dilatato potere di supplenza e di indirizzo politico del Capo dello Stato, caratteristico dei momenti di crisi e di stato di eccezione. Casi che segnano stagioni legate alla massima perdita di considerazione dell’istituto parlamentare. L’inadeguatezza della forma di governo parlamentare allora, in corrispondenza di una crescita di consapevolezza e impegno da parte di cittadini privi di appartenenza partitica, ci portano a compiere un altro passaggio, a salire un altro gradino, e quindi riconoscere la necessità di affiancare finalmente ai consueti e indiscutibili istituti di democrazia rappresentativa nuovi e innovativi, per quanto concerne il sistema italiano, istituti di democrazia diretta.

E’ doveroso pertanto completare il percorso intrapreso negli anni ’90 con l’introduzione del maggioritario e dell’elezione diretta dei sindaci e presidenti di province e regioni, e proseguito nei primi anni del XXI secolo con l’innovazione, sperimentata per la prima volta in Italia a livello continentale, delle elezioni primarie. Non c’è dubbio che tutte queste innovazioni abbiano concorso a ricostruire attraverso la partecipazione e la responsabilizzazione, la cinghia di trasmissione tra cittadini, partiti e istituzioni. Ora, noi constatiamo come sia il sistema uninominale e maggioritario sia le elezioni primarie presuppongano una forma di governo diversa da quella attualmente in opera nella nostra repubblica. Soprattutto le primarie, tipico istituto da democrazia diretta, mal si conciliano con la forma di governo parlamentare. O si opta per un capo del governo indicato direttamente dai cittadini, come suggeriscono le primarie, oppure si resta nel solco dei governi fatti e disfatti in parlamento, di cui abbiamo già conosciuto la scarsa efficacia, l’instabilità, l’irresponsabilità. Se infatti andiamo a definire le ragioni della frattura tra cittadini e partiti e la contestuale domanda di istituzioni credibili e autorevoli, si dovrebbe cogliere il puntus dolens di questo disequilibrio istituzionale nella debolezza del nesso potere-responsabilità. La nostra democrazia parlamentare infatti, così come è strutturata, non permette una nitida individuazione del nesso potere-responsabilità.

C’è sempre la possibilità per un capo del governo uscente di scaricare su qualcun altro il fallimento del proprio operato, facendo la vittima; così come c’è sempre la possibilità per una formazione politica minoritaria di chiamarsi fuori da un’esperienza di governo senza dover necessariamente fare i conti con le elezioni a breve che misurerebbero in modo implacabile, la responsabilità presso l’elettorato di quella scelta politica fondamentale. Vale pertanto rilevare a questo punto come in nessun paese occidentale a democrazia matura, succede come è successo in Italia, che un capo del governo uscente e sconfitto, si ripresenti alle elezioni successive come è avvenuto in Italia più volte con Silvio Berlusconi. In tutte le democrazie occidentali la personalizzazione della politica agisce da principio di responsabilizzazione dei politici e del sistema. Dappertutto tranne che in Italia e in Grecia. In Francia ad esempio il Presidente uscente e sconfitto alle elezioni presidenziali, Nicolas Sarkozy, ha potuto e dovuto dire: “è tutta colpa mia”.  Assumendosi quindi in toto la responsabilità della sconfitta. Similmente la sconfitta dei democratici americani alle elezioni di mid-term nel 2010 è stata riconosciuta da Barack Obama che se ne è assunto la responsabilità.

Pertanto sarebbe opportuno arrivare anche in Italia al fatto che un capo del governo uscente una volta sconfitto possa dire: è tutta colpa mia, assumendosi per intero la responsabilità. Del resto, è proprio nella confusione delle responsabilità che è maturato il discredito del sistema dei partiti trasformatosi, nella coscienza dei cittadini, da sistema democratico a sistema oligarchico. Non per caso abbiamo fatto gli esempi della Francia e degli Stati Uniti, ovvero di due presidenti provenienti da ideologie e forze politiche non omogenee. La ricostruzione del nesso potere-responsabilità infatti non è  determinata da una appartenenza ideologica  ma dalla organizzazione e strutturazione del sistema politico. Un sistema politico opaco che nasconde le responsabilità genera discredito. Un sistema politico competitivo, conflittuale, presidenziale concorre alla chiarezza delle opzioni e alla partecipazione trasparente e consapevole dei cittadini.

Per tutte queste ragioni è oggi opportuno che la nostra repubblica democratica e il nostro parlamento valutino con serietà l’ipotesi di trasformazione del sistema politico istituzionale, dalla forma di governo parlamentare alla forma di governo presidenziale o semi-presidenziale sul modello della Francia. Il presidenzialismo sembra essere sempre di più quel sistema che lungi dal liquidare la democrazia rappresentativa e la forma partito è piuttosto in grado di aggiornarla e adeguarla alle nuove dinamiche della vita democratica che richiedono un livello più alto, diretto e consapevole di partecipazione da parte dei cittadini. Il presidenzialismo sembra essere dunque quel passaggio che manca e che è necessario per riallineare nella democrazia italiana forma del governo e sostanza del governo, quel passaggio che sembra essere in grado di portare finalmente e definitivamente l’Italia in quella democrazia competitiva, governante e dei cittadini a cui milioni di persone hanno lavorato negli ultimi venti anni e più.

A far propendere poi per questa opzione dovrebbero essere anche gli ultimi segnali che vedono crescere sul piano della rappresentanza forze di protesta e in gran parte sostanzialmente antisistema ma che ambiscono a conquistare una forte posizione parlamentare. La storia d’Itala ha già conosciuto soggetti che, una volta entrati in parlamento per via democratica e con sistema proporzionale, lo hanno poi completamente svuotato di senso, credibilità e fiducia tanto da farlo diventare un simulacro della democrazia e un trampolino per la dittatura. Noi oggi abbiamo l’opportunità di non ripetere l’errore compiuto novanta anni fa: quello di non modificare la forma di governo per tempo, impedendo che altri la svuotassero di senso e significato democratico e pluralistico. Dare all’Italia un coerente impianto presidenzialista, costruito con adeguati pesi e contrappesi, vuol dire fare uscire la democrazia italiana dal pantano attuale e ridare dignità, consenso e credibilità alle istituzioni democratiche.

Di seguito quindi le modifiche contenute nella proposta di riforma della costituzione:

Con l’art. 1 del disegno di Legge Costituzionale allegato si sostituisce l’attuale articolo 83 della Costituzione. Il Presidente della Repubblica è eletto a suffragio universale e diretto a maggioranza assoluta dei votanti. Qualora nessun candidato abbia conseguito la maggioranza, il quattordicesimo giorno successivo si procede al ballottaggio tra i due candidati che hanno conseguito il maggior numero di voti.

Con l’art. 2 si modifica l’articolo 84 della Costituzione relativamente all’età di eleggibilità del presidente. Le parole: «cinquant’anni» sono sostituite con «trentacinque».

L’art. 3 modifica l’articolo 85 della Costituzione stabilendo la durata in carica del Presidente della Repubblica per cinque anni e la rieleggibilità per una sola volta. Novanta giorni prima che scada il mandato del presidente, il Presidente della Camera dei Deputati indice l’elezione, che deve aver luogo in una data compresa tra il quarantesimo e il ventesimo giorno precedente la scadenza. Qualora gli ultimi tre mesi del mandato presidenziale coincidano, in tutto o in parte, con gli ultimi tre mesi della legislatura, i poteri del Parlamento sono prorogati e il Presidente indìce, nei 5 giorni successivi a quello del giuramento, le nuove elezioni, che devono svolgersi tra il sessantesimo e il settantesimo giorno successivo.

Le candidature sono presentate da un decimo dei parlamentari; da trecentomila elettori, da un decimo dei consiglieri regionali di almeno un sesto delle regioni; da un numero di sindaci o presidenti di regioni o delle Province autonome di Trento e Bolzano, che corrispondano almeno ad un quindicesimo della popolazione secondo le modalità stabilite dalla legge.
La legge disciplina la procedura per la sostituzione e per l’eventuale rinvio della data dell’elezione in caso di morte o di impedimento permanente di uno dei candidati. Il Presidente della Repubblica eletto assume le funzioni l’ultimo giorno del mandato del Presidente uscente o il giorno successivo alla proclamazione in caso di morte, dimissioni o impedimento permanente del  Presidente in carica.

Il procedimento elettorale, la disciplina concernente i finanziamenti e le spese per la campagna elettorale e la partecipazione alle trasmissioni radiotelevisive al fine di assicurare la parità di condizioni tra i candidati e le altre modalità di applicazione del presente articolo sono regolati dalla legge. La legge prevede altresì disposizioni idonee ad evitare conflitti tra gli interessi privati del Presidente della Repubblica e gli interessi pubblici.

Con l’ art. 4. si interviene sul secondo comma dell’articolo 86 della Costituzione stabilendo che, in caso di impedimento permanente o di morte o di dimissioni del Presidente della Repubblica, il Presidente della Camera indice entro tre giorni l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. L’elezione deve avere luogo in una data compresa tra il sessantesimo e l’ottantesimo giorno successivo al verificarsi dell’evento o della dichiarazione di impedimento deliberata dalla Corte Costituzionale. .

Con l’art. 5 si aggiunge al primo comma dell’articolo 87 della Costituzione che il Presidente della Repubblica vigila sul funzionamento regolare dei pubblici poteri e assicura che l’indirizzo politico della Repubblica si svolga in conformità con la sovranità popolare, nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione e che a tale scopo rivolge, nel mese di gennaio di ogni anno, un discorso al Parlamento riunito in seduta comune sullo stato della Repubblica; quindi al secondo comma di detto art. 5 si abroga la disposizione che prevede per il capo dello Stato anche la presidenza del CSM.

L’art 6 modifica l’articolo 88 della Costituzione attribuendo al Presidente della Repubblica, sentito il Primo ministro, il potere di sciogliere le Camere o anche una sola di esse.. La facoltà di cui al primo comma non può essere esercitata durante i dodici mesi che seguono le elezioni delle Camere.

Con l’Art. 7. si modifica l’articolo 89 della Costituzione specificando che gli atti del Presidente della Repubblica adottati su proposta del Primo ministro o dei ministri sono controfirmati dal proponente, che ne assume la responsabilità. Non sono sottoposti a controfirma la nomina e la revoca del Primo ministro, l’indizione delle elezioni delle Camere e lo scioglimento delle stesse, l’indizione dei referendum nei casi previsti dalla Costituzione, il rinvio e la promulgazione delle leggi, l’invio dei messaggi alle Camere, le nomine che sono attribuite al Presidente della Repubblica dalla Costituzione e quelle per le quali la legge non prevede la proposta del Governo.

Con l’art. 8. si sostituisce l’articolo 92 della Costituzione stabilendo che il Presidente della Repubblica presiede il Consiglio dei ministri e il governo è composto dal Primo ministro e dai ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei ministri. Viene poi stabilito che il Presidente della Repubblica nomina e revoca il Primo ministro e, su proposta di questo, nomina e revoca i ministri. Nel caso però che, entro 5 giorni dalla revoca del Primo Ministro, il Parlamento confermi la fiducia allo stesso, il Presidente della Repubblica decade e il Parlamento è sciolto. In tal caso si applica il terzo comma dell’art. 85.. Il secondo comma di questo articolo stabilisce che agli articoli 93, 95 e 96 della Costituzione, le parole: «Presidente del Consiglio dei ministri» sono sostituite dalla locuzione «Primo ministro.

Con l’art 9 si modifica l’articolo 64 della Costituzione stabilendo che il candidato alla presidenza della Repubblica risultato non eletto e che abbia ottenuto il maggior numero di voti o che abbia partecipato al ballottaggio è membro di diritto della Camera dei Deputati per tutta la durata della legislatura in corso al momento della elezione. I regolamenti delle Camere definiscono lo statuto dell’opposizione con particolare riferimento all’esercizio delle funzioni di controllo e di garanzia.

Con l’Art. 10 viene modificato l’Art. 104 della Costituzione relativo agli organi del CSM. Viene stabilito che il Consiglio superiore della magistratura elegge un presidente tra i componenti designati dal Parlamento, di conseguenza il vigente comma 5 viene abrogato.

Infine verrà introdotta una norma transitoria che sarà l’art 10 del disegno di legge con cui viene disposto che la prima elezione del Presidente della Repubblica a suffragio universale e diretto si svolgerà entro settanta giorni dall’entrata in vigore della legge di attuazione della presente legge. Entro dieci giorni da tale data il Presidente della Camera procede alla convocazione dei comizi elettorali. Il Parlamento in carica alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale è comunque sciolto di diritto il giorno dell’elezione del nuovo Presidente. Qualora sia già sciolto la procedura elettorale è interrotta. Le successive elezioni sono indette dal Presidente eletto entro 5 giorni dal suo giuramento e devono svolgersi entro i successivi settanta giorni.

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Messaggero Veneto, 11 luglio 2012 – «I vertici indichino dove va il Pd»

Maran firma la lettera aperta di 15 parlamentari. E sollecita Serracchiani

Al segretario nazionale Pier Luigi Bersani chiede di proseguire sul sentiero delle riforme tracciato dal tecnico Mario Monti. Alla segretaria regionale Debora Serracchiani di dire dove sta andando il Pd. Il vice capogruppo alla Camera dei democratici, Alessandro Maran, è tra i 15 parlamentari, unico friulano, ad aver firmato un documento-appello al vertice del partito. Non si chiede di proseguire l’esperienza “tecnica” di governo, anzi auspica che il prossimo esecutivo sia «propriamente politico», ma le riforme devono continuare. Su questo tema i 15 democratici avviano la discussione, convocando un incontro a Roma venerdì 20 luglio. «L’idea – spiega Maran – è che il governo ha assunto un ruolo da protagonista in Europa. Dagli interventi immediati per far fronte all’emergenza fino a un nuovo ambizioso piano di unione fiscale, finanziaria e politica. Per noi che abbiamo contribuito a far nascere questo governo, quindi, è una conferma confortante che va sostenuto fino a scadenza naturale. Anche la volontà di rivedere in maniera così coraggiosa la spesa pubblica va condivisa, perché si tratta dell’unico modo per ridurre l’imposizione fiscale e investire su formazione, ricerca, infrastrutture». Maran sostiene quindi che è dovere del Pd contribuire a superare ogni residua ambiguità sul giudizio sulle riforme del governo Monti, ambiguità che si manifestano a ogni azione dell’esecutivo. «Vogliamo allora – continua Maran – promuovere una discussione trasparente sulle strade da intraprendere per mantenere dei principi che devono superare i limiti temporali della legislatura ed essere prolungati anche alla prossima, perché la crisi non si concluderà a metà 2013. Un partito di sinistra per primo deve avere l’obiettivo di recuperare risorse da dirottare in investimenti sul fronte di welfare, infrastrutture, capitale umano, ricerca». Maran non pensa però a un altro governo tecnico e si dice pronto a sostener Bersani se la marcia delle riforme non verrà arrestata. «E se Bersani – dice il deputato – immagina di proseguire la strada tracciata da Monti e cercherà un’intesa con l’Udc allontanando i partiti più radicali». Il 21, invece, è la data segnata sul calendario per il Pd regionale. Sarà la giornata dell’Assemblea Fvg del Pd e dell’annuncio di Serracchiani. Forse. «Mi aspetto che la segretaria dica dove stiamo andando. Spero già il 21», conclude Maran. In regione si muove anche Italia Futura, la compagine di Luca Cordero di Montezemolo e che in Fvg ha come referente Cinzia Palazzetti. Il nome sussurrato per le regionali 2013 è quello dell’ex governatore Riccardo Illy. Che forse però punta più a un ruolo nazionale.

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Il Gazzettino, 11 luglio 2012 – I tagli saranno sostenibili

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Messaggero Veneto, 24 luglio 2012 – PROVINCE GUARDIAMO ALL’EUROPA

Bassi salari, alta disoccupazione, diseguaglianza crescente rischiano di trasformare le preoccupazioni economiche degli italiani in risentimento. E prima che le difficoltà e il risentimento crescano ulteriormente, l’Italia deve optare per le riforme. Dobbiamo offrire un cambiamento sia nelle politiche sia nel modo di fare politica. A cominciare, naturalmente, dall’adeguamento delle indennità e del numero degli eletti alla media europea. Ma dobbiamo mettere ordine anche nella «casa» della politica: la Pubblica amministrazione. Con scelte emblematiche. Ha ragione Omar Monestier: togliamo di mezzo le province e ripensiamo ex novo l’articolazione del governo locale in regione. Non si capisce perché l’Italia debba avere quattro livelli territoriali costituzionalmente garantiti: lo Stato, le Regioni, le Province e i Comuni. Per restare in Europa, la Francia prevede in Costituzione i Comuni e i Dipartimenti; la Germania, i Comuni e i Länder. Questo non vuol dire che non esistano altri livelli territoriali (le Regioni in Francia, i Distretti in Germania), ma non sono enti politici costituzionalmente garantiti, bensì luoghi di coordinamento territoriale. Può darsi quindi che sia necessario un livello intermedio tra Comune e Regione (ad esempio associazioni tra Comuni), ma la cosa non c’entra con la questione che si pone quando si dice che occorre abolire le Province come enti costituzionali e politici. Il che non solo consente un importante risparmio nel bilancio dello Stato, ma colpisce anche gli agglomerati parassitari che creano una giustificata protesta da parte dei cittadini. E’ questa la «riforma della politica». E vale anche per i comuni. La dimensione territoriale dei nostri comuni è ancora quella del Medioevo: la distanza che si poteva percorrere a piedi sulle strade di allora nelle ore di luce. Ma oggi l’economia del Paese ha bisogno di avviare grandi trasformazioni e il ripensamento di un’organizzazione territoriale finora policentrica e dispersa (un ripensamento che deve avvenire in direzione dell’apertura alla globalità, da una parte, e in direzione dell’integrazione tra più città e più sistemi locali, dall’altra) costituisce forse il capitolo più importante che questo progetto. Le città, infatti, stanno mutando funzioni, posizione e funzionamento interno in tutta Europa e l’organizzazione della produzione e dei servizi, per tutte le cose di qualità, sta sempre più uscendo dal tradizionale spazio urbano, divenuto troppo limitato, per approdare ad aree più estese. E in tutta Europa, negli anni ’90, c’è stato un grande fervore riformatore per definire un nuovo ordine territoriale. A Rotterdam un network amministrativo che include anche altre municipalità è stato tentato per definire la “Citta-regione”; a Lione si è creata una “regione urbana” con le città vicine e così via. In Germania i comuni erano addirittura 24.476 e ogni Land ha usato le ricette più convenienti per gli accorpamenti. Nel Canton Ticino esistono, dal 1995, opportuni incentivi alle fusioni: così 45 comuni si sono uniti in 15 nuove aggregazioni. In Danimarca hanno ridotto i Comuni da  1388 a 275 (e le province da 22 a 14), in Belgio da oltre 2500 a meno di 600, in Inghilterra da 1830 a 486. E potrei continuare. Insomma, quello delle cento città è un mito antico della politica italiana, ma questa deve rinnovare le sue parole d’ordine se vuole affrontare le sfide del futuro. E quello della riorganizzazione della rete comunale è un compito storico, per il quale la nostra Regione, forte della sua autonomia, deve cominciare a lavorare almeno con la stessa solerte attenzione dei Länder tedeschi. Non fosse altro perché, come hanno scritto Rino Batocletti e Leopoldo Coen, le regioni autonome «non potranno più usare le loro prerogative speciali soltanto per conservare».

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qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 72 del 31 luglio 2012 – Quella collaborazione necessaria

Sostiene Bersani che «l’Italia ha diritto ad una democrazia che funzioni con due polmoni, a uscire dall’eccezionalità». Giusto. Ma l’Italia ha anche diritto a rapporti tra i partiti più distesi, riformisti, costituenti. Diciamolo chiaramente: il nostro Paese non potrà ritrovare la propria strada in un clima di «guerra civile» permanente.  Con l’aria che tira, di fronte alle prove molto dure che l’Italia deve affrontare nel quadro della crisi che ha investito l’Europa, occorre una coesione sociale e nazionale straordinaria. Oltretutto, senza un’azione collettiva non possiamo sistemare quel che (da tempo) ha bisogno di essere aggiustato. Non per caso, da tempo il Presidente Napolitano ha sottolineato che «è indispensabile un riavvicinamento tra i campi politici contrapposti, il che non significa confondersi, non significa rinunciare alle rispettive identità, ma significa condividere gli sforzi che sono indispensabili per riaprire all’Italia una prospettiva di sviluppo e anche per ridare all’Italia il ruolo e il prestigio che le spetta nella comunità europea e nella comunità internazionale».

Ovviamente, la polarizzazione del sistema politico, lo scontro permanente, sono anche il prodotto di forze profonde (economiche, sociali, tecnologiche, ecc.) che hanno modellato la società per più di mezzo secolo. Ma un sistema così polarizzato non può fornire le risposte alle principali sfide di oggi di cui il Paese ha bisogno.

Non è un’esclusiva dell’Italia. In questi anni, ad esempio, la hyper-partisanship ha paralizzato Wahington e polarizzato l’America. Specie al giorno d’oggi, come ammoniva Thomas Jefferson, «le grandi innovazioni non dovrebbero essere imposte da una maggioranza esigua». Ma se anche fosse in grado di farlo, non sarebbe necessariamente un bene, poiché nessun partito, da solo, ha tutte le risposte per affrontare la globalizzazione, la rivoluzione tecnologica, il debito, il deficit, i problemi energetici, l’emergere di un ordine internazionale multipolare, ecc. Anzi, il più delle volte, avremmo bisogno di un cocktail, di una combinazione del meglio, sia della destra che della sinistra. Diversamente, andare avanti e indietro tra le due posizioni estreme dei partiti, disfando dopo ogni elezione quel che si è fatto la volta precedente, non risolverà nulla.

Ma c’è dell’altro. In questi anni, il rancore fazioso, la sfiducia reciproca e la conseguente paralisi sulle questioni più importanti per il futuro del Paese, hanno fatto (com’era prevedibile) una pessima impressione sugli elettori. Il che ha condotto ad una perdita di credibilità per tutti i leader politici. In Italia come in America. Thomans L. Friedman e Michael Mandelbaum (in un bel libro scritto a quattro mani: «That Used To Be Us: What Went Wrong with America – and How It Can Come Back») scrivono che la nonna materna di quest’ultimo (che emigrò negli Stati Uniti dall’Europa dell’Est nella prima parte del secolo scorso) una volta gli raccontò del dibattito a tre tra i candidati a sindaco nella città di New York. Dopo che il Repubblicano e il Democratico ebbero parlato, il candidato Socialista cominciò il suo discorso con queste parole:«Voglio dirvi che potete credere a quel che dicono i miei avversari. E’ vero. Sono qui per garantire della loro sincerità. Quando il Democratico vi dice che il Repubblicano non va bene, gli potete credere. E quando il Repubblicano vi dice che il Democratico non vale niente, potete credere anche a lui». Evidentemente, il popolo americano (non diversamente da quello italiano) ha finito per credere a quel che Repubblicani e Democratici hanno detto gli uni degli altri e, come risultato, la considerazione pubblica della politica è caduta al minimo storico.

E’ un costo enorme. Come ha osservato il columnist del Wall Street Journal, Gerlald Seib:«L’America e i suoi leader politici, dopo due decenni in cui non sono riusciti ad unirsi per risolvere i grandi problemi, sembra abbiano perduto fiducia nella loro capacità di poterlo fare. Un sistema politico che si aspetta l’insuccesso, non ci prova neppure a produrre qualcosa di diverso». In America la politica oggi è quasi come un parassita che si nutre dell’interesse nazionale per procurarsi un vantaggio temporaneo. Ma «se non salviamo il negozio – ha rilevato Mike Murphy, un veterano delle campagne repubblicane – le dispute tra destra e sinistra, tra mele e arance, saranno irrilevanti. Lavoreremo tutti al TGI Friday’s a Pechino».

Il fatto è che la pubblicità negativa funziona, ma bisogna fare attenzione. Perché McDonald non ha mai condotto una pubblicità negativa contro Burger King, dicendo, tanto per fare un esempio, che i loro burger sono pieni di vermi? Perché avrebbe potuto funzionare per un po’, ma poi nessuno avrebbe più voluto mangiare un altro hamburger. «Mai distruggere la categoria», dicono in America. Ora invece, proprio nel momento in cui avremmo bisogno che la politica fosse più credibile e più costruttiva, in grado, insomma, di delineare e perseguire il nostro interesse nazionale, abbiamo «distrutto la categoria».

In fondo, mentre la legislatura si avvia a concludersi e da più parti sembra cominciare l’operazione di sganciamento da Monti e dalla «strana» maggioranza, non sarebbe male tenere a mente che il governo Monti, e cioè l’attuale collaborazione tra diversi, si fonda sulla consapevolezza della gravità della crisi. Ed è probabile che entrambe (una crisi non transitoria e una collaborazione necessaria) siano destinate a durare.

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