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Messaggero Veneto, 4 luglio 2012 – IL SECONDO TEMPO DEL FRIULI

Molti cinefili – e, dunque, molti fan di Clint Eastwood – ricorderanno il commercial della Chrysler durante l’intervallo del Super Bowl di Indianapolis: «It’s Half-time in America». Il protagonista del cortometraggio non sono le automobili della casa di Detroit, ma gli Stati Uniti. Nello spot, in due minuti, Eastwood riassume così lo stato delle cose negli Usa: «Stiamo decadendo come paese, ma abbiamo tutte le risorse e le capacità per risorgere. Lo abbiamo fatto in passato e possiamo rifarlo, ma solo se lavoriamo tutti insieme e facciamo ciò che, allo stesso tempo, è giusto e difficile. Siamo alla fine del primo tempo e il secondo tempo sta per cominciare». Da noi le cose non stanno diversamente. Sia in Italia che nella nostra regione sta per cominciare il secondo tempo ed è ora di porsi all’altezza delle sfide e delle opportunità che decideranno se rimarremo un paese in grado di trasmettere prosperità da una generazione alla successiva, come abbiamo fatto in passato, e in grado di contribuire alla stabilizzazione globale, come dovremo fare in futuro. Ma senza un’azione collettiva non possiamo sistemare quel che ha bisogno di essere sistemato. Non per caso, da tempo il Presidente Napolitano non fa che ripetere che «l’Italia non può ritrovare la sua strada in un clima di guerra politica» e che «occorre una straordinaria coesione sociale e nazionale di fronte alle difficoltà molto gravi, alle prove molto dure che l’Italia deve affrontare nel quadro della sconvolgente crisi finanziaria che ha investito l’Europa e che incombe sulle nostre economie e sulle nostre società». Nel nostro Paese l’urgenza di due azioni di politica economica obbligate e interrelate (mettere il bilancio pubblico su una dinamica sostenibile e rianimare la capacità di crescita dell’economia attraverso incisive riforme strutturali) è chiara da parecchio tempo. Il governo Monti le ha intraprese entrambe e ha aperto un vasto cantiere i cui lavori vanno proseguiti con energia accresciuta e visione ampia, dall’istruzione alla sanità, alla giustizia. Tanto per fare solo un esempio, le stime della Banca d’Italia indicano che la perdita annua di prodotto attribuibile ai difetti della nostra giustizia civile (la durata stimata dei processi ordinari in primo grado supera i 1.000 giorni e colloca l’Italia al 157esimo posto su 183 paesi nelle graduatorie stilate dalla Banca Mondiale) potrebbe giungere a un punto percentuale. Servono certo risposte europee comuni alle difficoltà dell’euro, ma l’Italia ha bisogno disperatamente di un grande patto tra i maggiori partiti politici del paese e i maggiori stake-holders in tutta una serie di campi (nella finanzia, nell’istruzione, nell’energia, eccetera). Abbiamo bisogno anche di un patto tra le generazioni, perché dobbiamo investire nel futuro e non solo nel passato. Abbiamo bisogno di un patto tra lavoro, capitale e amministrazione pubblica, perché per creare nuovi posti di lavoro, dobbiamo incoraggiare la creazione di nuove imprese (se vogliamo più occupati abbiamo bisogno di più imprenditori) e dobbiamo fare in modo che un numero maggiore di italiani possa acquisire le abilità e la preparazione che richiedono le industrie e i servizi del XXI secolo. Non resteremo una potenza manifatturiera se tutti insieme (lavoro, capitale, amministrazione pubblica, centrodestra e centrosinistra) non saremo capaci di: garantire l’accesso all’istruzione post-secondaria al maggior numero di italiani; migliorare le infrastrutture; attirare immigrazione di qualità; adottare regole che permettano di promuovere l’innovazione e assumerne rischi; spendere di più nella ricerca. Il che significa, in una regione come la nostra, che la speciale autonomia deve essere vista finalmente come uno spazio di libertà, consegnato alle istituzioni (e alle tecnostrutture) e alla loro capacità di iniziativa, di progettare il futuro, di organizzarsi nell’azione, di assumere i rischi delle scelte compiute. Molto dipende dalla politica, ma il nostro sistema politico non è all’altezza del momento. Non è soltanto che siamo troppo polarizzati; siamo polarizzati sui problemi sbagliati. A un anno dalle elezioni regionali, un marziano che atterrasse in Friuli Venezia Giulia potrebbe ritenere (a ragione) che la questione più importante nella nostra regione è se Debora scioglie la riserva o se Tondo mantiene lo schema di alleanze giusto. Non abbiamo bisogno soltanto di più civiltà, abbiamo bisogno di più realtà. E’ davvero indispensabile mantenere le province, una miriade di piccoli comuni, sei corpi di polizia, 1300 tribunali, un gigantesco apparato burocratico che costa un occhio e rende complicata l’esistenza dei contribuenti? La questione centrale nella vita politica nazionale e regionale di oggi dovrebbe essere questa: come possiamo crescere abbastanza e creare posti di lavoro a sufficienza, in modo da pagare i nostri debiti, tramandare uno standard di vita più alto ai nostri figli senza depredare l’ambiente? E magari, aggiungo, contribuire, nel frattempo, alla leadership globale che il mondo richiede. Abbiamo bisogno disperatamente di un dibattito sui veri problemi, connesso al mondo in cui viviamo. Se i due principali schieramenti non saranno in grado di offrire il dibattito di cui abbiamo bisogno, perché stupirsi se la gente crederà opportuno votare Grillo? La gente, in Italia come dappertutto, oggi è affamata di tre cose: verità, leadership e soluzioni. Sfortunatamente il nostro dibattito non ce la fa a porsi la domanda più importante per le politiche pubbliche: in che mondo viviamo? E la gente rischia di pagarne le conseguenze. Certo che come paese (e come regione) abbiamo affrontato sfide ben più impegnative di quelle che affrontiamo oggi. Ma sta per cominciare il secondo tempo.

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