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qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 65 del 12 giugno 2012 – Per un’Italia presidenziale e federale

La classe politica tutta e anche la politica come attività, si sa, sono completamente delegittimate agli occhi dei cittadini. A ben guardare però, nei giorni scorsi una prima risposta alla crescente sfiducia dei cittadini nei confronti del sistema politico c’è stata. Finalmente – ha scritto addirittura Roberto D’Alimonte – «si comincia a vedere una luce in fondo al tunnel della politica italiana». La confusione sotto il cielo è ancora grande ma, sia per il Pd che per il Pdl, la strada per tornare a farsi ascoltare dagli italiani passa dal bagno rigeneratore delle primarie. Immaginando perfino un evento parallelo, in una stessa giornata di autunno. Era ora. Non basta, però. Per sanare il contrasto fra società e stato, fra società e politica servono nuove regole e nuove istituzioni; e come scrivono i firmatari dell’appello alla responsabilità lanciato ieri sul Corriere della Sera: «Oggi è possibile un accordo virtuoso tra i riformisti di questo paese; un accordo che preveda la disponibilità di ciascuno ad accogliere le ragioni dell’altro».
«Il semipresidenzialismo – ha detto Bersani venerdì scorso – non è la nostra opzione, è una posizione legittima ma non è comunque percorribile in questo scorcio di legislatura. E per favore non si mostri di voler proseguire l’iter o far finta di proseguirlo con qualche voto a maggioranza perché in questa situazione sarebbe ridicolo». Era prevedibile. Eppure, restiamo dell’opinione che l’«accordo virtuoso» possa essere raggiunto; e che al Pd non resti che vedere le carte laicamente e senza pregiudizi. E’ un’opportunità da non lasciarsi sfuggire. Specie se si considera che, come ha detto Bersani venerdì scorso alla riunione della Direzione nazionale del Pd, «la grande traduttrice, colei che traduce l’individuo nella comunità, e cioè la politica, ha ormai un suono che tantissima gente non sente» e che il «punto principale della questione» sta nella «faglia» che si è aperta fra grande parte dei cittadini e il sistema politico istituzionale.

Dal crollo della Prima repubblica, consentire ai cittadini di scegliere col voto un leader e una maggioranza, è stata la fonte principale di forza e di legittimazione di tutta la strategia riformista sul tema della forma di governo e delle leggi elettorali. Da un po’ di tempo a questa parte, invece, il bipolarismo, il maggioritario la personalizzazione, l’elezione diretta (tutti, indistintamente, accomunati sotto l’etichetta del populismo personalistico) sono diventati il segno della fine della democrazia, della abdicazione della politica e di altre terribili catastrofi. Ma la crisi economica europea (che cresce, si complica e potrebbe mettere in discussione la stessa integrazione europea) si è incaricata di dimostrare che il problema fondamentale dell’Italia non è la presunta «emergenza democratica» di cui si è molto parlato lamentando il bipolarismo «forzoso e incivile», ma la mancata modernizzazione del paese. Ed ha chiarito, se ancora ce ne fosse bisogno, che la politica non tornerà «normale» con l’uscita di scena di Berlusconi. Quello che è avvenuto in questo ventennio non è una parentesi antistorica, un’invasione degli Hyksos. Nel ’94 non si è causata una ferita che attende di essere sanata, ma sono saltate gerarchie culturali che non è possibile ripristinare.

Diciamoci, allora, la verità: la competizione bipolare è stata costantemente ipotecata dalla persistenza del precedente sistema istituzionale e da una struttura incoerente e frammentata delle due principali coalizioni. Ma la nostra repubblica non è più quella di prima, è già cambiata (in modo spesso involontario e imprevisto: Ilvo Diamanti l’ha definita argutamente una «repubblica preterintenzionale») e oggi risulta incompiuta, a metà. Il nodo irrisolto non riguarda tanto la legge elettorale, quanto la forma di governo, cioè la qualità della forma di stato. E con questo rivestimento istituzionale, l’Italia prima o poi sbatterà la testa contro il muro. È da un pezzo che la premiership è diventata la vera e fondamentale posta in gioco. Al punto che si è fatto dell’investitura popolare diretta (o come se diretta) il perno attorno al quale ruota il sistema, senza, peraltro, introdurre alcun serio contrappeso.

Oggi in molti prendono atto che non è possibile praticare la vecchia forma della partecipazione alla politica, ma continuano a ritenere che quella forma e quel sistema politico siano i migliori; e dunque cercano di avvicinarsi a quel modello e di salvare più elementi possibili di quella esperienza. Questo atteggiamento nasce da una visione statica e conservatrice. Ma come si fa a pensare di poter ripristinare il vecchio sistema con un semplice intervento di restauro? Quel che è avvenuto in questi anni (a partire dalla dissoluzione del vecchio sistema dei partiti) non è un incidente di percorso. Nel vecchio sistema ci si faceva cittadini nel partito e del partito, perché non si riusciva ad esserlo interamente nello stato e dello stato. Adesso che l’identificazione e l’appartenenza (all’ideologia, all’utopia, alla morale del partito) non ci sono più, l’unica strada praticabile (come ha detto anche Bersani) è quella di esaltare la possibilità della scelta, la responsabilità della scelta, l’esercizio della cittadinanza nello stato. Non si tratta di una questione tecnico-istituzionale, ma di una questione etico-politica. Caduti gli stimoli del passato, come si riattiva la partecipazione alla politica? Non è per questo che abbiamo scelto le primarie? Il rispetto della competenza decisionale degli individui non è forse l’unica risposta possibile a una crisi di fiducia ormai incontenibile? Specie se si considera che il nostro paese deve fare i conti anche con una dirompente sfiducia nello stato. Una costante nella storia d’Italia che la mancata modernizzazione del paese ha aggravato al punto che è in discussione la stessa unità nazionale.

Siamo anche noi convinti che «i problemi dell’Italia affondino le proprie radici nella presenza di istituzioni fatiscenti e ormai inadeguate a sostenere le necessità di una grande democrazia ». Ma se bisogna ricostruire il sistema dei checks and balances tra poteri e istituzioni dello stato, cosa aspetta il Pd ad avanzare e precisare il tema del (semi)presidenzialismo come complemento necessario dell’Italia «federale»? La scelta semipresidenziale non è forse una «strada europea»? E’ tempo anche per noi di riconoscere la necessità di uno stato più leggero (il che significa ridurre le occasioni di intermediazione della politica nel funzionamento della società e dell’economia) e di istituzioni più forti. Come scrivono i firmatari dell’appello di ieri sul Corriere della Sera «è in gioco il futuro della nostra democrazia».

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