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GIORNALI2012

qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 52 del 13 marzo 2012 – Kohl, ovvero Mr Europa

Il cancelliere Helmut Kohl, uno degli architetti della moneta unica europea, è entrato a gamba tesa nel dibattito tedesco sull’opportunità di fornire alla Grecia un nuovo aiuto. Qualche giorno fa ha sollecitato la Germania a rimanere impegnata nei confronti dell’unità europea che, ha detto, resta una questione di guerra e pace, perfino sessantasette anni dopo la fine della seconda guerra mondiale. «L’attuale discussione in Europa e la crisi in Grecia non devono portarci a fare dei passi indietro, a perdere di vista o addirittura a rimettere in discussione l’obiettivo di un’Europa unita» ha scritto Kohl in un articolo ospitato dal Bild, il quotidiano tedesco più venduto.

Nel tentativo di preservare la sua eredità, l’ex cancelliere che ha oggi ottantuno anni, ha rivolto diversi appelli al governo tedesco affinché mostri maggiore leadership e più solidarietà verso gli Stati membri dell’eurozona in difficoltà nel corso della crisi. Il suo intervento più recente coincide con una frattura nella coalizione di centro-destra della sua ex protetta, la cancelliera Angela Merkel, che si è prodotta proprio in relazione al problema se la Grecia debba restare o meno nell’eurozona. La Merkel è stata costretta a rimproverare il suo Ministro dell’Interno Hans – Peter Friedrich per aver detto allo Spiegelche la Grecia dovrebbe essere incoraggiata a lasciare la moneta unica; e ha dovuto fronteggiare la rivolta di un gruppo di parlamentari nel corso del voto sul secondo pacchetto di misure per la Grecia. L’ampio margine (496 – 90, con cinque astensioni) è stato assicurato dall’appoggio dell’opposizione di centro-sinistra, ma solo 304 dei 330 parlamentari della maggioranza hanno sostenuto la mozione. Questa volta sono 17 i ribelli che hanno votato «no», rispetto ai 13 che hanno disobbedito alla Merkel lo scorso settembre in un voto per garantire il fondo di salvataggio dell’eurozona.

Il risultato, come sottolineano gli analisti, potrebbe indebolirla politicamente. Gero Neugebauer (che insegna alla Freie Universität Berlin) ha detto alla Reuters che «Merkel sta perdendo la sua capacità di convincere e i membri del Bundestag stanno perdendo la loro fiducia che le cose andranno secondo il piano stabilito». I leader dell’opposizione si sono spinti più in là, sostenendo che la ribellione ha segnalato l’inizio della fine del Governo. Più cauto Giovanni Boggero che su Aspenia scrive:«Se per la signora Merkel quello del 27 febbraio sia stato un incidente di percorso o il lento inizio della capitolazione del suo Governo, nato nel 2009 già molto debole, lo svelerà l’esito delle deliberazioni in programma questa primavera. Ad oggi, benché indebolita, la Cancelliera può comunque contare su alti tassi di consenso nell’elettorato, oltre a poter fare affidamento sulla consapevolezza comune che nessuno nella democrazia cristiana tedesca è ad oggi in grado di sostituirla».

Intanto, Helmut Kohl non molla e continua a ripetere che l’euro ha a che fare nientedimeno che con la possibilità di impedire la guerra. «Gli spiriti malvagi del passato non sono stati messi al bando una volta per tutte, possono sempre tornare – ha scritto Kohl. Il che significa: l’Europa resta una questione di guerra e pace e l’aspirazione alla pace rimane la forza motrice dell’integrazione europea». Kohl ha attaccato inoltre la nuova generazione di leader europei che sono nati dopo la seconda guerra mondiale. «Per quelli che non ci sono passati e che, specialmente ora con la crisi, si chiedono quali benefici porta l’unità dell’Europa, la risposta, nonostante il periodo di pace senza precedenti che dura da sessantacinque anni e nonostante i problemi e le difficoltà che dobbiamo ancora superare, è: la pace». «L’Europa è il nostro futuro», ha insiste Kohl. «Non c’è alternativa all’Europa. E abbiamo tutte le ragioni per essere fiduciosi che la nostra Europa uscirà rafforzata dalla crisi attuale – se lo vogliamo. Non facciamoci fuorviare».

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Il Gazzettino, 31 marzo 2012 – «Speciali, ma dimostriamolo»

Alessandro Maran (Pd): non siamo impauriti, ecco come reagire e costruire

 

«Impiccateli, impiccateli tutti e il pane uscirà fuori da tutte le parti», gridava il popolo manzoniano infuriato dalla fame al Forno delle Grucce. «I costi naturalmente sono importanti, ma l’indignazione dell’opinione pubblica per quest’aspetto è in verità la spia di un problema più ampio. Il sentimento prevalente è che i politici sono inutili, non fanno il loro mestiere e pensano solo ad arricchirsi». Insomma: «All’origine c’è la reale perdita di ruolo della politica nazionale nelle condizioni della globalizzazione e c’è la ricerca di un capro espiatorio». Precisamente da qui occorre cominciare. A passo di carica per il bene comune dei cittadini prima che dei politici e dei politikanter.
Alessandro Maran, goriziano doc, vicecapogruppo del Pd alla Camera, 52 anni all’anagrafe e una faccia da ragazzino, adotta per solito il metodo scientifico dell’osservazione prima dell’azione. E poi percorre tentativi di confutazioni successive, per affermare una verità accettabile dalla quale sia utile partire. Declina un volontario basso profilo mediatico con altitudini di pensiero che gli avversari, per primi, gli riconoscono ammirati. Alcuni lo vorrebbero presidente della Regione nel 2013, altri invece lo osteggiano e temono, consapevoli che soltanto quando il sole è basso – come scrisse Karl Kraus – i nani possono gettare ombre lunghe.
Il respiro.  Oggi tutto cambia. E cambia nel mare della crisi che inghiotte esistenze e speranza anche in Friuli Venezia Giulia. «Manca un respiro progettuale – ripete Maran – e nel momento in cui il Friuli Venezia Giulia si scopre percorso dal cambiamento, da più velocità, da differenze, la politica degli incentivi indifferenziati non può più essere la chiave di volta di una strategia regionale di composizione di tutti gli interessi organizzati». Allora, mentre la specialità regionale è nel periscopio di troppi sommergibili ormai in emersione, «si ripropone il legame fra integrazione interna e proiezione efficace verso l’esterno: la prima condizione della seconda».
Progettare il futuro. Maran condivide l’opinione diffusa dale parole: «La speciale autonomia può e deve essere vista oggi più che mai come un’opportunità, uno spazio di libertà che è consegnato alle istituzioni e alle loro capacità d’iniziativa, di progettare il futuro». Come nell’amore, tuttavia, le parole non bastano. Anzi talvolta le prove stancano la verità. «C’è un solo modo per conservare l’autonomia: esercitarla. Esercitare l’autonomia di una Regione, la cui “specialità” si è fin dall’inizio giustificata in funzione del perseguimento dell’obiettivo di legare e fondere – rafforzando la loro comune presenza nell’unità repubblicana – aree a vocazione diversa ma accomunabili in una stessa prospettiva di sviluppo».
Diversi dal Paese. Parole difficili e insieme palmari. Questa è la dialettica domestica di Maran, che impegna l’interlocuzione oltre la linea della contingenza. Resta il fatto che «il Friuli Venezia Giulia è pieno di persone di talento capaci di competere con chiunque nel mondo. C’è l’inventiva e la capacità di adattamento della microimpresa. C’è il saper fare di tanti lavoratori che mantengono su livelli medio-alti la produttività del lavoro, la vivacità di quella parte del mondo della ricerca e dell’Università che chiede di premiare il merito e i risultati».
La regola d’oro. Già, qui ancora si crede nel merito, probabilmente per quello storico e irrinunciato retaggio asburgico che sta nelle coscienze. «Voglio dire che noi siamo assai diversi da quel Paese impaurito descritto dalla destra. Possiamo farcela – insiste Maran – ma dobbiamo unire le forze a scala regionale per mettere a frutto il bisogno di organizzazione e cooperazione in tutta una serie di campi». Dalla ragion pura alla ragion pratica: come fare? «I nostri criteri per le scelte di spesa dovranno essere basati su una semplice domanda: questa scelta di spesa alimenterà direttamente la crescita? Questa scelta di spesa alimenterà la creazione di posti di lavoro? Sì o no? A decidere siano queste risposte».
Niente Province.  In ogni caso «via le Province, subito. Ripensiamo ex novo l’articolazione del governo locale». Del resto «non si capisce perché l’Italia debba avere quattro livelli territoriali costituzionalmente garantiti: lo Stato, le Regioni, le Province e i Comuni». E anche se con lui non sempre ha regnato l’intesa perfetta, sul fronte sociale «Riccardo Illy aveva visto giusto, ora si tratta di recuperare quella filosofia d’intervento adeguando gli interventi della Regione in favore dell’occupabilità ai principi di politica attiva del lavoro già riconosciuti in sede europea. Ma è necessario accompagnare l’attivazione del reddito minimo d’inserimento a un profondo e coraggioso processo di riforma degli assetti istituzionali».
Don Milani. Una volta il peraltro vituperato Jean-Paul Sartre constatò che «occorre riaccendere le stelle consigliere», curiosamente negli anni medesimi in cui, alla Sorbona di Parigi, gli studenti istoriavano i muri di cinta con la “stella danzante” dello Zarathustra di Nietzsche. Tali antipodi delle idee sembrano intonare il “la” per far dire a Maran che la questione capitale di ciascuno è «riaccendere la speranza». Quanto al Pd, che «a volte sbaglia ma sa emendarsi», un candidato occorre pur darselo per sfidare Renzo Tondo. E allora Sandro Maran ricorda don Milani: «Sortirne insieme è la politica, sortirne da soli è l’avarizia».
Chi ha orecchi da intendere intenda, come non dissero né Sartre né Nietzsche.

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qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 56 del 10 aprile 2012 – Passaggio in India

Ha ragione Mario Monti: «consideriamo i cinesi dei pubblici disturbatori di un mondo del passato che crediamo esista ancora e del quale siamo convinti di fare tuttora parte» ( La Stampa, 4 aprile 2012). Eppure, la stessa vicenda dei nostri due fucilieri di Marina, catturati e detenuti dalle autorità indiane del Kerala, in India, dovrebbe aprirci gli occhi: il semplice (e a suo modo confortante) mondo della Guerra Fredda è svanito.

Proprio la settimana scorsa si è svolto il quarto summit dei BRICS a New Delhi e non sarebbe male se il nostro Paese buttasse l’occhio alla regione dell’Oceano Indiano. Un’area cruciale, dove, secondo Robert Kaplan (il suo libro «Monsoon Asia», offre un’interessante panoramica della regione), la battaglia per la democrazia, l’indipendenza energetica e la libertà di religione sarà vinta o persa. Un’area del mondo che non ci possiamo più permettere di ignorare, specie se si considera che a New Delhi è in corso uno scontro in cui la posta in gioco è la politica estera indiana. Da una parte ci sono quelli per i quali l’unica cosa che conta è l’attitudine a fare da soli. «L’autonomia strategica è stato il valore più importante e un obiettivo costante della politica internazionale dell’India dall’avvio della Repubblica», ha dichiarato «Nonalignment 2.0», un nuovo rapporto di otto dei maggiori esperti di politica estera del paese. «Nonalignment 1.0» era, ovviamente, ai tempi della Guerra Fredda, la politica indiana volta a mantenere l’ equidistanza tra Mosca e Washington – anche se in pratica propendeva verso l’Unione Sovietica.

Ma sono in molti a sostenere che il non allineamento ha fatto il suo tempo e che aspirano invece a rafforzare legami reciprocamente vantaggiosi con l’Occidente. L’ex consigliere per la sicurezza nazionale Brajesh Mishra ritiene «impossibile» per l’India restare «non allineata» tra gli Usa e la Cina. Secondo K. Shankar Bajpai, un ex ambasciatore indiano negli Usa e in Cina, «resuscitare quel concetto significa respingere indietro la nostra gente a qualcosa che non solo è da tempo sorpassato ma – e questa è la sua eredità pericolosa – che ci ha fatto più male che bene».

Comunque vada il confronto, ci saranno profonde conseguenze per l’India, l’Asia e il mondo intero. Se l’India, come ha osservato Sadanand Dhume (in un articolo su Foreign Policy dal titolo «Failure 2.0»), ritorna a misurare la sua indipendenza dalla prontezza con la quale si oppone a Washington (e da nessuna parte le vecchie abitudini mentali sono più evidenti che nella politica mediorientale dell’India), rischia inevitabilmente di indebolire la tesi «che l’ascesa di una grande e pluralistica democrazia di lingua inglese in Asia è nell’interesse dell’Occidente».  Se l’India comincia invece a concepire la politica estera come la maggior parte degli altri paesi (in termini cioè di interesse nazionale anziché di attaccamento a dottrine astratte) probabilmente «si farà strada la conclusione che Washington è il partner naturale, con il quale l’India condivide non solo legami culturali ma anche la sfiducia circa il rapido riarmo della Cina e la permanente alleanza del Pakistan con il Jihadismo. Questo non vuol dire diventare il cagnolino dell’America, come le elite di New Dehli sembrano costantemente temere, ma riconoscere l’ovvia convergenza di valori ed interessi. L’obiettivo più pressante per l’India, quello cioè di modernizzare la sua promettente ma ancora arretrata economia, è più facile da raggiungere in uno stabile ed aperto ordine internazionale sostenuto dalla potenza americana. E’ nell’interesse dell’India favorire anziché erodere quest’ordine e, al contempo, lavorare per ricavare per sé stessa un ruolo più ampio».

Per ora, tuttavia, il fantasma di Nehru continua a gettare un’ombra sulla politica estera indiana. Nonostante il ruolo di Beijing nel sostenere il programma missilistico e nucleare del Pakistan, le sue continue rivendicazioni sul territorio indiano e l’umiliazione militare dell’India nella breve guerra di montagna del 1962, i sostenitori del«Non Allineamento 2.0» tendono a diffidare degli Usa più che della Cina.  Presagiscono il progressivo declino americano e l’ascesa rapida dell’India ad uno status di grande potenza come un esito inevitabile e deducono che gli Stati Uniti hanno bisogno dell’India più di quanto l’India abbia bisogno degli Stati Uniti.

Ma dall’avvento delle riforme economiche del 1991, l’India è cambiata radicalmente. Oggi è più probabile che i giovani indiani delle città ricordino la visita di George Bush o quella di Obama, che quelle di Arafat o di Fidel Castro. Inoltre, una generazione di smaniosi uomini d’affari sa che l’America assicura l’aperto e stabile ordine mondiale di cui l’India ha bisogno per soddisfare la sua promessa economica; i generali indiani sanno che l’India non può permettersi di guardare con ottimismo alla crescita di un potente stato vicino, guidato da un partito unico, che mantiene rivendicazioni sul suo territorio. E il Giappone, la Corea del Sud e Singapore suscitano ammirazione tra gli indiani come società progredite che hanno migliorato infinitamente la vita dei loro cittadini mantenendo solidi legami con la principale potenza del mondo. Come ha sostenuto C. Raja Mohan, uno dei maggiori studiosi indiani, «mano a mano che cresce, l’India ha il potenziale per diventare un membro guida dell’‘Occidente politico’ e giocare un ruolo centrale nelle grandi battaglie politiche dei prossimi decenni».

Tuttavia, questa trasformazione ha bisogno di stringere i tempi e va incoraggiata. Non per caso, Monti di ritorno dal suo recente viaggio in Asia, ha sottolineato: «Ho fatto questo viaggio perché credo che l’attenzione verso questi Paesi sia nei nostri interessi, sia per abituare gli italiani a considerare questi Paesi cruciali per la crescita economica e a non ragionare più soltanto in ottica di decisioni europee. E’ tempo di cambiare i giudizi che diamo un po’ superficialmente in base ai vecchi tabù».

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qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 57 del 17 aprile 2012 – (Semi)Presidenzialismo, non solo legge elettorale

La nostra Repubblica è già cambiata, spesso in modo involontario e imprevisto (al punto che Ilvo Diamanti l’ha definita argutamente una «repubblica preterintenzionale») e oggi risulta incompiuta, a metà. Il nodo irrisolto non riguarda tanto la legge elettorale quanto la forma di governo, cioè la qualità della forma di stato. È da un pezzo che la premiership è diventata la vera e fondamentale posta in gioco. Al punto che si è fatto dell’investitura popolare diretta (o come se diretta) il perno attorno al quale ruota il sistema, senza, peraltro, introdurre alcun serio contrappeso. Sono passati diciannove anni da quando i cittadini hanno risposto inequivocabilmente alla domanda alla base del referendum del ’93: sono i partiti o i cittadini a scegliere il governo, e questo risponde ai partiti o ai cittadini? È dal ’93 che ci siamo abituati ad eleggere direttamente sindaci, presidenti di provincia e (poi) di regione.

Nel frattempo, nella considerazione degli italiani, i partiti e il Parlamento hanno toccato il punto più basso. E potrei continuare: nel 2001, i nomi di Rutelli e Berlusconi erano indicati sulla scheda elettorale; con le primarie scegliamo ormai d’abitudine i candidati per le cariche monocratiche e con le primarie abbiamo scelto il segretario nazionale e i segretari regionali del Pd, facendo volare le decisioni individuali di moltissimi cittadini là dove non erano mai arrivate, nella scelta dei massimi dirigenti. Senza contare che il quadro che emerge dalle trasformazioni degli ultimi vent’anni assegna ai vertici dell’esecutivo italiano il predominio e la regia della produzione legislativa, autosufficienza ed espansione organizzativa e il crocevia dei rapporti con gli enti locali e la comunità internazionale.

Insomma, la politica presidenziale è diventata, ormai parte integrante della nostra scena nazionale. Anche se ancora non si è trasformata in un nuovo equilibrio istituzionale. Sbaglierò, ma non credo che il parlamentarismo limitato, il sistema tedesco (magari «alle vongole») o la riduzione dei parlamentari possano bastare: too late, too little, direbbero gli americani. Anche perché, come ha spiegato Giovanni Sartori, «la costruzione di un sistema di premiership sfugge largamente alla presa dell’ingegneria costituzionale. Le varianti britannica o tedesca di parlamentarismo limitato (di semi-parlamentarismo) funzionano come funzionano soltanto per la presenza di condizioni favorevoli». E come abbiamo visto «un passaggio “incrementale”, a piccoli passi, dal parlamentarismo puro al parlamentarismo con premiership rischia di inciampare ad ogni passo». Non per caso, Sartori ritiene che «in questi casi la strategia preferibile non è quella del gradualismo, ma piuttosto una terapia d’urto. Insomma, le probabilità di riuscita sono minori nella direzione del semi-parlamentarismo, e maggiori se si salta al semi-presidenzialismo».

Il guaio è che oggi in molti prendono atto che non è possibile praticare la vecchia forma della partecipazione alla politica, ma continuano a ritenere che quella forma della partecipazione alla politica e quel sistema politico siano i migliori. E dunque cercano di avvicinarsi a quel modello e di salvare più elementi possibile di quella esperienza. Ma questo atteggiamento nasce da una visione statica e conservatrice.

Il vecchio sistema dei partiti non torna più, neppure ripristinando proporzionale e preferenze. La «metamorfosi» è già avvenuta. Nel vecchio sistema ci si faceva cittadini nel partito e del partito, perché non si riusciva ad esserlo interamente nello stato e dello stato. Adesso che l’identificazione e l’appartenenza (all’ideologia, all’utopia, alla morale del partito) non ci sono più, l’unica strada praticabile è quella di esaltare la possibilità della scelta, la responsabilità della scelta, l’esercizio della cittadinanza nello stato. Non si tratta di una questione tecnico-istituzionale, ma di una questione etico-politica. Caduti gli stimoli del passato, come si riattiva la partecipazione alla politica? Non è per questo che abbiamo scelto le primarie? Il rispetto della competenza decisionale degli individui non è forse l’unica risposta possibile a una crisi di fiducia ormai incontenibile?

Forse dovremmo guardare di più alle tendenze di fondo della società, comuni a tutti i paesi avanzati: dalla struttura economica all’eguaglianza di genere, dalla natura della famiglia all’individualizzazione dei valori. In tutte le società industriali avanzate, le condizioni di prosperità economica raggiunte hanno modificato i nostri valori. Ora, rispetto alle generazioni del periodo postbellico, l’auto-espressione, la qualità della vita, la scelta individuale sono diventate centrali. E questa nuova visione del mondo si accompagna a una de-enfatizzazione di tutte le forme di autorità. Insomma, invece di essere diretti dalle élite, tutti s’impegnano in attività dirette a sfidare le élite.

C’è chi ritiene (ad esempio, Roberto Gualtieri in un articolo pubblicato da L’Unità lo scorso 4 aprile ) che «se si percorrerà con decisione la strada europea di una democrazia parlamentare centrata su grandi partiti sarà possibile aprire una nuova pagina della vita nazionale» e magari archiviare «per sempre non solo la figura di Silvio Berlusconi ma l’impianto politico-culturale che ne ha determinato l’egemonia per un ventennio». Sarà, ma non ci credo.

Quello che è avvenuto in questo ventennio non è una parentesi antistorica, un’invasione degli Hyksos. E non c’è modo di ripristinare il vecchio sistema con un intervento di restauro. Oggi la classe politica (tutta) e la politica come attività, sono completamente delegittimate agli occhi dei cittadini. La gente ha perso la fiducia nei partiti e il sentimento prevalente è che i politici sono inutili, non fanno il loro mestiere e pensano solo ad arricchirsi.

E anche l’Europa non è più quella di una volta. L’erosione della fiducia dei cittadini nei loro dirigenti e nelle istituzioni politiche è diventata uno dei fenomeni più studiati dalla scienza politica negli ultimi vent’anni. Pierre Rosanvallon ha scritto «La politique à l’âge de la défiance»; e in un libro pubblicato non molto tempo fa da Polity Press con un titolo emblematico, «Why We Hate Politics», Colin Hay ha esaminato le ragioni della disaffezione per la politica e del disimpegno nelle società occidentali.

Tanto negli Usa che nel Regno Unito, i dati sembrano suggerire tre cause principali: la (percepita) tendenza delle élite politiche di rovesciare l’interesse pubblico collettivo nella gretta ricerca dell’interesse di partito o personale; la (percepita) tendenza delle élite politiche di finire preda dei grandi interessi; la (percepita) tendenza del governo all’uso inefficiente delle risorse pubbliche. Tutte cose che dovrebbero suonare familiari anche alle nostre orecchie. Non per caso, la settimana scorsa Die Welt si è chiesto:«Saranno i pirati a democratizzare l’Europa?». Secondo il quotidiano  tedesco,  il Partito dei Pirati (…e ho detto tutto!, direbbe Peppino) potrebbe essere il pioniere di una nuova democrazia nell’era post-industriale ed il primo partito genuinamente europeo  («Die neuen Maximalisten», 11 aprile 2012).

Bisognerà farsene una ragione: oggi nessuno partecipa più alla politica come in passato. Per questo bisogna passare definitivamente da una concezione e da una pratica politica fondate su una dichiarazione e una scelta di appartenenza a quelle fondate sulla responsabilità della scelta per il governo del paese. Specie se si considera che il nostro paese deve fare i conti non solo con il malessere che, dovunque in Occidente, circonda l’attività politica, ma anche con una dirompente sfiducia nello stato. Una costante nella storia d’Italia che la mancata modernizzazione del paese ha aggravato al punto che oggi è in discussione la stessa unità nazionale.

Il punto (di nuovo, la questione etico-politica) è che oggi solo la leadership può essere una risposta alla crisi di legittimazione. Gian Enrico Rusconi nei giorni scorsi ha osservato:«ogni ipotesi di riforma istituzionale che evochi il “presidenzialismo” in qualunque forma, è motivo di sospetto prima ancora che di ragionata opposizione. Ma quello che sta accadendo da mesi è la prova evidente della necessità di dotare il nostro sistema politico di competenze di governo che abbiano la legittimità e la forza di aggregare decidendo, soprattutto di fronte alla crescente dispersione delle rappresentanze degli interessi». Ma, allora, visto che bisogna ricostruire il sistema dei checks and balances tra poteri e istituzioni dello stato, perché non è il centrosinistra ad avanzare e precisare il tema del (semi)presidenzialismo (non è forse una «strada europea»?) come complemento necessario dell’Italia «federale»?

Ora che, dopo vent’anni di progetti e di discorsi inconcludenti, la credibilità del federalismo è sfumata, non sarebbe male tenere a mente che quella di nuove regole e di nuove istituzioni è una strada (imposta da emergenze e fratture) che abbiamo scelto proprio per «sanare il contrasto tra società e Stato, fra società e politica». Un contrasto che non è risolto per il fatto che ora (anche) la Lega è colpita dagli scandali.

Enrico Berlinguer, nella celebre intervista concessa a Eugenio Scalfari nel luglio del 1981, espresse con parole appassionate la sua condanna del sistema dei partiti e della loro degenerazione. Ma denunciando la «questione morale» come la questione più importante del paese, senza avanzare contemporaneamente proposte ed ipotesi per la riforma delle istituzioni che, per dirla con uno slogan, «restituissero lo scettro» ai cittadini, Enrico Berlinguer condannò se stesso e il suo partito ad una pura azione di denuncia e testimonianza, altissima certo ma sterile. Oggi come allora quel che occorre è un’ipotesi di riforma delle istituzioni in grado di scongiurare davvero il rischio di un decadimento della democrazia.

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Il Foglio, 19 aprile 2012 – Se i cittadini non decidono chi governa, chi potrà governare?

La nostra Repubblica è cambiata da un pezzo e, da un pezzo, la premiership è diventata la vera e fondamentale posta in gioco. Al punto che si è fatto dell’investitura popolare diretta (o come se diretta) il perno attorno al quale ruota il sistema, senza, peraltro, introdurre alcun serio contrappeso. Sono passati diciannove anni da quando i cittadini hanno risposto inequivocabilmente alla domanda alla base del referendum del ’93: sono i partiti o i cittadini a scegliere il governo, e questo risponde ai partiti o ai cittadini? È dal ’93 che ci siamo abituati ad eleggere direttamente sindaci, presidenti di provincia e (poi) di regione. Nel frattempo, nella considerazione degli italiani, i partiti e il Parlamento hanno toccato il punto più basso. Nel 2001, i nomi di Rutelli e Berlusconi erano indicati sulla scheda elettorale; con le primarie scegliamo ormai d’abitudine i candidati per le cariche monocratiche e abbiamo scelto il segretario nazionale e i segretari regionali del Pd, facendo volare le decisioni individuali di moltissimi cittadini là dove non erano mai arrivate, nella scelta dei massimi dirigenti. Inoltre, il quadro che emerge dalle trasformazioni degli ultimi vent’anni assegna ai vertici dell’esecutivo italiano il predominio e la regia della produzione legislativa, autosufficienza ed espansione organizzativa e il crocevia dei rapporti con gli enti locali e la comunità internazionale. Insomma, la politica presidenziale è diventata ormai parte integrante della nostra scena nazionale, anche se ancora non si è trasformata in un nuovo equilibrio istituzionale. E oggi che la classe politica (tutta) e la politica come attività, sono completamente delegittimate agli occhi dei cittadini, si pensa davvero di poter ripristinare il vecchio sistema con un intervento di restauro? Too late, too little. Il vecchio sistema dei partiti non torna più, neppure ripristinando proporzionale e preferenze. Nel vecchio sistema ci si faceva cittadini nel partito e del partito, perché non si riusciva ad esserlo interamente nello stato e dello stato. Adesso che l’identificazione e l’appartenenza (all’ideologia, all’utopia, alla morale del partito) non ci sono più, l’unica strada praticabile è quella di esaltare la possibilità della scelta, la responsabilità della scelta. Non si tratta di una questione tecnico-istituzionale, ma di una questione etico-politica. Il rispetto della competenza decisionale degli individui non è forse l’unica risposta possibile a una crisi di fiducia ormai incontenibile? Non è per questo che abbiamo scelto le primarie? Oggi solo la leadership può essere una risposta alla crisi di legittimazione. «Ogni ipotesi di riforma istituzionale che evochi il “presidenzialismo” in qualunque forma – ha osservato Gian Enrico Rusconi – è motivo di sospetto prima ancora che di ragionata opposizione. Ma quello che sta accadendo da mesi è la prova evidente della necessità di dotare il nostro sistema politico di competenze di governo che abbiano la legittimità e la forza di aggregare decidendo, soprattutto di fronte alla crescente dispersione delle rappresentanze degli interessi». Perché, allora, non è il centrosinistra ad avanzare e precisare il tema del (semi) presidenzialismo come complemento necessario dell’Italia «federale»? Enrico Berlinguer, nella celebre intervista concessa a Eugenio Scalfari nel 1981, espresse con parole appassionate la sua condanna della degenerazione del sistema dei partiti. Ma denunciando la «questione morale» come la questione più importante del paese, senza avanzare contemporaneamente proposte per la riforma delle istituzioni che «restituissero lo scettro» ai cittadini, Berlinguer condannò se stesso e il suo partito ad una mera azione di testimonianza, altissima certo, ma sterile. Oggi come allora occorre è un’ipotesi di riforma delle istituzioni in grado di scongiurare il rischio di un decadimento della democrazia.

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Il Gazzettino, 1 maggio 2012 – ‘Scelta dell’anti–Tondo. Maran mette fretta al Pd’

Intervista con il deputato, uno dei papabili per la corsa regionale: «Non bisogna avere paura di un conflitto trasparente tra idee diverse»

di Antonella Lanfrit

UDINE – «Prima ci diamo una mossa e meglio è», perché per scegliere la leadership «è già tardi, dobbiamo procedere il prima possibile». E se «il Pd fosse costretto ad esternalizzare la scelta, significherebbe certificare una  sconfitta».  A sollecitare un cambio di passo per i Democratici del Friuli Venezia Giulia per le regionali del 2013 è il deputato del partito Alessandro Maran. Una sollecitazione interessata, si potrebbe dire, posto che il suo è uno dei nomi più volte indicato tra i papabili per la corsa alla presidenza della Regione, ma il suo input è la conseguenza di un ragionamento più ampio.

«Il Pd nacque da un presupposto  – spiega il deputato – : che i cittadini potessero cambiare idea. Che il voto cioè non fosse predefinito, perché non più legato alle vecchie appartenenze. Ne consegue che anche il Pd deve cambiare idee e mentalità». La questione del candidato, cioè, «non è solo affare di facce, ma di teste nuove». E se ciò comporta uno «scontro creativo» all’interno del partito su «diverse visioni di futuro», non è un male. Perché «è solo dal confronto fra diverse opzioni che può maturare la leadership». E’ il processo che in seno ai Democratici americani ha fatto emergere Obama, ricorda Maran, ed è la tensione dei maggiori partiti europei cui il Pd dovrebbe guardare.

«La scelta del candidato non è un concorso di bellezza – rincara -, significa individuare cosa fare e, soprattutto, come realizzare gli obiettivi. L’idea guida non può essere la relativa notorietà del nome da far scendere in campo». La crisi di fiducia nei confronti dei partiti e l’ombra di un assenteismo dilagante non scoraggiano Maran, perché «dobbiamo scommettere sulla responsabilità della scelta. La politica è proprio lo spazio della scelta – sottolinea – e perciò l’affermazione dell’attuale presidente della Regione, Renzo Tondo, non è inevitabile. Le sue riforme, per ora, sono solo chiacchiere».

Ma proprio in virtù di questo ragionamento, occorre che il Pd dia agli elettori materia per scegliere. «La gente è smarrita, avrebbe bisogno di una leadership, che però non può più uscire da accordi tra capi bastone o da segrete stanze e non può neanche essere presentata nelle ultime settimane».  Pensare che funzioni una simile strategia «è un’illusione». Perciò la scelta di una moratoria per salvare l’unitarietà del partito ha fatto il suo tempo. E il «rimprovero» che Maran muove al Pd friulgiuliano è quello di «una discussione interna sottotraccia». Le diverse ipotesi di futuro «debbono emergere. Un conflitto trasparente è positivo. Un conflitto sottaciuto non si capisce ed è derubricato ad interessi di bottega, fa parte di quell’armamentario dei partiti che i cittadini non accettano più». Tra una settimana «potrebbero esserci notizie positive», conclude Maran, con la possibile vittoria di Hollande in Francia e «lusinghieri risultati» alle amministrative. Dal suo punto di vista motivi in più per il tempo della scelta.

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Il Gazzettino, 5 maggio 2012 – Debora scelta obbligata o il Pd non avrà più senso

Intervista.

Attesta che per natura gli schieramenti sono permeabili, che vincere la Regione nel 2013 è possibile. Ma non con Riccardo Illy, che considera un film già visto e senza lieto fine, bensì con la segretaria regionale del Pd Debora Serracchiani, che ormai impersona «una candidatura obbligata».
Alessandro Maran, eletto a Gorizia, vicecapogruppo dei Democratici alla Camera e intellettuale della famiglia Pd, ha appena finito una partitella di calcio sul campo della Casa Faidutti a Bagni di Lusnizza, nelle Alpi Giulie. È l’epilogo dell’ormai collaudato seminario di geopolitica organizzato ogni anno dagli amici dell’Università di Trieste, dove ti insegnano a guardare la storia della frontiera sul campo eanche dall’altra parte. Ha una caviglia gonfia, s’è fatto male all’ultimo minuto. Come tutti gli anni. Lo fasciano con l’ossido di zinco, ma appena gli parli di politica il dolore non esiste più.
Onorevole Maran, lei dice Serracchiani e non Illy. Ma pare che nel Centrodestra temano più Illy.
«Se Debora non si candidasse – e credo lo annuncerà a breve – dovremmo ammainare definitivamente la bandiera di referenti del Centrosinistra, posto che quello sia ancora il nostro progetto».
D’accordo: Serracchiani. Ma con quale cartello elettorale?
«Esistono due opzioni. La prima: assemblare un’alleanza “da Bertinotti a Mastella”, come si diceva una volta, con l’esclusivo denominatore comune dell’avversario da battere: Renzo Tondo».
Oppure?
«Condividere le idee “per” e non “contro”. Occorrono tre cose: consenso, programma, leader».
Nobili parole. Ma fra la ragion pura e la ragion pratica il guado è profondo.
«La questione non è conquistare il Centrosinistra, non è lì che si vince. È imprescindibile fare breccia nelle coscienze e nella testa di chi ha votato per il Centrodestra».
E Sergio Bolzonello, lo ha archiviato tout court?
«Tutt’altro. Lui impersona la dimensione civica, penso a una grande lista civica da lui guidata, o meglio a più liste civiche locali».
Per poi fare tandem Serracchiani presidente e Bolzonello suo vice plenipotenziario?
«Non mi pare una cattiva idea».
Ma sia sincero: perché non Illy? Non è in politica, è un bel nome. La rivincita – ma lui non vuole chiamarla così – sarebbe una finale da Champions League.
«La verità è che appartiene a una stagione passata. Nel 2003 partimmo da una Lista Illy e tutti lavorarono attorno . Ma noi esercitammo allora un passivo servizio alla leadership . In realtà Illy, al di là di quanto ha detto al Gazzettino , non accetta il Pd ma piuttosto l’idea di un contenitore dove si riproduca la logica dell’Unione».
E perché non andrebbe bene?
«Perché allora la scelta di Illy fu dettata soprattutto dalla necessità di depotenziare il conflitto destra-sinistra: niente cosacchi alla fontana di San Pietro. Questo era il messaggio, per intenderci».
Oggi invece di “rosso” nel Pd non c’è più nessuno, dice lei.
«Oggi il Pd ha senso per conquistare il voto degli altri reggendo la guida della coalizione, niente servizi ad altri. Ma abbiamo stentato ad adeguare l’offerta – cioè le cose da fare per i cittadini – all’evoluzione della società».
Se è per questo, il nodo resta irrisolto. Massimo Cacciari afferma in questi giorni che il Pd non riesce a rispondere alle istanze del Nord nemmeno dopo la grande crisi di Pdl e Lega.
«Siamo in forte ritardo. Il Pd non è riuscito ad adeguarsi, ripeto. Non ha fatto come i New Labour in Gran Bretagna, la Spd in Germania. Obama con i Dem».
Cronache di una nuova Caporetto elettorale?
«Non necessariamente. Certo, c’è Grillo con cui fare i conti. E vale 10 punti percentuali se va bene. Ma non si tradiscono gli operai se si mettono in campo misure contro la burocrazia (e la corruzione). Se si punta a tagliare le troppe tasse del Nord».
Quasi quasi parla da Centrodestra.
«Ecco il punto: dobbiamo essere noi il nuovo Centro, certo non con i valori degli altri ma con i nostri. Il Centro non è soltanto cattolico: il vero Centro è la parte innovativa del Paese, quella che continua la conoscenza».
Già, ma come convincerete un elettore moderato a votarvi?
«Aggredendo i problemi reali con la testa al futuro e al mondo reale, cementando i programmi nella figura del leader. Più competenze regionali sul lavoro, più integrazione fra università, scuola gestita in Friuli Venezia Giulia. E meno carte. È vero: possiamo fare da apripista nazionale. Se invece assembleremo ancora entità troppo eterogenee, magari vinciamo anche. Ma non governeremo affatto: l’alleanza imploderà».

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GIORNALI2012

L’Opinione, 10 maggio 2012 – Istituzioni forti e stato leggero

Ha ragione Mario Barbi. Dal crollo della Prima repubblica, consentire ai cittadini di scegliere col voto un leader e una maggioranza, è stata la fonte principale di forza e di legittimazione di tutta la strategia riformista sul tema della forma di governo e delle leggi elettorali. Oggi, invece, il bipolarismo, il maggioritario la personalizzazione, l’elezione diretta (tutti, indistintamente, accomunati sotto l’etichetta del populismo personalistico) sono diventati, nella narrazione che ha preso piede, il segno della fine della democrazia, della abdicazione della politica e di altre terribili catastrofi.

A ben guardare, la crisi economica europea (che cresce, si complica e potrebbe mettere in discussione la stessa integrazione europea) si è incaricata di dimostrare che il problema fondamentale dell’Italia non è la presunta «emergenza democratica» di cui si è molto parlato negli anni scorsi lamentando il bipolarismo «forzoso e incivile», ma la mancata modernizzazione del paese. Ed ha chiarito, se ancora ce ne fosse bisogno, che la politica non tornerà «normale» con l’uscita di scena di Berlusconi. Quello che è avvenuto in questo ventennio non è una parentesi antistorica, un’invasione degli Hyksos. E tolto di mezzo il Caimano, non ritornerà l’età dell’oro (che non è mai esistita: la Prima repubblica non era affatto una democrazia priva di difetti). Nel ’94 non si è causata una ferita che attende di essere sanata, ma sono saltate gerarchie culturali che non è possibile ripristinare. Senza contare che la prima vittima della crisi finanziaria è stato il mito della sovranità nazionale. Tanto per capirci, da tempo in Europa non esistono più gli stati nazionali ed esistono invece gli stati membri dell’Unione europea.

Diciamoci la verità: la competizione bipolare è stata costantemente ipotecata dalla persistenza del precedente sistema istituzionale e da una struttura incoerente e frammentata delle due principali coalizioni. Ma la nostra repubblica non è più quella di prima, è già cambiata (in modo spesso involontario e imprevisto: Ilvo Diamanti l’ha definita argutamente una «repubblica preterintenzionale») e oggi risulta incompiuta, a metà. Il nodo irrisolto non riguarda tanto la legge elettorale, quanto la forma di governo, cioè la qualità della forma di stato. E con questo rivestimento istituzionale, l’Italia prima o poi sbatterà la testa contro il muro. È da un pezzo che la premiership è diventata la vera e fondamentale posta in gioco. Al punto che si è fatto dell’investitura popolare diretta (o come se diretta) il perno attorno al quale ruota il sistema, senza, peraltro, introdurre alcun serio contrappeso.

Oggi in molti prendono atto che non è possibile praticare la vecchia forma della partecipazione alla politica, ma continuano a ritenere che quella forma e quel sistema politico siano i migliori. E dunque cercano di avvicinarsi a quel modello e di salvare più elementi possibili di quella esperienza. Questo atteggiamento nasce da una visione statica e conservatrice. Ma come si fa a pensare di poter ripristinare il vecchio sistema con un semplice intervento di restauro? Quel che è avvenuto in questi anni (a partire dalla dissoluzione del vecchio sistema dei partiti) non è un incidente di percorso. Nel vecchio sistema ci si faceva cittadini nel partito e del partito, perché non si riusciva ad esserlo interamente nello stato e dello stato. Adesso che l’identificazione e l’appartenenza (all’ideologia, all’utopia, alla morale del partito) non ci sono più, l’unica strada praticabile è quella di esaltare la possibilità della scelta, la responsabilità della scelta, l’esercizio della cittadinanza nello stato. Non si tratta di una questione tecnico-istituzionale, ma di una questione etico-politica.

Caduti gli stimoli del passato, come si riattiva la partecipazione alla politica? Non è per questo che abbiamo scelto le primarie? Il rispetto della competenza decisionale degli individui non è forse l’unica risposta possibile a una crisi di fiducia ormai incontenibile? Specie se si considera che il nostro paese deve fare i conti anche con una dirompente sfiducia nello stato. Una costante nella storia d’Italia che la mancata modernizzazione del paese ha aggravato al punto che oggi è in discussione la stessa unità nazionale. Me lo chiedo da tempo: visto che bisogna ricostruire il sistema dei “check and balance” tra poteri e istituzioni dello stato, perché non è il centrosinistra ad avanzare e precisare il tema del (semi)presidenzialismo come complemento necessario dell’Italia «federale»? La scelta semi presidenziale (alla francese, per intenderci) non è forse una «strada europea»? E non è tempo di riconoscere la necessità di uno stato più leggero (il che significa ridurre le occasioni di intermediazione della politica nel funzionamento della società e dell’economia) e di istituzioni più forti?

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GIORNALI2012

qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 61 del 15 maggio 2012 – Fix Congress First!

Arianna Huffington è una affermata opinionista americana. Presidente e direttore generale dell’Huffington Post Media Group, ha scritto 13 libri, ha lanciato The Huffington Post (un sito di notizie che è diventato rapidamente il media brand più letto, linkato e citato su Internet) ed è stata inserita da Time Magazine nella lista delle 100 persone più influenti al mondo. Di recente, Arianna Huffington ha scritto un libro intitolato Third World America con l’intento dare l’allarme. «Se non correggiamo la nostra rotta – scrive la columnist americana –  potremmo diventare una nazione del Terzo Mondo – un posto dove ci sono solo due classi, i ricchi … e tutti gli altri. Pensate al Messico o al Brasile, dove i ricchi vivono dietro a recinti fortificati, con guardie armate di mitra che proteggono i loro figli dai rapimenti».

La classe media americana sta diventando una specie in pericolo. Le cause sono numerose – dal sistema educativo fatiscente ad un sistema politico giunto ad un punto morto – ma tutte stanno contribuendo alla caduta libera del paese dalla superpotenza del XX secolo al paese del Terzo Mondo del XXI secolo. Ovviamente, Arianna Huffington si propone di fare appello al Can-Do spirit degli americani (l’attitudine intraprendente e sicura di sé degli americani di fronte alle sfide) e delineare un piano per rimettere la nazione sui binari e restaurare l’American dream. «I giorni migliori stanno ancora davanti a noi – sostiene la giornalista di origine greca – ma il momento di agire è adesso». La parte finale del libro è dedicata alle cose da fare. E tra le proposte contenute nell’ultimo capitolo (Saving ourselves from a Third world future), ce n’è una (The mother of all reforms) che viene prima di tutte le altre e che, con l’aria che tira dalle nostre parti, sembra perfino paradossale.

«E’ un classico comma 22: la maniera migliore per risolvere il mucchio di problemi che l’America si trova di fronte è attraverso il processo democratico – scrive Arianna Huffington -, ma il processo democratico è seriamente danneggiato. Ecco perché il primo passo per fermare la nostra inesorabile  trasformazione in una America da Terzo mondo deve essere quello di liberarsi dalla presa soffocante che il denaro degli interessi particolari ha sulla nostra politica. Ciò deve cominciare con un completo ripensamento del modo in cui finanziamo le nostre elezioni. Il modo migliore per restaurare l’integrità del nostro governo è attraverso il completo finanziamento pubblico delle campagne elettorali. E’ la madre di tutte le riforme – la riforma che rende tutte le altre riforme possibili. Dopotutto, chi paga comanda.  Se qualcuno deve possedere i politici, tanto vale che sia il popolo americano. Pensateci: niente donazioni politiche, niente “Pac money”, niente questua incessante per i soldi, niente favori in cambio di quattrini. Non più lobbisti seduti negli uffici di Camera e Senato intenti letteralmente a tradurre in leggi scappatoie fatte su misura. Non più omaggi alle corporazioni imbucati in enormi provvedimenti di spesa. Non più pericolosi rilassamenti delle norme di sicurezza che possono essere fatti risalire alle donazioni elettorali. Solo candidati ed eletti in debito con nessun altro che gli elettori».

Tra quelli che stanno lavorando affinché questo accada ci sono Lawrence Lessig, professore di diritto a Harvard, e Joe Trippi, che ha diretto la campagna presidenziale di Howard Dean. Insieme hanno fondato Fix Congress First!, con l’intento di costruire un movimento popolare per premere sul Congresso ed indurlo a passare una legislazione per il finanziamento pubblico. «Lo sforzo – conclude Arianna Huffington – è quello di creare ‘la più grande lobby nella storia della politica americana’. E chi è parte di questa lobby onnipotente? Tu, io e il resto dei 300 milioni di cittadini degli Stati Uniti».

Va da sé che i fatti gravissimi emersi prima con il caso Lusi e poi con l’inchiesta sui conti della Lega Nord rappresentano senza dubbio la goccia che ha fatto traboccare il vaso del rapporto dei cittadini con la politica; e non c’è dubbio che – come si affanna a ripetere Giorgio Napolitano – bisogna intervenire, e bisogna farlo rapidamente, «anche per definire norme che sanciscano regole di trasparenza e democraticità nella vita dei partiti, compresi nuovi criteri, limiti e controlli per il loro finanziamento». Ed è un bene che i relatori abbiano accolto la proposta del Pd di dimezzare da subito i rimborsi elettorali. Ma quella del finanziamento pubblico, come sostengono i fondatori diFix Congress First!, «non è una questione democratica o repubblicana – è una questione fondamentale circa il tipo di democrazia che vogliamo avere». Come direbbe Arianna Huffington, «Pensateci!».

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GIORNALI2012

Il Gazzettino, 15 maggio 2012 – Maran: «Senza idee non vinceremo mai»

«L’unica e vera salvezza del partito è rappresentata dalla possibilità di innescare, da oggi, una competizione di idee e personalità». Di più: «Resto persuaso che Furio Honsell si voglia candidare. Il mondo che gli sta attorno (dalla Fiom all’Anpi) ritiene (giustamente) di poter scompaginare le nostre fila, di mettere a frutto le nostre divisioni, il risentimento che cova tra i nostri militanti ed elettori, le nostre incertezze ideologiche e culturali». Vedono insomma «la possibilità di restaurare il profilo e le parole d’ordine della vera sinistra battendo i traditori della classe operaia».

Sandro Maran, vicecapogruppo alla Camera e veltroniano del Friuli Venezia Giulia, sferza con parole dirette il Pd regionale che inforca le primarie interne, aperte all’ex sindaco pordenonese Sergio Bolzonello esemmai al sindaco di Udine Honsell. Ma sono anche l’affermazione esplicita di una volontà di potenza che induce la sinistra alla rabbia.

Sa bene, Maran come altri non sprovveduti protagonisti, che da qui a settembre saranno regole, dialettiche, farragini e scontri, ondate e risacche sugli scogli della non digeribile sudditanza degli alleati a sinistra. Un contesto d’alta marea che in teoria vedrebbe il centrosinistra della regione in favore di vento nazionale, ma che nei fatti registra la divisione dello schieramento da una parte e dall’altra una babele silenziosa sul da farsi non anti-Tondo, ma anti-paura dei cittadini, anti-disperazioni individuali che si fanno cemento diffuso nel Nordest del Nordest, dove la Bora soffia generosa sui remi affilati del grillismo.

«I democratici americani non sono arrivati a Denver da un giorno all’altro, ma dopo un anno di scontri appassionati dopo i quali si sono stretti attorno ad Obama», tuona Maran. «Non attraverso lo scontro o gli accordi tra capibastone, ma con il libero e creativo scontro di idee e di ricette che anima i partiti più dinamici. E che serve a far emergere una piattaforma e una figura in grado di ripartire e di giocarsi una nuova partita con qualche speranza».

Di fronte alle faide per salvarsi la poltrona triestina o romana, «la politica è fare delle cose e non diventare qualcosa», dice un Maran che non ipoteca il proprio futuro in nessuna delle due città. Sicché «il punto, è proprio questo: il profilo politico del Pd come condizione perché l’alternativa a Tondo sia affidabile, credibile e praticabile».

Brucia come il fuoco la sconfitta di Gorizia, gonfalone delle consolazioni a centrodestra: «La coalizione ha ritrovato la propria unità assumendo un profilo molto radicale – è l’analisi di Maran – ma il profilo di Izquierda Unida non del PSOE. Che non per nulla ha respinto Roberto Collini come altro da sé.  E non è un caso che Romoli riesca a riunire il centrodestra dall’Udc alla Lega. Unico in Italia». Si sapeva che sarebbe potuta finire così, come no, eppure «c’è chi ha preferito perdere con un partito unito che vincere con un partito diviso». Una scelta tragica nel senso archetipico della tragedia greca, perché «una volta fatta quella scelta, pensate un attimo alla tragedia greca, tutto ciò che segue è ineluttabile».

Soprattutto, dunque, mettere in campo idee concrete da una parte e una strategia di coalizione diversa dall’altra: «Dovremmo pensare a una lista civica – ripete Maran – poiché la linea che adesso stiamo seguendo è quella della grande alleanza di tutti coloro che sono contro Tondo». Ma è «una linea sbagliata» in quanto «l’elemento ispiratore è l’anti e non il per». Il per postula naturalmente i cittadini e il loro profondo disagio di questi tempi. Un per del quale sorprendentemente poco si parla nel Pd. Stretto nel guado, come le estreme parole di Goethe, fra invocare più luce e santificare il nulla.

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