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Il Gazzettino, 11 luglio 2012 – I tagli saranno sostenibili

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Messaggero Veneto, 24 luglio 2012 – PROVINCE GUARDIAMO ALL’EUROPA

Bassi salari, alta disoccupazione, diseguaglianza crescente rischiano di trasformare le preoccupazioni economiche degli italiani in risentimento. E prima che le difficoltà e il risentimento crescano ulteriormente, l’Italia deve optare per le riforme. Dobbiamo offrire un cambiamento sia nelle politiche sia nel modo di fare politica. A cominciare, naturalmente, dall’adeguamento delle indennità e del numero degli eletti alla media europea. Ma dobbiamo mettere ordine anche nella «casa» della politica: la Pubblica amministrazione. Con scelte emblematiche. Ha ragione Omar Monestier: togliamo di mezzo le province e ripensiamo ex novo l’articolazione del governo locale in regione. Non si capisce perché l’Italia debba avere quattro livelli territoriali costituzionalmente garantiti: lo Stato, le Regioni, le Province e i Comuni. Per restare in Europa, la Francia prevede in Costituzione i Comuni e i Dipartimenti; la Germania, i Comuni e i Länder. Questo non vuol dire che non esistano altri livelli territoriali (le Regioni in Francia, i Distretti in Germania), ma non sono enti politici costituzionalmente garantiti, bensì luoghi di coordinamento territoriale. Può darsi quindi che sia necessario un livello intermedio tra Comune e Regione (ad esempio associazioni tra Comuni), ma la cosa non c’entra con la questione che si pone quando si dice che occorre abolire le Province come enti costituzionali e politici. Il che non solo consente un importante risparmio nel bilancio dello Stato, ma colpisce anche gli agglomerati parassitari che creano una giustificata protesta da parte dei cittadini. E’ questa la «riforma della politica». E vale anche per i comuni. La dimensione territoriale dei nostri comuni è ancora quella del Medioevo: la distanza che si poteva percorrere a piedi sulle strade di allora nelle ore di luce. Ma oggi l’economia del Paese ha bisogno di avviare grandi trasformazioni e il ripensamento di un’organizzazione territoriale finora policentrica e dispersa (un ripensamento che deve avvenire in direzione dell’apertura alla globalità, da una parte, e in direzione dell’integrazione tra più città e più sistemi locali, dall’altra) costituisce forse il capitolo più importante che questo progetto. Le città, infatti, stanno mutando funzioni, posizione e funzionamento interno in tutta Europa e l’organizzazione della produzione e dei servizi, per tutte le cose di qualità, sta sempre più uscendo dal tradizionale spazio urbano, divenuto troppo limitato, per approdare ad aree più estese. E in tutta Europa, negli anni ’90, c’è stato un grande fervore riformatore per definire un nuovo ordine territoriale. A Rotterdam un network amministrativo che include anche altre municipalità è stato tentato per definire la “Citta-regione”; a Lione si è creata una “regione urbana” con le città vicine e così via. In Germania i comuni erano addirittura 24.476 e ogni Land ha usato le ricette più convenienti per gli accorpamenti. Nel Canton Ticino esistono, dal 1995, opportuni incentivi alle fusioni: così 45 comuni si sono uniti in 15 nuove aggregazioni. In Danimarca hanno ridotto i Comuni da  1388 a 275 (e le province da 22 a 14), in Belgio da oltre 2500 a meno di 600, in Inghilterra da 1830 a 486. E potrei continuare. Insomma, quello delle cento città è un mito antico della politica italiana, ma questa deve rinnovare le sue parole d’ordine se vuole affrontare le sfide del futuro. E quello della riorganizzazione della rete comunale è un compito storico, per il quale la nostra Regione, forte della sua autonomia, deve cominciare a lavorare almeno con la stessa solerte attenzione dei Länder tedeschi. Non fosse altro perché, come hanno scritto Rino Batocletti e Leopoldo Coen, le regioni autonome «non potranno più usare le loro prerogative speciali soltanto per conservare».

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qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 72 del 31 luglio 2012 – Quella collaborazione necessaria

Sostiene Bersani che «l’Italia ha diritto ad una democrazia che funzioni con due polmoni, a uscire dall’eccezionalità». Giusto. Ma l’Italia ha anche diritto a rapporti tra i partiti più distesi, riformisti, costituenti. Diciamolo chiaramente: il nostro Paese non potrà ritrovare la propria strada in un clima di «guerra civile» permanente.  Con l’aria che tira, di fronte alle prove molto dure che l’Italia deve affrontare nel quadro della crisi che ha investito l’Europa, occorre una coesione sociale e nazionale straordinaria. Oltretutto, senza un’azione collettiva non possiamo sistemare quel che (da tempo) ha bisogno di essere aggiustato. Non per caso, da tempo il Presidente Napolitano ha sottolineato che «è indispensabile un riavvicinamento tra i campi politici contrapposti, il che non significa confondersi, non significa rinunciare alle rispettive identità, ma significa condividere gli sforzi che sono indispensabili per riaprire all’Italia una prospettiva di sviluppo e anche per ridare all’Italia il ruolo e il prestigio che le spetta nella comunità europea e nella comunità internazionale».

Ovviamente, la polarizzazione del sistema politico, lo scontro permanente, sono anche il prodotto di forze profonde (economiche, sociali, tecnologiche, ecc.) che hanno modellato la società per più di mezzo secolo. Ma un sistema così polarizzato non può fornire le risposte alle principali sfide di oggi di cui il Paese ha bisogno.

Non è un’esclusiva dell’Italia. In questi anni, ad esempio, la hyper-partisanship ha paralizzato Wahington e polarizzato l’America. Specie al giorno d’oggi, come ammoniva Thomas Jefferson, «le grandi innovazioni non dovrebbero essere imposte da una maggioranza esigua». Ma se anche fosse in grado di farlo, non sarebbe necessariamente un bene, poiché nessun partito, da solo, ha tutte le risposte per affrontare la globalizzazione, la rivoluzione tecnologica, il debito, il deficit, i problemi energetici, l’emergere di un ordine internazionale multipolare, ecc. Anzi, il più delle volte, avremmo bisogno di un cocktail, di una combinazione del meglio, sia della destra che della sinistra. Diversamente, andare avanti e indietro tra le due posizioni estreme dei partiti, disfando dopo ogni elezione quel che si è fatto la volta precedente, non risolverà nulla.

Ma c’è dell’altro. In questi anni, il rancore fazioso, la sfiducia reciproca e la conseguente paralisi sulle questioni più importanti per il futuro del Paese, hanno fatto (com’era prevedibile) una pessima impressione sugli elettori. Il che ha condotto ad una perdita di credibilità per tutti i leader politici. In Italia come in America. Thomans L. Friedman e Michael Mandelbaum (in un bel libro scritto a quattro mani: «That Used To Be Us: What Went Wrong with America – and How It Can Come Back») scrivono che la nonna materna di quest’ultimo (che emigrò negli Stati Uniti dall’Europa dell’Est nella prima parte del secolo scorso) una volta gli raccontò del dibattito a tre tra i candidati a sindaco nella città di New York. Dopo che il Repubblicano e il Democratico ebbero parlato, il candidato Socialista cominciò il suo discorso con queste parole:«Voglio dirvi che potete credere a quel che dicono i miei avversari. E’ vero. Sono qui per garantire della loro sincerità. Quando il Democratico vi dice che il Repubblicano non va bene, gli potete credere. E quando il Repubblicano vi dice che il Democratico non vale niente, potete credere anche a lui». Evidentemente, il popolo americano (non diversamente da quello italiano) ha finito per credere a quel che Repubblicani e Democratici hanno detto gli uni degli altri e, come risultato, la considerazione pubblica della politica è caduta al minimo storico.

E’ un costo enorme. Come ha osservato il columnist del Wall Street Journal, Gerlald Seib:«L’America e i suoi leader politici, dopo due decenni in cui non sono riusciti ad unirsi per risolvere i grandi problemi, sembra abbiano perduto fiducia nella loro capacità di poterlo fare. Un sistema politico che si aspetta l’insuccesso, non ci prova neppure a produrre qualcosa di diverso». In America la politica oggi è quasi come un parassita che si nutre dell’interesse nazionale per procurarsi un vantaggio temporaneo. Ma «se non salviamo il negozio – ha rilevato Mike Murphy, un veterano delle campagne repubblicane – le dispute tra destra e sinistra, tra mele e arance, saranno irrilevanti. Lavoreremo tutti al TGI Friday’s a Pechino».

Il fatto è che la pubblicità negativa funziona, ma bisogna fare attenzione. Perché McDonald non ha mai condotto una pubblicità negativa contro Burger King, dicendo, tanto per fare un esempio, che i loro burger sono pieni di vermi? Perché avrebbe potuto funzionare per un po’, ma poi nessuno avrebbe più voluto mangiare un altro hamburger. «Mai distruggere la categoria», dicono in America. Ora invece, proprio nel momento in cui avremmo bisogno che la politica fosse più credibile e più costruttiva, in grado, insomma, di delineare e perseguire il nostro interesse nazionale, abbiamo «distrutto la categoria».

In fondo, mentre la legislatura si avvia a concludersi e da più parti sembra cominciare l’operazione di sganciamento da Monti e dalla «strana» maggioranza, non sarebbe male tenere a mente che il governo Monti, e cioè l’attuale collaborazione tra diversi, si fonda sulla consapevolezza della gravità della crisi. Ed è probabile che entrambe (una crisi non transitoria e una collaborazione necessaria) siano destinate a durare.

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Il Piccolo, 13 agosto 2012 – Tribunale, «non vince chi grida più forte»

Intervista.

«La sensazione è che Gorizia sia figlia di un Dio minore. Perché i politici nostrani non fanno sentire la loro voce sull’aggregazione della giurisdizione di Palmanova al tribunale di Gorizia?» A lanciare il sasso, nei giorni scorsi, era stato il presidente dell’Ordine degli avvocati di Gorizia Silvano Gaggioli. Aveva evidenziato lo stridente contrasto fra l’iperattivismo udinese (contrario all’operazione) e l’assenza totale di interventi pro-accorpamento da parte dei politici goriziani, parlamentari in testa. Un atto d’accusa che non lascia insensibile Alessandro Maran, deputato e vicepresidente del gruppo parlamentare del Partito democratico. Che, oggi, si difende. Evidenziando che con le sollevazioni di piazza non si va da nessuna parte. Maran, come risponde a Gaggioli? Si sente tirato in ballo? Indubbiamente, l’aggregazione della giurisdizione di Palmanova al tribunale di Gorizia è un’enorme opportunità. Proprio per questo, stiamo lavorando sotto traccia per portare a casa il risultato. Vede, le forme di pressione non necessariamente devono essere di lotta. La vicenda del tribunale di Tolmezzo insegna. Si spieghi meglio… Anche il presidente della Regione Renzo Tondo è sceso in piazza, nei giorni scorsi, contro la chiusura del tribunale del capoluogo carnico. E cos’è successo? Non si è salvato dai tagli e il tribunale sarà accorpato a Udine. Il Consiglio dei ministri ha dato ugualmente il via libera definitivo al decreto legislativo di revisione delle circoscrizioni giudiziarie. Insomma, le decisioni non dipendono dal fragore dei tamburi di chi vi si oppone, non dipendono dal numero di manifestanti che riusciremo a far scendere in piazza Vittoria. I parametri sono altri. Quindi, qual è la strategia che sta seguendo per incassare la vittoria? C’è un confronto continuo con il ministero. E state certi: non si faranno impressionare da chi grida più forte. Semmai, è verosimile che le nostre ragioni possano prendere il sopravvento perché sono razionali, perché permettono al sistema-giustizia di funzionare meglio. Questo è il nostro punto di forza. Pertanto, è fiducioso? Crede realmente che la giurisdizione di Palmanova comprendente il Cervignanese, Lignano e San Giorgio di Nogaro possa passare alle “dipendenze” del Tribunale di Gorizia? Ripeto: questa è una soluzione razionale e che potrebbe andare anche a buon fine. I motivi di opposizione da parte udinese sono stati di tutt’altra natura e non vanno nella direzione di un miglioramento del sistema-giustizia. Quando si metterà la parola “fine” su questa vicenda? Quando arriverà la decisione? Non credo che i tempi saranno brevissimi, considerato che siamo in pieno agosto. Ragionevolmente, le decisioni finali arriveranno a settembre. Soltanto allòra, si saprà quale sarà il destino del tribunale di Gorizia. Certo, se il progetto si concretizzasse, per Gorizia sarebbe un ottimo risultato… Indubbiamente. Sarebbe un’opportunità per la città ma anche, e soprattutto, per il servizio-giustizia. Passeremmo dalla possibile chiusura del Tribunale al suo potenziamento: un passo avanti enorme rispetto alle preoccupanti premesse.

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Messaggero Veneto, 11 settembre 2012 – GIUSTIZIA IL TEMPO È DENARO

A dispetto della vivacità delle proteste che si sono sollevate, la revisione della geografia giudiziaria è un intervento necessario. I limiti del sistema giudiziario sono sotto gli occhi di tutti, a cominciare dalla cattiva qualità del servizio che rende. Non per caso, la «country-specific recommendation» votata dall’Ecofin il mese scorso, punta il dito proprio sulle nostre «inefficienze nelle procedure e nell’organizzazione istituzionale» in materia di giustizia civile. Eppure, rispetto agli altri paesi europei non è vero che i magistrati italiani sono troppo pochi (anche se è vero che sono maldistribuiti), come non è vero che si spende troppo poco per la giustizia. Svezia, Germania e Olanda che – secondo i dati della European Commission for the Efficiency of Justice (Cepej) – svolgono i processi civili in meno di metà del tempo necessario in Italia per cause di analogo contenuto, impegnano risorse pubbliche molto vicine a quelle italiane (44 euro per abitante in Svezia, 53 in Germania, 41 in Olanda e 46 in Italia). Ma allora il problema dov’è? Come mai, nonostante questo impegno di risorse, il sistema giudiziario italiano è (molto) più congestionato e lento di quello degli altri Paesi? E com’è che i tribunali non hanno mezzi, al punto che è diventato difficile perfino lo svolgimento delle attività quotidiane? Dai dati (sui quali è tornata molte volte la rivista online Lavoce.info) emerge che è la composizione della spesa a essere differente da quella degli altri Paesi: la componente incomprimibile per l’Italia è molto alta. Il 77 per cento del budget dei tribunali è assorbito dalle retribuzioni dei magistrati e del resto del personale. Per l’Austria questo rapporto è del 55 per cento, per la Francia del 54 per cento, per Germania e Svezia del 60 per cento. Differenze importanti si riscontrano anche nel livello degli stipendi dei magistrati. Mentre all’inizio della carriera la retribuzione dei nostri giudici è del tutto in linea con quella degli altri paesi, non è così per i livelli più alti. Con l’eccezione della Svezia, rappresentiamo il caso in cui la progressione di stipendio con l’avanzare della carriera (dal livello iniziale a quelli del grado più alto) è maggiore: 3,2 volte, contro, ad esempio, il 2,4 dell’Austria, il 2,2 della Germania e l’1,7 dei Pesi Bassi. Inoltre, il fatto che tale progressione avvenga in Italia per anzianità e non per incarichi svolti, fa sì che sia ampia la platea di soggetti che ne fruisce. Ma, soprattutto, risulta che la produttività dei giudici è più bassa di quella potenziale in conseguenza delle dimensioni troppo ridotte dei tribunali che impediscono la specializzazione nell’attività dei magistrati. Le piccole dimensioni dei tribunali italiani e l’eccessivo numero di sedi sono confermati dal confronto internazionale. Nei nostri tribunali operano – in media – 6 magistrati contro, ad esempio, i 19 della Germania, i 14 della Svezia e, addirittura, i 65 dell’Olanda; e in Italia gli abitanti serviti da una corte di prima istanza sono mediamente 55.000, la metà che in Francia, in Germania e nel Regno Unito. Dalle analisi econometriche della Commissione tecnica della spesa pubblica e dell’Isae emerge, insomma, che il 72 per cento dei tribunali è attualmente sottodimensionato, che le performance della giustizia sono in passato migliorate in occasione di riforme che hanno aumentato la dimensione media dei tribunali, che per il sistema italiano sarebbe ideale un minimo di 20 magistrati per tribunale. La produttività dei magistrati, infatti, aumenta al crescere delle dimensioni del tribunale in cui operano, per effetto di economie di specializzazione. Ovviamente, le disfunzioni legate alla dimensione dei tribunali, seppur rilevanti, non spiegano, da sole, il dissesto della giustizia civile italiana, che ha molto a che fare (rinvio agli studi di Daniela Marchesi) con la complicazione del processo e gli incentivi che la normativa produce su litiganti e avvocati ad abusare del ricorso al giudice e delle garanzie interne al processo, con il risultato di accrescere patologicamente la domanda di giustizia e di allungare i processi a dismisura. Non a caso, nel confronto internazionale risultiamo campioni di litigiosità con una domanda di giustizia che è quasi il doppio di quella della Germania, della Francia, dell’Austria, dell’Olanda e della Danimarca. Va da se che la decisione di accorpare i tribunali non risolve tutto. Serve uno sforzo di organizzazione e di leadership: il Tribunale di Torino, con il presidente Mario Barbuto, tanto per fare un esempio celebre, ha ridotto drasticamente i tempi delle cause civili, senza richiedere risorse aggiuntive e senza postulare ulteriori riforme del processo civile. Ma la riorganizzazione generale dei tribunali è un intervento necessario. Il costo per l’economia di una giustizia civile spaventosamente lenta e inefficiente è enormemente sottovalutato dagli addetti ai lavori. Resta il fatto che la durata stimata dei processi ordinari in primo grado supera i 1.000 giorni (collocando l’Italia al 157° posto su 183 paesi nelle graduatorie stilate dalla Banca Mondiale) e che l’incertezza che ne deriva è un fattore potente di attrito nel funzionamento dell’economia, oltre che di ingiustizia. Al punto che le stime della Banca d’Italia indicano in un punto percentuale la perdita annua di prodotto attribuibile ai difetti della nostra giustizia civile. È ora di darsi una mossa, se vogliamo tornare a crescere.

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Il Piccolo, 16 settembre 2012 – «Il Tribunale di Gorizia? Già tanto che ci sia ancora»

Alle polemiche sulla mancata annessione degli uffici giudiziari palmarini il deputato Alessandro Maran replica: «La nostra è una struttura traballante»
decreto legge
L’accorpamento voluto dal piano Severino

Udine o Gorizia? Questa, per diverse settimane, è stata la possibile sorte della sezione staccata del tribunale di Palmanova. L’accorpamento con la sede goriziana pareva una soluzione sicura. Invece, in base al decreto sulla nuova geografia giudiziaria predisposto nell’ambito del “piano Severino”, da Roma è giunto il nulla osta per porre fine alla querelle sul destino giudiziario del territorio della Bassa friulana annettendo Palmanova a Udine. Da qui le polemiche, in primis da parte del presidente dell’Ordine degli avvocati di Gorizia Gaggioli, che ha accusato i politici locali di essere stati «inesistenti».
di Riccardo Tosques «Il Tribunale di Udine funziona bene, quello di Gorizia è più traballante quindi direi proprio che invece che pensare a Palmanova la città dev’essere felice di aver scampato il grosso pericolo di veder ridimensionato completamente il proprio palazzo di giustizia». Alessandro Maran, unico parlamentare goriziano che siede attualmente a Roma, spiazza un po’ tutti. Sulla vicenda degli uffici giudiziari palmarini trasferiti a Udine, il deputato gradese del Partito democratico ridimensiona completamente lo scippo friulano. Ed anzi. In un batter d’occhio, tutte le critiche e le polemiche che sono sorte in queste ultime settimane paiono essere prive di fondamento. «Non ci saranno altre leggi di ridimensionamento, Gorizia ha superato il test, è questa la vera notizia, ma pare che nessuno voglia prenderne atto – analizza Maran -. E non riesco proprio a capire tutto questo accanimento su Palmanova quando è chiaro che il comuni che formano il territorio palmarino e l’Ordine degli avvocati di Udine non avevano alcuna intenzione di venire a Gorizia». Il parlamentare svela poi che i possibili appoggi politici, poi disattesi, denunciati dal presidente dell’Ordine degli avvocati Silvano Gaggioli riguardavano proprio Maran. Che si sente tutto fuorché un «politico inesistente». Tanto da rilanciare la patata bollente: «Ho parlato informalmente al telefono con Gaggioli, ma in realtà non avevo bisogno di essere edotto sulla questione di Palmanova. Sapevo perfettamente cosa fare, ma il punto è un altro: il Comune di Gorizia ha cercato di persuadere il Comune di Udine? Oppure l’Ordine degli avvocati di Gorizia ha cercato di convincere l’ordine di Udine? La risposta è no, non si sono mai incontrati per affrontare la questione, quindi…». Quindi? «Quindi è inutile lamentarsi o scaricare le colpe. Certo, rimane il fatto che i politici friulani hanno pensato esclusivamente alla difesa di Tolmezzo, è questo la dice lunga sull’idea che loro hanno di regione». In queste ore più di qualcuno ha evidenziato che Gorizia, con un’unica presenza in Parlamento, non può che essere penalizzata. «È vero, io sono solo a Roma, ma la cosa penalizza non solo i goriziani, ma tutti i residenti del Friuli Venezia Giulia. Perché i rappresentanti della nostra regione devono essere un corpo unico, mentre qui ognuno va per la propria strada». Eppure la questione di Palmanova brucia, e parecchio… «Ripeto, a Palmanova nessuno voleva venire qui. Il sindaco palmarino Francesco Martines si è pure arrabbiato con me quando ho tirato fuori il discorso di annettere gli uffici giudiziari al Tribunale di Gorizia. Di fronte a tale situazione l’orientamento assunto dal Ministero è stato chiaro: con l’annessione a Udine non ci sarebbero stati contrasti territoriali, cosa che si stavano verificando a differenza dell’ipotesi di accorpamento con Gorizia». Niente scippo dunque? «No. Nel contesto generale di questa revisione geografica della Giustizia posso affermare che Gorizia si è salvata, scampando il pericolo, uscendone fuori senza conseguenze. E poi è un dato di fatto che al Tribunale di Udine le cose funzionano bene. A Gorizia invece…».
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qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 76 del 18 settembre 2012 – Ma il Pd non era nato per questo?

Si può pensare quello che si vuole di Matteo Renzi, ma non c’è dubbio che nel suo discorso (e nel suo programma) il sindaco di Firenze abbia ripreso quasi tutte le idee-chiave della sinistra liberale; e non c’è dubbio che è con queste idee che prova a sfidare la maggioranza del Pd. Senza contare che la vera rupture rispetto agli ultimi anni di vita del Pd è il suo appello agli elettori delusi da Berlusconi. «Più forte – ha scritto giustamente Stefano Menichini su Europa – della stessa idea della rottamazione. È la promessa di un’inversione di rotta rispetto all’atteggiamento rinunciatario di coltivare e contendersi solo i consensi della propria area tradizionale. Con milioni di italiani politicamente allo sbando, parcheggiati nell’incertezza o consegnati al populismo di Grillo, quest’opera di ascolto, dialogo e convincimento non sarebbe solo una manovra di sfondamento elettorale nel campo avverso: sarebbe una missione schiettamente democratica, civile. Un dovere. Il compito che il Pd s’era assegnato al momento di nascere cinque anni fa, guarda caso nei gazebo delle primarie».

In vista delle primarie, è perciò il caso di ripeterlo ancora una volta. Il Pd è nato per dare al centrosinistra quel grande partito riformista (che dovunque in Europa fornisce alla coalizione la sostanza della cultura politico programmatica, la leadership, due terzi del consenso elettorale necessario, la capacità espansiva verso lo schieramento avversario) la cui assenza è stata alla base di due ripetuti collassi politici: nel 1998 e nel 2008.

Insomma, volevamo fare «come in Europa», volevamo cioè dar vita ad un soggetto politico capace finalmente di svolgere in Italia quella stessa funzione politica che, nei grandi paesi europei, svolgono i grandi partiti socialisti e laburisti. Le cose sono andate come sono andate: Veltroni ha gettato la spugna e Bersani ha vinto il Congresso. Anche l’Europa non è più quella di una volta: l’Unione europea non suscita più speranza e tende ad essere percepita come un costo, un vincolo, una fonte di incertezza. E oggi Casini non è l’unico a volere il ritorno al proporzionale e ai governi fatti e disfatti in Parlamento (e, dunque, un ritorno al passato, l’abbandono del bipolarismo e dell’alternanza). Lo vogliono in parecchi anche nel Pd.

Il fatto è che D’Alema e gli altri sostenitori di un ritorno al proporzionale, escludono che, in futuro, le preferenze degli elettori possano cambiare. «L’Italia è un Paese sostanzialmente di destra», dicono, e l’unica strategia perseguibile è quella della creazione di un centro indipendente con il quale il Pd possa allearsi. In altre parole tutto il confuso discutere di alleanze ha origine nella «sfiducia», di una parte del Pd, nelle possibilità di crescita autonoma del partito.

Ma dove sta scritto che un partito del 30 (o del 20) per cento sia condannato a rimanere per sempre tale? Non c’è dubbio che, nei paesi avanzati, si vince con il consenso degli elettori di «centro». Ma li si conquista adeguando l’offerta politica. Ogni volta. Sia in Germania che in Gran Bretagna, il centro dell’elettorato è stato conquistato da partiti capaci di presentare proposte innovative dai lineamenti culturali espansivi. Lo hanno fatto sia socialdemocratici e laburisti con il Neue Mitte e il New Labour negli anni ’90, sia il centrodestra, recentemente, con Angela Merkel e David Cameron. Del resto, in un sistema bipolare, non è al centro politico che bisogna guardare, ma al «centro sociale». Cioè alle forze dinamiche e potenzialmente «centrali» della società. Il «centro» non è un luogo geometrico da sempre e per sempre immobile, da occupare con una forza centrista e moderata che aspira al ruolo di ago della bilancia (da qui l’idea di tornare ad un sistema proporzionale).

Insomma, continuo a ritenere che sia un bene che i cittadini affermino pienamente la propria sovranità superando quella democrazia che affidava ai rappresentanti di fare e disfare i governi in Parlamento. Non è trascorso molto tempo, eppure si tende a dimenticare la situazione di regime che ha caratterizzato la Prima Repubblica e che aveva ben pochi casi analoghi tra i paesi democratici, al punto che lo Stato e i partiti di regime erano diventati una cosa sola, favorendo una confusione pericolosissima, una concezione patrimoniale, privatistica della cosa pubblica. Prima dell’apparire del Caimano. E continuo a ritenere che il Pd debba scommettere sul fatto che possa avvenire, in futuro, un mutamento nelle propensioni degli elettori. Ma per conquistare nuovi elettori bisogna cambiare. La piattaforma del Lingotto aveva rappresentato l’avvio di questo sforzo di cambiamento. E oggi servirebbe più coerenza tra parole e fatti, l’aperto e dichiarato superamento di vecchi atteggiamenti e vecchie posizioni, e non il ritorno alle vecchie certezze. Gli elettori possono cambiare idea, ma perché succeda, anche il Pd deve cambiare parecchie delle proprie idee, a cominciare da quelle più stantie.

Potrà non piacere, ma non c’è dubbio che con Renzi ora la posta in gioco è quella di spostare (tutto) il Pd su posizioni di sinistra liberale. Potrà non piacere ma, come ha osservato Giuliano Ferrara, Renzi «è nella sua eruttività la dimostrazione geologica del fatto che questi vent’anni dalla fine del muro di Berlino non sono passati inutilmente».

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Corriere della Sera, 18 settembre 2012 – «Bersani apra a doppio turno e semipresidenzialismo»

Lettera aperta al Segretario del Pd Pierluigi Bersani da parte del gruppo di promotori dell’Agenda Monti all’interno del partito. Obiettivo: chiedere una riforma del governo in senso semipresidenziale, con doppio turno per l’elezione del Parlamento e un nuovo Senato con funzione di Camera delle Autonomie.

Caro Segretario, la ormai evidente paralisi del negoziato in corso da molti mesi sulla auspicata riforma della legge elettorale ripropone lo scenario inaccettabile di un Parlamento inconcludente e incapace di produrre una qualsiasi concreta iniziativa riformatrice. Se per un verso in questi mesi ha sorretto il Governo e, pur fra incertezze e difficoltà, ha prodotto riforme e prospettato soluzioni che hanno aiutato l’Italia a non perdere il suo ruolo di grande Paese fondatore dell’Unione Europea, per l’altro il Parlamento, pur svolgendo l’essenziale e decisivo compito di sostegno all’azione dell’esecutivo, non ha colto finora nessuno degli obiettivi di riforma istituzionale ed elettorale che si era autonomamente assegnato all’atto di nascita del governo Monti. Ora, a pochissimo dalla conclusione della legislatura, siamo giunti a un bivio: è meglio rassegnarsi all’impotenza riformatrice dell’attuale Parlamento e affidare l’elezione del nuovo Parlamento alla vecchia legge elettorale, o promuovere un ulteriore tentativo per produrre il cambiamento che tutti a parole considerano necessario? Si può propendere per la seconda soluzione a condizione che si tenga realisticamente conto delle posizioni in campo e di quanto si è prodotto finora nel voto di prima lettura, al Senato, sulla riforma istituzionale. È all’esame della Camera la riforma della Costituzione, approvata dal Senato, che introduce l’elezione diretta del Presidente della Repubblica e prevede, con soluzioni incerte e contraddittorie, un nuovo senato “federale”. Come è noto al Senato si è prodotta una profonda divisione nel voto degli emendamenti e del testo finale, tanto da far ritenere molto difficile una definitiva approvazione della riforma, considerati i diversi rapporti di forza fra i gruppi alla Camera e le differenti posizioni espresse. È dunque pressoché certo il definitivo blocco del processo riformatore: nessun riduzione del numero dei parlamentari (contenuta nel testo approvato dal Senato); nessuna riforma del bicameralismo perfetto; nessuna nuova legge elettorale, che consenta ai cittadini di scegliere al contempo rappresentanti e governo.Giunti a questo punto, non sarebbe forse necessario un profondo mutamento delle posizioni assunte fino ad oggi? Nella lettura del testo Senato alla Camera, si potrebbero introdurre le modifiche sufficienti a renderlo coerente e razionale: una seria riforma della forma di governo in senso semipresidenziale, che preveda il doppio turno per l’elezione del Parlamento, accanto ad un nuovo Senato, che superi l’attuale bicameralismo perfetto e svolga prevalentemente la funzione di Camera delle Autonomie.
 La legislatura formalmente ha davanti ancora tempo sufficiente per svolgere questo compito. Servirebbe ciò che finora è mancato: uno sforzo convinto delle forze politiche, a partire da quelle che sostengono il governo Monti. Riprendiamo il dibattito alla Camera sul testo di riforma istituzionale e portiamo da subito al Senato la riforma elettorale a doppio turno. Noi chiediamo al nostro partito, al PD, di farsi protagonista di un’iniziativa in questo senso.

I promotori della iniziativa  del 20 luglio«Il Pd e l’Agenda Monti»

Marilena Adamo, Antonello Cabras, Stefano Ceccanti, Marco Follini, Paolo Gentiloni, Paolo Giaretta, Pietro Ichino, Claudia Mancina, Alessandro Maran, Enrico Morando, Magda Negri, Vinicio Peluffo, Umberto Ranieri, Giorgio Tonini, Salvatore Vassallo.

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Il Gazzettino, 19 settembre 2012 – «La vera svolta non è la rottamazione ma parlare con chi vota a centrodestra»

Si può pensare quello che si vuole di Renzi, ma bisogna discuterne le idee e le proposte politiche.Nel suo discorso (e nel suo programma) il sindaco di Firenze ha ripreso quasi tutte le idee-chiave della sinistra liberale. Ed è con queste idee che prova a sfidare la maggioranza del suo partito. L’insistenza sul merito e sulle opportunità, esplicitati come concetti «di sinistra», sono infatti il cuore politico della proposta del sindaco che ha parlato della crisi come di un’occasione per rimetterci in gioco e ricreare le fondamenta dello Stato: una sfida alla vulgata corrente nel Pd, per la quale la risposta progressista alla crisi economica e alle sofferenze sociali deve invece puntare sulla rassicurazione e sulla protezione. Ma la vera rupture rispetto agli ultimi anni di vita del Pd è il suo appello agli elettori delusi da Berlusconi. «Più forte – ha scritto giustamente Stefano Menichini su Europa- della stessa idea della rottamazione. È la promessa di un’inversione di rotta rispetto all’atteggiamento rinunciatario di coltivare e contendersi solo i consensi della propria area tradizionale. Con milioni di italiani politicamente allo sbando, parcheggiati nell’incertezza o consegnati al populismo di Grillo, quest’opera di ascolto, dialogo e convincimento non sarebbe solo una manovra di sfondamento elettorale nel campo avverso: sarebbe una missione schiettamente democratica, civile. Un dovere. Il compito che il Pd s’era assegnato al momento di nascere cinque anni fa, guarda caso nei gazebo delle primarie». In vista delle primarie, è perciò il caso di ripeterlo ancora una volta. Il Pd è nato per dare al centrosinistra quel grande partito riformista (che dovunque in Europa fornisce alla coalizione la sostanza della cultura politico programmatica, la leadership, due terzi del consenso elettorale necessario, la capacità espansiva verso lo schieramento avversario) la cui assenza è stata alla base di due ripetuti collassi politici: nel 1998 e nel 2008. Insomma, volevamo fare «come in Europa», volevamo cioè dar vita ad un soggetto politico capace finalmente di svolgere in Italia quella stessa funzione politica che, nei grandi paesi europei, svolgono i grandi partiti socialisti e laburisti. Le cose sono andate come sono andate: Veltroni ha gettato la spugna e Bersani ha vinto il Congresso. Anche l’Europa non è più quella di una volta: l’Unione europea non suscita più speranza e tende ad essere percepita come un costo, un vincolo, una fonte di incertezza. E oggi Casini non è l’unico a volere il ritorno al proporzionale e ai governi fatti e disfatti in Parlamento (e, dunque, un ritorno al passato, l’abbandono del bipolarismo e dell’alternanza). Lo vogliono in parecchi anche nel Pd. Il fatto è che D’Alema e gli altri sostenitori di un ritorno al proporzionale, escludono che, in futuro, le preferenze degli elettori possano cambiare. «L’Italia è un Paese sostanzialmente di destra», dicono, e l’unica strategia perseguibile è quella della creazione di un centro indipendente con il quale il Pd possa allearsi. In altre parole tutto il confuso discutere di alleanze ha origine nella «sfiducia», di una parte del Pd, nelle possibilità di crescita autonoma del partito.Ma dove sta scritto che un partito del 30 (o del 20) per cento sia condannato a rimanere per sempre tale? Non c’è dubbio che, nei paesi avanzati, si vince con il consenso degli elettori di «centro». Ma li si conquista adeguando l’offerta politica. Ogni volta. Come disse una volta Keynes, «la difficoltà non sta tanto nelle idee nuove, ma nell’evadere dalle vecchie, le quali ramificano in tutti gli angoli della mente». Potrà non piacere, ma la candidatura di Renzi alla premiership del centrosinistra dimostra che questi vent’anni dalla fine del muro di Berlino non sono passati invano.

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qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 79 del 9 ottobre 2012 – Obama: la vittoria non è un pranzo di gala

«Lo sfidante è giunto al confronto ben preparato e ha messo in mostra un’impressionante padronanza degli argomenti. E’ stato acuto, determinato e diretto. Ha corretto il Presidente ripetutamente, evidenziando, educatamente ma in modo deciso, che le sue proposte erano state rappresentate scorrettamente. Ha sviluppato un’appassionata dichiarazione conclusiva, al termine della quale gli opinionisti sono stati d’accordo nel ritenere che ha infuso nuova vita nella sua campagna. Il Presidente invece sembrava svogliato e distratto. Mancava di energia e scrutava insistentemente le note che aveva sottomano. Nel complesso, ha dato l’impressione che avrebbe preferito piuttosto stare dal dentista. Perfino alcuni membri del suo stesso partito hanno dovuto ammettere che ha perso il dibattito. L’anno era il 1984. Il presidente era Ronald Regan e lo sfidante era Walter Mondale. Prima di attribuire troppi significati al dibattito della notte scorsa a Denver, che i mezzibusti e i twitterers quasi unanimemente hanno proclamato una grande vittoria ai punti per Mitt Romney (qualcuno ha decretato un KO tecnico), vale la pena di richiamare un po’ di storia». Così ha scritto John Cassidy sul New Yorker.

Quello che si è appena concluso non è che il primo di tre dibattiti e i fondamentali favoriscono ancora abbondantemente Obama. L’altra sera non ha perso le elezioni; sicuramente le ha rese più interessanti, il che ovviamente non era nelle sue intenzioni.

Ora rimane da chiedersi: quanto sarà grande la spinta che Romney riceverà nei sondaggi? E, soprattutto, Obama è in grado di riprendersi? Il Presidente ha inanellato due spente performance pubbliche una dopo l’altra – la prima è stata il suo discorso alla convention. Per i supporter democratici è presto per farsi prendere dal panico. Oltretutto, non mancano le buone notizie: il tasso di disoccupazione è sceso dall’8.1% al 7.8%. Ma il Presidente e la sua campagna hanno bisogno di accelerare. L’idea che Obama, a patto che non si facciano grossi errori, possa percorrere in discesa senza pedalare il tratto di strada che lo separa dalla vittoria (un assunto che sembra aver guidato la sua campagna elettorale almeno dall’inizio di agosto), è stato messo in discussione in modo spettacolare. Nei prossimi due dibattiti, vedremo sicuramente un Obama molto più aggressivo e concentrato. Ma quel che è successo a Denver ha dato al suo sfidante un grande incoraggiamento restituendogli fiducia e credibilità. E i Democratici non possono più credibilmente limitarsi a dipingere Romney semplicemente come un estremista tout court.

Resta tuttavia un fatto: nei prossimi giorni il gradimento di Obama può registrare una flessione nei sondaggi, ma quegli stessi sondaggi continuano a segnalare anche un enorme divario nelle propensioni degli elettori nei confronti dei due candidati in relazione alle questioni di fondo: su chi tutelerà meglio Medicare, chi gestirà più equamente la politica fiscale e chi sosterrà la classe media. Il dibattito dell’altra sera ha oscurato queste differenze più di quanto avrebbe dovuto; ma è verosimile che le differenze tornino a farsi sentire.

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