GIORNALI2012

qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 76 del 18 settembre 2012 – Ma il Pd non era nato per questo?

Si può pensare quello che si vuole di Matteo Renzi, ma non c’è dubbio che nel suo discorso (e nel suo programma) il sindaco di Firenze abbia ripreso quasi tutte le idee-chiave della sinistra liberale; e non c’è dubbio che è con queste idee che prova a sfidare la maggioranza del Pd. Senza contare che la vera rupture rispetto agli ultimi anni di vita del Pd è il suo appello agli elettori delusi da Berlusconi. «Più forte – ha scritto giustamente Stefano Menichini su Europa – della stessa idea della rottamazione. È la promessa di un’inversione di rotta rispetto all’atteggiamento rinunciatario di coltivare e contendersi solo i consensi della propria area tradizionale. Con milioni di italiani politicamente allo sbando, parcheggiati nell’incertezza o consegnati al populismo di Grillo, quest’opera di ascolto, dialogo e convincimento non sarebbe solo una manovra di sfondamento elettorale nel campo avverso: sarebbe una missione schiettamente democratica, civile. Un dovere. Il compito che il Pd s’era assegnato al momento di nascere cinque anni fa, guarda caso nei gazebo delle primarie».

In vista delle primarie, è perciò il caso di ripeterlo ancora una volta. Il Pd è nato per dare al centrosinistra quel grande partito riformista (che dovunque in Europa fornisce alla coalizione la sostanza della cultura politico programmatica, la leadership, due terzi del consenso elettorale necessario, la capacità espansiva verso lo schieramento avversario) la cui assenza è stata alla base di due ripetuti collassi politici: nel 1998 e nel 2008.

Insomma, volevamo fare «come in Europa», volevamo cioè dar vita ad un soggetto politico capace finalmente di svolgere in Italia quella stessa funzione politica che, nei grandi paesi europei, svolgono i grandi partiti socialisti e laburisti. Le cose sono andate come sono andate: Veltroni ha gettato la spugna e Bersani ha vinto il Congresso. Anche l’Europa non è più quella di una volta: l’Unione europea non suscita più speranza e tende ad essere percepita come un costo, un vincolo, una fonte di incertezza. E oggi Casini non è l’unico a volere il ritorno al proporzionale e ai governi fatti e disfatti in Parlamento (e, dunque, un ritorno al passato, l’abbandono del bipolarismo e dell’alternanza). Lo vogliono in parecchi anche nel Pd.

Il fatto è che D’Alema e gli altri sostenitori di un ritorno al proporzionale, escludono che, in futuro, le preferenze degli elettori possano cambiare. «L’Italia è un Paese sostanzialmente di destra», dicono, e l’unica strategia perseguibile è quella della creazione di un centro indipendente con il quale il Pd possa allearsi. In altre parole tutto il confuso discutere di alleanze ha origine nella «sfiducia», di una parte del Pd, nelle possibilità di crescita autonoma del partito.

Ma dove sta scritto che un partito del 30 (o del 20) per cento sia condannato a rimanere per sempre tale? Non c’è dubbio che, nei paesi avanzati, si vince con il consenso degli elettori di «centro». Ma li si conquista adeguando l’offerta politica. Ogni volta. Sia in Germania che in Gran Bretagna, il centro dell’elettorato è stato conquistato da partiti capaci di presentare proposte innovative dai lineamenti culturali espansivi. Lo hanno fatto sia socialdemocratici e laburisti con il Neue Mitte e il New Labour negli anni ’90, sia il centrodestra, recentemente, con Angela Merkel e David Cameron. Del resto, in un sistema bipolare, non è al centro politico che bisogna guardare, ma al «centro sociale». Cioè alle forze dinamiche e potenzialmente «centrali» della società. Il «centro» non è un luogo geometrico da sempre e per sempre immobile, da occupare con una forza centrista e moderata che aspira al ruolo di ago della bilancia (da qui l’idea di tornare ad un sistema proporzionale).

Insomma, continuo a ritenere che sia un bene che i cittadini affermino pienamente la propria sovranità superando quella democrazia che affidava ai rappresentanti di fare e disfare i governi in Parlamento. Non è trascorso molto tempo, eppure si tende a dimenticare la situazione di regime che ha caratterizzato la Prima Repubblica e che aveva ben pochi casi analoghi tra i paesi democratici, al punto che lo Stato e i partiti di regime erano diventati una cosa sola, favorendo una confusione pericolosissima, una concezione patrimoniale, privatistica della cosa pubblica. Prima dell’apparire del Caimano. E continuo a ritenere che il Pd debba scommettere sul fatto che possa avvenire, in futuro, un mutamento nelle propensioni degli elettori. Ma per conquistare nuovi elettori bisogna cambiare. La piattaforma del Lingotto aveva rappresentato l’avvio di questo sforzo di cambiamento. E oggi servirebbe più coerenza tra parole e fatti, l’aperto e dichiarato superamento di vecchi atteggiamenti e vecchie posizioni, e non il ritorno alle vecchie certezze. Gli elettori possono cambiare idea, ma perché succeda, anche il Pd deve cambiare parecchie delle proprie idee, a cominciare da quelle più stantie.

Potrà non piacere, ma non c’è dubbio che con Renzi ora la posta in gioco è quella di spostare (tutto) il Pd su posizioni di sinistra liberale. Potrà non piacere ma, come ha osservato Giuliano Ferrara, Renzi «è nella sua eruttività la dimostrazione geologica del fatto che questi vent’anni dalla fine del muro di Berlino non sono passati inutilmente».

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