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Il Gazzettino, 10 febbraio – PD, L’ORA DELLE RIABILITAZIONI

 

PD, L’ORA DELLE RIABILITAZIONI

L’apertura (dalla Germania) di Bersani a Monti è un messaggio rivolto anzitutto ai mercati e agli osservatori internazionali: niente panico, Berlusconi non vincerà, non ci sarà nessuna rimonta; e state tranquilli, il centrosinistra non ha intenzione di rinchiudersi nel suo recinto ma vuole aprirsi alla collaborazione con le forze più responsabili.

Ho fatto parte, con Pietro Ichino, di quel gruppetto di parlamentari «montiani» del Pd che nei mesi scorsi ha ininterrottamente sottolineato l’esigenza di porre l’agenda Monti – cioè le riforme necessarie per allineare l’Italia ai migliori standard europei  – al centro della prossima legislatura. E in queste settimane ho ripetuto fino alla noia che solo dalla collaborazione tra Bersani e il polo riformatore di Monti è possibile immaginare che il governo del Paese resti orientato in direzione della riforma «europea» dell’Italia  contrastando il populismo e neutralizzando le spinte conservatrici.

Berlusconi è come il Cappellaio Matto di Alice nel Paese delle Meraviglie e ci tiene inchiodati alla sua perenne ora del tè. Ma è una illusione quella di bandire, con lui, anche le aspirazioni di molti elettori – sul fisco, sulla giustizia, sulle libertà economiche – che Berlusconi ha lasciato insoddisfatte. Non per caso, Monti a Pordenone ha detto chiaramente: «Sarò disponibile ad alleanze con tutti e solo coloro che saranno seriamente impegnati sul piano delle riforme strutturali». Non è un mistero per nessuno che, tanto per fare un esempio, quello che la Cgil propone per rimettere in moto l’Italia è lontanissimo da quello che propone Monti. La Cgil vede nella spesa pubblica non il nostro problema principale, ma la soluzione di tutti (o quasi) i nostri problemi; mentre Monti indica come leve prioritarie su cui agire la riduzione del carico fiscale su lavoro e impresa e l’apertura del Paese agli investimenti stranieri. Ma uno dei lasciti più importanti del governo Monti ha a che fare proprio con uno stile di governo che ha cercato di usare un linguaggio di verità, mettendo gli italiani di fronte a uno specchio, senza nascondere loro i problemi. Due decenni di scelte mancate nascono dal fatto che molti politici si sono comportati come amici superficiali, incapaci di parlare con onestà agli italiani. E in questi giorni, al capezzale di un paese in crisi, tornano ad affacciarsi tanti falsi amici pronti a vendere promesse irrealizzabili e ad additare capri espiatori. Ma, dopo che si è conosciuto un amico che ti parla con sincerità e ti invita a scuoterti, è difficile farne a meno. E, come Alice, «a volte riesco a credere anche a sei cose impossibili prima di colazione». Non dimentico, infatti, che è grazie ai sacrifici e alle decisioni «impossibili» prese quest’anno, con Monti, che possiamo ora puntare alla crescita, al lavoro. Soprattutto per chi è rimasto indietro.

Ho solo un dubbio: ora che Bersani ha assicurato che il percorso del centrosinistra è destinato ad incontrarsi con quello del «centro» di Monti, che faranno? Come le vittime delle repressioni, dopo le scomuniche e i giudizi sprezzanti, mi «riabilitano»?

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Messaggero Veneto, 11 febbraio 2013 – «Niente panico Berlusconi non vincerà»

 

Per Maran il percorso del centrosinistra è destinato a incontrarsi con quello del Professore

L’apertura (dalla Germania) di Bersani a Monti è un messaggio rivolto anzitutto ai mercati e agli osservatori internazionali: niente panico, Berlusconi non vincerà, non ci sarà nessuna rimonta; e state tranquilli, il centrosinistra non ha intenzione di rinchiudersi nel suo recinto ma vuole aprirsi alla collaborazione con le forze più responsabili. Ho fatto parte, con Pietro Ichino, di quel gruppetto di parlamentari «montiani» del Pd che nei mesi scorsi ha ininterrottamente sottolineato l’esigenza di porre l’agenda Monti – cioè le riforme necessarie per allineare l’Italia ai migliori standard europei – al centro della prossima legislatura. E in queste settimane ho ripetuto fino alla noia che solo dalla collaborazione tra Bersani e il polo riformatore di Monti è possibile immaginare che il governo del Paese resti orientato in direzione della riforma «europea» dell’Italia, contrastando il populismo e neutralizzando le spinte conservatrici. Berlusconi è come il cappellaio matto di Alice nel Paese delle meraviglie e ci tiene inchiodati alla sua perenne ora del tè. Ma è un’illusione quella di bandire, con lui, anche le aspirazioni di molti elettori – sul fisco, sulla giustizia, sulle libertà economiche – che Berlusconi ha lasciato insoddisfatte. Non per caso, Monti a Pordenone ha detto chiaramente: «Sarò disponibile ad alleanze con tutti e solo coloro che saranno seriamente impegnati sul piano delle riforme strutturali». Non è un mistero per nessuno che, tanto per fare un esempio, quello che la Cgil propone per rimettere in moto l’Italia è lontanissimo da quello che propone Monti. La Cgil vede nella spesa pubblica non il nostro problema principale, ma la soluzione di tutti (o quasi) i nostri problemi; mentre Monti indica come leve prioritarie su cui agire la riduzione del carico fiscale su lavoro e impresa e l’apertura del Paese agli investimenti stranieri. Ma uno dei lasciti più importanti del governo Monti ha a che fare proprio con uno stile di governo che ha cercato di usare un linguaggio di verità, mettendo gli italiani di fronte a uno specchio, senza nascondere loro i problemi. Due decenni di scelte mancate nascono dal fatto che molti politici si sono comportati come amici superficiali, incapaci di parlare con onestà agli italiani. E in questi giorni, al capezzale di un Paese in crisi, tornano ad affacciarsi tanti falsi amici pronti a vendere promesse irrealizzabili e ad additare capri espiatori. Ma, dopo che si è conosciuto un amico che ti parla con sincerità e ti invita a scuoterti, è difficile farne a meno. E, come Alice, «a volte riesco a credere anche a sei cose impossibili prima di colazione». Non dimentico, infatti, che è grazie ai sacrifici e alle decisioni «impossibili» prese quest’anno, con Monti, che possiamo ora puntare alla crescita, al lavoro. Soprattutto per chi è rimasto indietro. Ho solo un dubbio: ora che Bersani ha assicurato che il percorso del centrosinistra è destinato ad incontrarsi con quello del «centro» di Monti, che faranno? Come le vittime delle repressioni, dopo le scomuniche e i giudizi sprezzanti, mi «riabilitano?».

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Messaggero Veneto, 19 febbraio 2013 – Maran alla Cgil: «No a posizioni degli anni Cinquanta»

 

Il deputato replica al sindacato e spiega le priorità dell’Italia per rilanciare il comparto del lavoro

di ALESSANDRO MARAN

Che oggi lo spartiacque fondamentale della politica italiana non sia quello tra la sinistra di Bersani-Vendola e la destra di Berlusconi-Maroni, lo testimonia l’intervento del segretario della Cgil, Franco Belci. Il vero discrimine è tra chi è convinto che la strategia migliore per uscire dalla crisi sia quella concordata con i nostri partner europei e chi invece (come Vendola, Berlusconi, Maroni e parecchi dirigenti del Pd) è convinto che proprio questa strategia sia la rovina del Paese. In altre parole, tra chi vuole cogliere l’occasione offerta dalla crisi per innescare un processo di rapido allineamento dell’Italia ai migliori standard europei e chi pensa che questo progetto sia irrealizzabile, perché «in Italia queste cose non si possono fare». La riforma del mercato del lavoro approvata dal governo Monti è ovviamente migliorabile (come propone Pietro Ichino: superamento del dualismo fra protetti e non protetti, un sistema di welfare che dia sicurezza a tutti, indipendentemente dal tipo di lavoro, ecc.), ma onestà intellettuale sconsiglierebbe di far partire dal luglio scorso la contabilità dei posti di lavoro persi in Italia, come se tutti i problemi fossero nati con l’entrata in vigore della riforma Fornero. Ben prima che arrivasse Monti, dal 2000 al 2010, il pil pro capite nel nostro paese ha perso in media 0,4 punti percentuali ogni anno, ed è da qui che discende la nostra incapacità di creare posti di lavoro. Altro che Fornero. La Cgil sostiene che la priorità per l’Italia sia un piano straordinario di 175 mila nuove assunzioni nel 2013 che costerebbe allo Stato (e quindi ai cittadini) la bellezza di 10 miliardi e propone altre misure che porterebbero l’aumento di spesa pubblica a 35 miliardi. La logica del piano della Cgil è: tagliamo la spesa pubblica per finanziare nuova spesa pubblica. In sostanza, per la Cgil, la cassetta degli attrezzi rimane la stessa dell’immediato dopoguerra. Ecco, stimo Belci e resto legato alla Cgil, ma queste idee non mi persuadono. Non mi convince l’idea che oggi si possa discutere di lavoro, equità e giustizia sociale come negli anni cinquanta. Ora, quello che la Cgil propone per rimettere in moto l’Italia è lontanissimo da quello che propone Monti. La Cgil vede nella spesa pubblica non il nostro problema principale, ma la soluzione di tutti (o quasi) i nostri problemi; mentre Monti indica come leve prioritarie su cui agire la riduzione del carico fiscale su lavoro e impresa e l’apertura del Paese agli investimenti stranieri. Se, in questi anni, avessimo avuto la stessa capacità di attrazione dell’Olanda che occupa una posizione mediana nella classifica europea, avremmo registrato un maggiore flusso annuo di investimenti in entrata pari al 3,6 % del nostro Pil. Per capirci: circa 29 volte l’investimento che Marchionne ci ha proposto nel 2010 con il piano “Fabbrica Italia”. Ovviamente, la strategia europea disegnata da Monti per uscire dalla crisi cerca di far sì che l’Italia partecipi da protagonista alla costruzione di una UE capace di fare una politica economica seria a dimensione continentale. In qualche misura questo sta già accadendo (manovra di Draghi e costituzione del Fondo Salva-Stati). Ma i tedeschi (il socialdemocratico Steinbrück esattamente come la cristiano-democratica Merkel) non sono disposti a emettere eurobond per lo sviluppo, se questo serve agli italiani per eludere la necessità di tagliare gli sprechi, rendere efficienti le loro amministrazioni e far funzionare meglio il loro mercato del lavoro. E il piano della Cgil tende in qualche misura a usare la spesa pubblica proprio per evitare di fare i conti con la necessità delle riforme delle amministrazioni pubbliche e del mercato del lavoro. Due capitoli sui quali stiamo avanzando con il freno a mano tirato mentre avremmo bisogno di accelerare il più possibile. Insieme alla Cgil, come spero. Di Marx possiamo invece fare tranquillamente a meno. È dagli anni cinquanta che i socialdemocratici tedeschi lo hanno messo in soffitta.

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Il Gazzettino, 20 febbraio 2013 – IL GAZZETTINO: LAVORO ALLE DONNE PER CRESCERE MEGLIO

 

Da anni l’Italia cresce pochissimo. Cresce poco dal punto di vista economico e cresce ancor meno dal punto di vista demografico. I due fenomeni sono collegati: una società «vecchia» fatica a tenere il passo con società più giovani e dinamiche. Per rilanciare la crescita si devono fare molte cose: un fisco più leggero per imprese e lavoratori, liberalizzazioni, mercati più efficienti, più incentivi per ricerca e innovazione.

Ma c’è una cosa più importante su cui puntare: il lavoro delle donne. Per far ripartire il Paese, si deve «fare largo alle donne», dare più spazio alle loro aspirazioni, ai loro talenti, ai loro bisogni.

Nell’ultimo decennio l’incremento dell’occupazione femminile nei Paesi sviluppati ha contribuito alla crescita del Pil globale (quello di tutto il pianeta) più dell’intera economia cinese. Da noi solo il 46,3% delle donne ha un’occupazione: uno dei valori più bassi d’Europa. E nelle regioni del Sud (sommerso incluso) solo il 31%. Se aumentassimo la percentuale di donne che lavorano al livello degli uomini (circa il 70%), il reddito italiano crescerebbe di quasi il 20%. Aumenterebbe ovviamente il reddito delle famiglie; e se anche la donna guadagna, le famiglie hanno non soltanto maggiore capacità di consumo, di risparmio e di investimento, ma diminuisce anche il rischio di povertà e vulnerabilità e aumenta la disponibilità ad accettare flessibilità e cambiamenti, favorendo il dinamismo dell’economia e della società.

Inoltre l’occupazione femminile crea altro lavoro. Per ogni 100 donne che entrano nel mercato del lavoro si possono creare fino a 15 posti aggiuntivi nel settore dei servizi: assistenza all’infanzia, agli anziani, ricreazione, ristorazione, ecc. Infine, più donne occupate significa più nascite e meno bambini poveri. In tutto l’Occidente sono le donne che hanno un impiego (e che sono aiutate a conciliare impegno professionale evita domestica) quelle che mettono al mondo più figli e che sono in grado di garantire loro una buona educazione. Nel nostro Paese il 17% dei minori vivono in famiglie monoreddito, al di sotto della soglia di

povertà, e al Sud il fenomeno interessa il 28,8%.

Ma per immettere nel circuito produttivo questa risorsa inutilizzata bisogna riorientare le politiche di welfare a favore delle famiglie e mettere al centro della politica sociale le libertà e le opportunità dei singoli individui e, in particolare, quelle di ciascuna singola donna, come succede in tanti Paesi vicini a noi. Per lavorare e fare figli una donna francese o scandinava non deve essere per forza Wonder Woman. Può, ad esempio, appoggiarsi agli asili nido (che sono aperti molte più ore) e a servizi di ogni tipo: noi abbiamo solo 15 posti nel nido ogni cento bambini al Nord e addirittura due al Sud. E una donna francese o scandinava può contare su un sistema fiscale che incoraggia l’occupazione femminile. Da noi la scoraggia in quanto le detrazioni diminuiscono al crescere del reddito familiare.

Ma non è vero che i programmi sono tutti uguali. L’Agenda Monti prevede una forte «azione positiva» mirata non solo ad aumentare in Italia l’occupazione femminile, ma anche a produrre un mutamento positivo nella distribuzione tra uomini e donne del lavoro domestico. La prima parte del progetto consiste nella sperimentazione della detassazione selettiva del reddito da lavoro delle donne (che ricalca una mia proposta di legge del 2010) per far crescere il tasso di occupazione femminile dall’attuale 46% al 60% previsto dal Trattato di Lisbona. Una delle priorità dell’Agenda Monti è la riduzione dell’Irpef sui redditi di lavoro e di impresa; l’idea, dunque, è di concentrare questa riduzione sui tre segmenti che oggi più soffrono nel nostro mercato del lavoro: giovani, donne e 50-60enni.  L’Agenda Monti prevede poi altre misure mirate a realizzare l’«obiettivo di Barcellona» in tema di assistenza alla prima infanzia: un piano straordinario per gli asili nido e un piano nazionale per l’offerta di un servizio qualificato di assistenza alle persone non autosufficienti, che al tempo stesso attivino una nuova domanda e una nuova offerta di lavoro retribuito femminile.

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Il Gazzettino, 22 febbraio 2013 – Il Gazzettino: «Sul mercato del lavoro la Regione sia laboratorio»

 

Collocamento, formazione e sostegno al reddito a partire dal Friuli Venezia Giulia. Ad immaginare la Regione “un laboratorio” dove sperimentare nuovo politiche del lavoro è il candidato capolista al Senato nel Friuli Venezia Giulia con Monti per l’Italia Alessandro Maran che ieri, a Trieste, ha partecipato ad un dibattito pubblico sul tema “Modello flexsecurity per il lavoro, una speranza per i giovani”. Da Milano, collegati via web, hanno preso parte all’incontro anche il candidato al Senato in Lombardia Pietro Ichino e Claudio Ceper,  candidato alla Camera nella nostra Regione. Secondo Maran, «in materia di lavoro, le competenze decisive sono regionali» ma non solo, «l’autonomia va utilizzata non per difenderla, ma per intervenire in maniera forte sui temi occupazionali allineandosi alle esperienze europee». Da qui il concetto di flexsecurity disegnato da Ichino che, spiega sempre Maran, «coniuga due necessità contrapposte, flessibilità e sicurezza, per promuovere l’occupazione giovanile e delle donne. Giovani e donne – prosegue Maran – rischiano di pagare il prezzo più alto della crisi, sono infatti soprattutto queste due categorie ad essere inserite nel mercato del lavoro con contratti precari». La flexsecurity, che in pratica significa lavoro più sicuro a fronte di maggiore flessibilità delle strutture produttive, è uno dei progetti contenuti nell’Agenda Monti per modernizzare il mercato del lavoro, in particolare per i giovani con meno di trent’anni, le donne e gli ultracinquantenni. «Per i servizi di assistenza intensiva per la ricerca di nuova occupazione – sottolinea il candidato gradese – le Regioni hanno la possibilità di attingere a quel 60% di contributi del Fondo sociale europeo che finora non sono state capaci di utilizzare». «Il contratto di lavoro che intendiamo sperimentare – spiega – è a tempo indeterminato, preferibile per le imprese, di modo da assorbire le centinaia di migliaia di collaborazioni fasulle”, mentre per incentivare l’occupazione femminile «proponiamo sgravi Irpef per il primo impiego». Maran oggi sarà a Udine per partecipare all’assemblea studentesca all’Auditorium Zanon. Un’occasione per sensibilizzare al voto i ragazzi e per ribadire che «spesa e debito sono tra i peggiori nemici dei giovani e del futuro dell’Italia».

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Il Piccolo, 27 febbraio 2013 – «L’Italia ha bisogno di riforme Il Pd deve dialogare con noi»

 

«L’Italia ha bisogno di riforme. Il Pd deve dialogare con noi»

La rivincita del senatore montiano sull’ex partito. «Larghe intese o ingovernabilità Colpa di vent’anni di mancata riforma della legge elettorale, ritardo da colmare»

Quasi 9mila voti una percentuale superiore al 13%

Dopo tre mandati alla Camera nella file del Pd, Alessandro Maran, a gennaio, escluso dalle liste dei candidati del suo partito, ha lasciato a sorpresa il Pd per sposare la discesa in campo del premier, ed è stato candidato al Senato, diventando uno dei due nuovi parlamentari della provincia di Gorizia (l’altro è il pidiessino Giorgio Brandolin). Al Senato la lista Monti, nella provincia isontina, si è piazzata al quarto posto, ottenendo 8.992 voti, con una percentuale dell’11,28%. Di questi quasi 9 mila voti, 2.626 (pari al 13,50%) Maran li ha ottenuti a Gorizia, ma la percentuale più elevata l’ha conseguita a Mariano con quasi il 15%.

I rapporti con il Pd, la governabilità, l’urgenza delle riforme, il ruolo dei “grillini”, le elezioni regionali. Alessandro Maran, il giorno dopo averla spuntata nella corsa al Senato con la lista Monti, guarda già all’immediato futuro ma sottolinea la necessità di cambiare quanto prima la legge elettorale. Senatore, collaborerà con i parlamentari del Pd, dopo che il suo ex partito l’ha accusata di tradimento? Hanno dovuto riabilitarmi, perché da Berlino Bersani ha proposto la collaborazione a Monti. E’ comunque ovvio che ci sarà collaborazione, specialmente sulle questioni del territorio e delle riforme, come si fa normalmente. Come legge il crollo di Fli e Udc, che in qualche modo avrebbero dovuto “portare acqua” alla lista del premier uscente? E’ evidente che “Scelta civica” ha drenato voti, anche se al Senato era presente come formazione unica e alla Camera correvano in coalizione. “Scelta civica” è destinata a durare, come unica formazione politica che include il Fli e l’Udc. Per me si è trattato di una scelta unitaria sin dall’inizio. Come si sente ad aver scalzato Camber e il secondo grillino in lizza, benché grazie al meccanismo di questa legge elettorale? Queste elezioni hanno testimoniato che gli italiani vogliono cambiare. E’ successo un terremoto, è quindi irrilevante che io abbia scalzato Camber o un altro. Con la situazione che si è configurata alla Camera e al Senato è possibile la governabilità? Questo risultato non è diverso dal primo turno delle elezioni francesi, con la differenza che in Francia hanno il secondo turno, in cui si supera la frammentazione. Noi abbiamo invece un assetto che non favorisce la governabilità. Stiamo pagando vent’anni di mancata riforma della legge elettorale. La prima questione da affrontare tutti assieme è come la si cambia. La seconda è definire una maggioranza: il Pd cosa intende fare? In un Paese normale si cercherebbe di dare vita a un’intesa larga. Che possibilità vede per attuare le riforme indicate da Monti? L’Italia deve provarci. L’unico modo per uscire da questa situazione di rabbia e crisi è fare le riforme. Bisogna subito far ripartire la crescita, e poi mettere mano al mercato del lavoro, alla giustizia, all’istruzione e all’assetto istituzionale. Con le buone o le cattive queste riforme l’Italia dovrà farle, e chi è interessato al futuro del Paese deve pensare a collaborare. Adesso bisogna indicare le soluzioni. Si deve fare in modo che gli investitori istituzionali puntino ancora sull’Italia. Come giudica i voti che avete ottenuto nell’Isontino? Si aspettava di più da qualche località? E’ stato un voto in linea con le aspettative. Il risultato regionale della lista Monti è comunque il migliore d’Italia. E’ chiaro che c’è sempre spazio per fare meglio. Nell’Isontino e in regione, ma anche nella sua Grado, che conseguenze avrà il risultato a sorpresa del movimento di Beppe Grillo? Il movimento di Grillo è un meteorite che ha scompaginato le previsioni della vigilia, destinato quindi a produrre un cambiamento. Ma non è detto che sopravviva. Avrà comunque un ruolo importantissimo alle elezioni regionali, già oggi può essere considerato uno dei contendenti. E in quel contesto la lista Monti assumerà il ruolo di ago della bilancia. Alle regionali andrete da soli o in coalizione? Quello che è certo è che ci presentiamo, resta da decidere se da soli o in alleanza. La scelta con chi dipenderà dai punti dell’agenda Monti, se cioè eventuali alleati saranno disposti a “ribaltare” la Regione, a cominciare dall’eliminazione delle Province.Nel suo nuovo ruolo di senatore, cosa ha in programma di fare per l’Isontino e la regione? I problemi locali non sono diversi da quelli dell’Italia. Il Friuli Venezia Giulia riparte se riparte la crescita. Quindi la prima cosa da fare è detassare il lavoro delle donne e dei giovani, è una condizione essenziale per rilanciare la crescita. Da noi le donne che lavorano sono il 46%, in Europa il 60%; qui vogliamo arrivare almeno al 60%.

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Il Piccolo, 19 marzo 2013 – «Le divisioni ci sono ma Mario resta il leader»

 

Maran ridimensiona la frattura tra i centristi. E critica il Pd: «Condanna l’Italia a un salto nel buio»

Alessandro Maran preferisce concentrarsi sugli errori del Pd piuttosto che su quelli di Mario Monti. Che, se ci sono, sono fisiologici: «Se ne fanno continuamente».

Monti ha subito molte critiche. Avete perso un leader?

Le critiche a Monti non sono mai mancate. Fin da quando si è assunto la responsabilità di scelte che i partiti hanno preferito scansare. Ma resta il leader riconosciuto che ha riaperto all’Italia una prospettiva di sviluppo e le ha ridato ruolo e prestigio.

Monti al Quirinale è un vostro obiettivo?

Ne guadagnerebbe il Paese. Ma, se questo fosse stato davvero il suo scopo, gli sarebbe bastato tenersi alla larga dalla competizione elettorale.

Il Monti sobrio e super partes è un ricordo?

Il vero problema è che in questa nuova legislatura le prime e forse uniche cose da fare – riforma elettorale e riduzione dei costi della politica – devono necessariamente, per loro stessa natura, essere fatte insieme al Pdl. Il rifiuto preliminare del Pd di accordi con quel partito rischia di privare la legislatura della sua unica missione possibile, condannando il Paese al salto nel buio del voto anticipato a giugno, con la stessa vecchia legge elettorale che ha prodotto il risultato di febbraio. Di qui la nostra scheda bianca.

Come vivete in Parlamento il ruolo di gruppo non determinante? Siete divisi?

Ci sono opinioni diverse dovunque. Anche tra i grillini. Ma il punto è che nessuno è determinante come sperava. Il risultato delle elezioni non è diverso da quello del primo turno delle elezioni francesi di un anno fa. Ma in Francia hanno il secondo turno, con cui si supera la frammentazione e si sceglie chi governa. I fenomeni politici sono gli stessi, ma il meccanismo istituzionale è più evoluto. I nostri problemi affondano le radici in istituzioni inadeguate, deboli e barocche. Urgente cambiarle.

I presidenti di Camera e Senato sono una svolta reale?

 L’elezione di due pur degnissime persone come Pietro Grasso e Laura Boldrini, se accelera lo scivolamento verso lo scioglimento delle Camere, rischia di essere una presa in giro molto pericolosa per il Paese.

Quale la soluzione migliore per la formazione del governo?

In queste condizioni, e con l’economia in bilico fra asfissia e catastrofe, se fossimo in Germania un governo di responsabilità nazionale sarebbe già nato. In qualsiasi Paese europeo degno di questo nome, se l’esito delle elezioni non consente il formarsi di una maggioranza di governo, e se il tornare subito al voto espone il Paese a un rischio grave sul piano economico-finanziario, le forze politiche maggiori non esitano a unirsi, per la salvaguardia dell’interesse nazionale.

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Il Foglio, 31 maggio 2013 – Sanare la metamorfosi. Dal referendum del ’93 alle primarie, ci siamo abituati a eleggere leader e governanti

Il governo Letta ha fatto bene a vincolare la propria durata ad percorso efficace e tempestivo di riordino istituzionale. In fondo, la scommessa che i partiti di maggioranza hanno accettato è proprio questa: allontanare il sospetto che non ci sia niente che si possa fare per salvare quel che resta del sistema. La nostra Repubblica è già cambiata, spesso in modo involontario e imprevisto e oggi risulta incompiuta, a metà. Il nodo irrisolto non riguarda tanto la legge elettorale quanto la forma di governo, cioè la qualità della forma di stato. E su questo punto, come ha detto Enrico Letta, «bisogna anche prendere in considerazione scelte coraggiose, rifiutando piccole misure cosmetiche e respingendo i pregiudizi del passato». È da un pezzo che la premiership è diventata la vera e fondamentale posta in gioco. Al punto che si è fatto dell’investitura popolare diretta (o come se diretta) il perno attorno al quale ruota il sistema, senza, peraltro, introdurre alcun serio contrappeso. Sono passati vent’anni da quando i cittadini hanno risposto inequivocabilmente alla domanda alla base del referendum del ’93: sono i partiti o i cittadini a scegliere il governo, e questo risponde ai partiti o ai cittadini? È dal ’93 che ci siamo abituati ad eleggere direttamente sindaci, presidenti di provincia e (poi) di regione. Nel frattempo, nella considerazione degli italiani, i partiti e il Parlamento hanno toccato il punto più basso. E potrei continuare: nel 2001, i nomi di Rutelli e Berlusconi erano indicati sulla scheda elettorale; con le primarie il centrosinistra sceglie ormai d’abitudine i candidati per le cariche monocratiche e con le primarie il Pd ha scelto il segretario nazionale e i segretari regionali, facendo volare le decisioni individuali di moltissimi cittadini là dove non erano mai arrivate, nella scelta dei massimi dirigenti. Insomma, la politica presidenziale è diventata, ormai parte integrante della nostra scena nazionale. Anche se ancora non si è trasformata in un nuovo equilibrio istituzionale. Ora Enrico Letta propone (giustamente) l’elezione diretta del Presidente della Commissione europea (e, più in là, degli Stati Uniti d’Europa). Può essere che l’elezione diretta vada bene per tutti i livelli di governo ad eccezione di quello nazionale? Oltretutto, non credo che il parlamentarismo limitato, il sistema tedesco (magari «alle vongole») o la riduzione dei parlamentari possano bastare: too late, too little, direbbero gli americani. Anche perché, come ha spiegato Giovanni Sartori, «la costruzione di un sistema di premiership sfugge largamente alla presa dell’ingegneria costituzionale. Le varianti britannica o tedesca di parlamentarismo limitato (di semi-parlamentarismo) funzionano come funzionano soltanto per la presenza di condizioni favorevoli». Sartori ritiene che «la strategia preferibile non è quella del gradualismo, ma piuttosto una terapia d’urto. Insomma, le probabilità di riuscita sono minori nella direzione del semi-parlamentarismo, e maggiori se si salta al semi-presidenzialismo». Il guaio è che oggi in molti prendono atto che non è possibile praticare la vecchia forma della partecipazione alla politica, ma continuano a ritenere che quella forma della partecipazione alla politica e quel sistema politico siano i migliori. E dunque cercano di avvicinarsi a quel modello e di salvare più elementi possibile di quella esperienza. Ma questo atteggiamento nasce da una visione statica e conservatrice. Il vecchio sistema dei partiti non torna più, neppure ripristinando proporzionale e preferenze. La «metamorfosi» è già avvenuta. L’unica strada praticabile è quella di esaltare la possibilità della scelta, la responsabilità della scelta, l’esercizio della cittadinanza nello stato. Non si tratta di una questione tecnico-istituzionale, ma di una questione etico-politica. Caduti gli stimoli del passato, come si riattiva la partecipazione alla politica? Il rispetto della competenza decisionale degli individui non è forse l’unica risposta possibile a una crisi di fiducia ormai incontenibile ? Quello che è avvenuto in questo ventennio non è una parentesi antistorica. Oggi nessuno (in tutte le società industriali avanzate) partecipa più alla politica come in passato. Per questo bisogna passare definitivamente da una concezione e da una pratica politica fondate su una dichiarazione e una scelta di appartenenza a quelle fondate sulla responsabilità della scelta per il governo del paese. Il punto è che oggi solo la leadership può essere una risposta alla crisi di legittimazione. So bene che ogni ipotesi di riforma istituzionale che evochi il «presidenzialismo» è motivo di sospetto prima ancora che di ragionata opposizione. Ma quello che sta accadendo da anni è la prova della necessità, di fronte alla dispersione delle rappresentanze degli interessi, di dotare il nostro sistema politico di competenze di governo che abbiano la legittimità e la forza di aggregare decidendo. Alessandro Maran, senatore di Scelta civica

 

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Il Gazzettino, 1 giugno 2013 – Anche a Roma urge l’elezione diretta

Il governo Letta ha fatto bene a vincolare la propria durata ad percorso efficace e tempestivo di riordino istituzionale. In fondo, la scommessa che i partiti di maggioranza hanno accettato è proprio questa: allontanare il sospetto che non ci sia niente che si possa fare per salvare quel che resta del sistema. La nostra Repubblica è già cambiata, spesso in modo involontario e imprevisto (Ilvo Diamanti l’ha definita argutamente una “repubblica preterintenzionale”) e oggi risulta incompiuta, a metà. Il nodo irrisolto non riguarda tanto la legge elettorale quanto la forma di governo, cioè la qualità della forma di stato. E su questo punto, come ha detto Enrico Letta, «bisogna anche prendere in considerazione scelte coraggiose, rifiutando piccole misure cosmetiche e respingendo i pregiudizi del passato».

È da un pezzo che la premiership è diventata la vera e fondamentale posta in gioco. Al punto che si è fatto dell’investitura popolare diretta (o come se diretta) il perno attorno al quale ruota il sistema, senza, peraltro, introdurre alcun serio contrappeso. Sono passati vent’anni da quando i cittadini hanno risposto inequivocabilmente alla domanda alla base del referendum del ’93: sono i partiti o i cittadini a scegliere il governo, e questo risponde ai partiti o ai cittadini? È dal ’93 che ci siamo abituati ad eleggere direttamente sindaci, presidenti di provincia e (poi) di regione. Nel frattempo, nella considerazione degli italiani, i partiti e il Parlamento hanno toccato il punto più basso. E potrei continuare: nel 2001, i nomi di Rutelli e Berlusconi erano indicati sulla scheda elettorale; con le primarie il centrosinistra sceglie ormai d’abitudine i candidati per le cariche monocratiche e con le primarie il Pd ha scelto il segretario nazionale e i segretari regionali, facendo volare le decisioni individuali di moltissimi cittadini là dove non erano mai arrivate, nella scelta dei massimi dirigenti.

Insomma, la politica presidenziale è diventata, ormai parte integrante della nostra scena nazionale. Anche se ancora non si è trasformata in un nuovo equilibrio istituzionale. Ora Enrico Letta propone (giustamente) l’elezione diretta del Presidente della Commissione europea (e, più in là, degli Stati Uniti d’Europa). Può essere che l’elezione diretta vada bene per tutti i livelli di governo ad eccezione di quello nazionale? Oltretutto, non credo che il parlamentarismo limitato, il sistema tedesco (magari «alle vongole») o la riduzione dei parlamentari possano bastare: too late, too little, direbbero gli americani. Anche perché, come ha spiegato Giovanni Sartori, «la costruzione di un sistema di premiership sfugge largamente alla presa dell’ingegneria costituzionale».

Il punto (di nuovo, la questione etico-politica) è che oggi solo la leadership può essere una risposta alla crisi di legittimazione. So bene che ogni ipotesi di riforma istituzionale che evochi il «presidenzialismo» è motivo di sospetto prima ancora che di ragionata opposizione. Ma quello che sta accadendo da anni è la prova evidente della necessità di dotare il nostro sistema politico di competenze di governo che abbiano la legittimità e la forza di aggregare decidendo.

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Il Piccolo, 2 giugno 2013 – Maran: «Solo il “sistema francese” consente di ristrutturare i partiti»

LA CAMPAGNA PER CANCELLARE IL “PORCELLUM”

di Roberto Urizio

TRIESTE

Riforma istituzionale ed elettorale per rimettere l’Italia al passo con il resto d’Europa. Alessandro Maran, senatore di Scelta civica, lo dice da tempo tanto che, ancora nella scorsa legislatura, aveva depositato una proposta di legge in tal senso già a luglio dello scorso anno insieme ad altri deputati del Pd di cui all’epoca faceva parte. Semipresidenzialismo e doppio turno: l’Italia, sintetizza Maran che su questo tema ha scritto anche un libro, deve decidere se andare verso Atene o Parigi. Prendendo quindi le distanze dal cosiddetto “Porcellum”.

Qual è la strada da percorrere da parte del governo e dalla maggioranza che lo sostiene?

È dal novembre del 2011 che il presidente Napolitano ripete che l’Italia non può ritrovare la strada in un clima politico da guerra civile simulata. Gli ostacoli ci sono, penso ai guai giudiziari di Berlusconi, ma come Scelta civica abbiamo sempre sostenuto la necessità delle riforme. Per farlo ci vuole il riconoscimento reciproco tra i partiti e una condivisione di responsabilità.

Ce la farà il governo Letta a portare il Paese fuori dalle secche?

Io la vedo con ottimismo. Questo Governo ha molti volti nuovi che, se da una parte può essere un difetto di esperienza, dall’altro è indubbiamente un fattore positivo in quanto non c’è un passato che possa creare divisioni. Considero scelte eccellenti quelle di Saccomanni e di Bonino e, in generale, credo che questo governo segni un tentativo di pacificazione politica e di ridimensionamento di chi considera tutto allo sfascio.

Quali i passaggi fondamentali che dovrà affrontare il governo Letta?

Innanzitutto bisognerà aprire una fase costituente per ristrutturare il sistema istituzionale e politico. Da sempre sostengo la necessità di un modello semipresidenziale come in Francia con il doppio turno e la tormentata elezione del Presidente della Repubblica ha confermato palesemente questo bisogno. In Francia i risultati elettorali non sono stati diversi rispetto all’Italia, è il sistema a essere completamente diverso.

E la crisi economica e sociale?

È fondamentale riformare il mercato del lavoro, rendendo i rapporti lavorativi meno costosi e snellendo la burocrazia. Occorre ridurre l’imposizione fiscale e la spesa pubblica, eliminando alcuni carrozzoni quali, ad esempio, il Cnel. Ma prima di tutto la politica deve ritrovare la fiducia dei cittadini, i quali sono delusi dall’inconcludenza della politica. E per fare questo è prioritario riformare l’architettura istituzionale, altrimenti si rischia di avere proposte che non arrivano a essere nemmeno discusse in Parlamento.

Perché il sistema francese?

Perché le sue regole e le sue istituzioni contribuiscono in maniera molto significativa alla ristrutturazione dei partiti e delle modalità di competizione, alla formazione di coalizioni di governo e a dare potere agli elettori. Ma attenzione perché la riforma elettorale da sola non basta: serve una riforma che tenga insieme sistema di governo e sistema elettorale per consentire una riorganizzazione complessiva dei partiti e del sistema politico.

Ce la farà questo Governo a superare questa prova?

Se si vuole riformare la Costituzione più bella del mondo, la cui seconda parte però è da rifare, ci vogliono almeno un paio d’anni. Ma se ci saranno dei buoni risultati immagino che non ci si vorrà disfare di un Governo che opera in modo positivo. In ogni caso si potrà tornare alle urne solo dopo avere avviato la ristrutturazione della forma di governo e con una nuova legge elettorale.

 

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