Il governo Letta ha fatto bene a vincolare la propria durata ad percorso efficace e tempestivo di riordino istituzionale. In fondo, la scommessa che i partiti di maggioranza hanno accettato è proprio questa: allontanare il sospetto che non ci sia niente che si possa fare per salvare quel che resta del sistema. La nostra Repubblica è già cambiata, spesso in modo involontario e imprevisto (Ilvo Diamanti l’ha definita argutamente una “repubblica preterintenzionale”) e oggi risulta incompiuta, a metà. Il nodo irrisolto non riguarda tanto la legge elettorale quanto la forma di governo, cioè la qualità della forma di stato. E su questo punto, come ha detto Enrico Letta, «bisogna anche prendere in considerazione scelte coraggiose, rifiutando piccole misure cosmetiche e respingendo i pregiudizi del passato».
È da un pezzo che la premiership è diventata la vera e fondamentale posta in gioco. Al punto che si è fatto dell’investitura popolare diretta (o come se diretta) il perno attorno al quale ruota il sistema, senza, peraltro, introdurre alcun serio contrappeso. Sono passati vent’anni da quando i cittadini hanno risposto inequivocabilmente alla domanda alla base del referendum del ’93: sono i partiti o i cittadini a scegliere il governo, e questo risponde ai partiti o ai cittadini? È dal ’93 che ci siamo abituati ad eleggere direttamente sindaci, presidenti di provincia e (poi) di regione. Nel frattempo, nella considerazione degli italiani, i partiti e il Parlamento hanno toccato il punto più basso. E potrei continuare: nel 2001, i nomi di Rutelli e Berlusconi erano indicati sulla scheda elettorale; con le primarie il centrosinistra sceglie ormai d’abitudine i candidati per le cariche monocratiche e con le primarie il Pd ha scelto il segretario nazionale e i segretari regionali, facendo volare le decisioni individuali di moltissimi cittadini là dove non erano mai arrivate, nella scelta dei massimi dirigenti.
Insomma, la politica presidenziale è diventata, ormai parte integrante della nostra scena nazionale. Anche se ancora non si è trasformata in un nuovo equilibrio istituzionale. Ora Enrico Letta propone (giustamente) l’elezione diretta del Presidente della Commissione europea (e, più in là, degli Stati Uniti d’Europa). Può essere che l’elezione diretta vada bene per tutti i livelli di governo ad eccezione di quello nazionale? Oltretutto, non credo che il parlamentarismo limitato, il sistema tedesco (magari «alle vongole») o la riduzione dei parlamentari possano bastare: too late, too little, direbbero gli americani. Anche perché, come ha spiegato Giovanni Sartori, «la costruzione di un sistema di premiership sfugge largamente alla presa dell’ingegneria costituzionale».
Il punto (di nuovo, la questione etico-politica) è che oggi solo la leadership può essere una risposta alla crisi di legittimazione. So bene che ogni ipotesi di riforma istituzionale che evochi il «presidenzialismo» è motivo di sospetto prima ancora che di ragionata opposizione. Ma quello che sta accadendo da anni è la prova evidente della necessità di dotare il nostro sistema politico di competenze di governo che abbiano la legittimità e la forza di aggregare decidendo.