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qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 80 del 16 ottobre 2012 – Perché gli Usa votano Monti

Le relazioni tra la Casa Bianca e Palazzo Chigi attraversano una fase molto positiva. L’ambasciatore Usa in Italia, David Thorne, ha dichiarato che il presidente degli Stati Uniti fa grande affidamento «sul premier e sulla sua opinione su come stanno andando le cose nella zona europea». Il sostegno a Monti e l’auspicio che il premier non traslochi da Palazzo Chigi nel 2013 è parso a tutti inequivocabile. Al punto che che il Corriere della Sera ha ribadito che «l’inquilino della Casa Bianca fa il “tifo” per il professore».

Secondo Maurizio Molinari (La scommessa di Obama sull’Europa,pubblicato su www.aspeninstitute.it), «tanta e tale attenzione si spiega con il fatto che il successo di Monti è considerato dalla casa Bianca determinante per sostenere l’attuale fase di debole crescita economica americana. La tesi ricorrente a Washington, nell’amministrazione come nei centri studi, è infatti che se Monti fallisse, l’Italia seguirebbe la sorte della Grecia, con il risultato di far implodere la moneta unica e di conseguenza trascinare l’euro nell’abisso, paventando per gli Stati Uniti una ricaduta nella recessione accompagnata da massiccia disoccupazione. Sostenere l’Eurozona è dunque un tassello della strategia economica di Obama: proteggere la debole crescita economica americana dai rischi europei per poi puntare a rafforzarla grazie a libero commercio ed esportazioni nell’area dell’Asia-Pacifico». Da qui l’interesse americano, politico ed economico, in un’Unione europea più forte, solida e integrata, al punto che la necessità di rafforzare l’integrazione europea rappresenta oggi il terreno più ampio di convergenza con il nostro paese.

Ma per uscire dalla gabbia nella quale si è rinchiusa, l’Europa ha bisogno di due chiavi: una sta a Berlino, l’altra sta a Roma. Lo hanno spiegato Enrico Morando e Giorgio Tonini nel loro libro L’Italia dei democratici:« Monti ha riportato l’Italia al centro del grande gioco europeo (e non solo) in quanto portatrice di una visione più avanzata: disciplina fiscale, certo; crescita trainata da grandi investimenti finanziati dal debito europeo, certo; ma anche e soprattutto crescita generata da un grande mercato unico europeo liberalizzato. Sia nei paesi in surplus, sia nei paesi in disavanzo delle partite correnti c’è bisogno di liberalizzazioni, che aprano i mercati chiusi e favoriscano il superamento degli squilibri anche attraverso la mobilità dei fattori e la concorrenza. Riforme dal lato dell’offerta, che promuovano la crescita della produttività neri paesi oggi meno competitivi, devono accompagnarsi a politiche di aumento della domanda aggregata, sia nei paesi oggi più frenati e in forte avanzo commerciale, sia attraverso grandi investimenti federali, finanziati (sulla linea proposta nel Libro bianco del 1992 da Jacques Delors) attraverso l’emissione di titoli europei». Sono queste le idee chiave di un nuovo patto, di un nuovo compromesso per l’Europa, cui il governo Monti ha ispirato la sua iniziativa che in pochi mesi ha prodotto risultati impressionanti ed ha interrotto la fase dell’incomunicabilità tra Roma e Berlino.

Tuttavia, come osserva Mark Gilbert (Foreign Affairs, Mario Monti and Italy’s Generational Crisis), benché il primo ministro abbia dato ai mercati finanziari globali la speranza che il nostro paese possa uscire dall’emergenza fiscale, «il vero dilemma dell’Italia è politico, non economico». «A meno che Roma non modifichi radicalmente la sua cultura politica – prosegue Mark Gilbert -, i cambiamenti che Monti ha assicurato all’Italia – una maggiore sobrietà e una forte dose di liberalizzazioni – è molto difficile che possano durare». Insomma, archiviata (per il momento) la minaccia di un collasso finanziario e con il premier molto probabilmente fuori dal campo di gioco delle prossime elezioni, nel 2013, è molto probabile che l’Italia non riesca a portare a termine i cambiamenti strutturali necessari per consolidare il lavoro di Monti. In sostanza, secondo il magazine americano edito dal Council on Foreign Relations, «l’incognita per Roma è se le riforme del governo Monti possano resistere» ed «è cruciale capire che il tentativo di Monti di irrobustire la disciplina fiscale è una responsabilità che i partiti politici italiani hanno per lo più evitato di assumere negli ultimi vent’anni».  Rimane perciò ancora parecchio da fare per Monti. «Per mantenere l’Italia nel club d’elite delle nazioni  – continua Mark Gilbert – Monti deve riformare il sistema giudiziario bizantino del paese (ci vogliono, in media, dieci anni per risolvere una causa civile in Italia), un governo locale sciupone, un sistema sanitario scricchiolante, e università non funzionanti. Ma i cambiamenti in questi settori susciteranno dure opposizioni. Il vero problema che affronta l’Italia, allora, non è se “Super Mario” sia in grado di salvare l’Italia ma se un qualunque governo non-tecnico possa continuare il suo lavoro». Messe così le cose, che l’inquilino della Casa Bianca faccia il tifo per il professore, non è poi così sorprendente.

 

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Il Gazzettino, 27 ottobre 2012 – Ecco perchè alle primarie del Pd voterò per Renzi

Il mio intervento

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Messaggero Veneto, 31 ottobre 2012 – Ragioni della scelta di votare per Renzi

Voterò per Matteo Renzi. Sono dell’opinione che il centrosinistra abbia bisogno di una rigenerazione, sia pure al prezzo di qualche scossa. E bisogna che le primarie sciolgano il nodo del posizionamento di fondo del Pd nella crisi italiana ed europea. Fare una campagna elettorale di opposizione dopo un anno in maggioranza è schizoide. Il Pd deve rivendicare con orgoglio di aver partecipato (da protagonista) allo sforzo per salvare l’Italia, non vergognarsene; e deve prendersi il merito della popolarità di Monti in Europa, non accreditarsi come quello che non vede l’ora di toglierselo dai piedi. Si può pensare quello che si vuole di Matteo Renzi, ma non c’è dubbio che nei suoi discorsi (e nel suo programma) abbia ripreso quasi tutte le idee-chiave della sinistra liberale; e non c’è dubbio che è con queste idee che prova a sfidare la maggioranza del Pd. Diciamoci la verità: il più delle volte, le riforme che sarebbero necessarie (per trasformare un sistema giudiziario bizantino, un governo locale sciupone, un sistema sanitario scricchiolante ecc.) sono impopolari e rischiare l’impopolarità nei punti di forza tradizionali (il pubblico impiego, per esempio), puntando sulla riconoscenza delle generazioni che verranno, esige un coraggio che gli attuali leader del Pd non hanno. Il punto irrisolto è sempre lo stesso. L’incapacità del centrosinistra di promuovere un’aperta battaglia culturale nel proprio «mondo di riferimento» in difesa di quelle idee che molte volte ha annunciato (tutti ricordiamo la promessa di una «rivoluzione liberale») come l’orizzonte della propria azione politica. Ma per conquistare la credibilità necessaria per costruire (ovviamente, con le necessarie alleanze) una alternativa di governo, il Pd deve definire la propria identità e la propria cultura politica; e c’è bisogno di una riflessione vasta e profonda su cosa significa essere di (centro) sinistra oggi. In discussione, in altre parole, è proprio la «versione dei fatti» fin qui proposta dal gruppo dirigente. E come ha osservato Biagio De Giovanni «questo gruppo è incapace di pensare in maniera diversa la storia d’Italia. Pensano sempre la stessa storia. Che, infatti, si ripropone ora con l’alleanza tra Bersani e Vendola». Spacciando per «continentale» il nostro provincialismo culturale. Renzi potrà non piacere e, indubbiamente, la «rottamazione» è uno slogan sgradevole, ma (al di là dei toni) ci voleva qualcuno che mettesse apertamente in discussione la continuità burocratica del gruppo dirigente. All’origine dei nostri guai non c’è, come da un po’ di tempo in qua non si fa che ripetere, l’idea di un partito «liquido», di un partito all’americana, di un partito che (è questo che si vuol dire) non corrisponde alla realtà storica e politica del nostro Paese. L’America non c’entra nulla. Sono le tradizioni, le culture politiche, da cui è derivato il Pd che hanno perso da tempo solidità e consistenza e che, ormai svuotate e prive di presa sulla realtà, sono inadeguate a interpretare le domande del paese. Ed è inadeguato un riformismo che non vuole pagare il prezzo delle scelte che da tempo invoca. Dovesse prevalere Renzi alle primarie, non finiremmo nell’anarchia, ma il Pd diventerebbe un partito un po’ più simile a quelli (di sinistra) europei. Mentre le sinistre europee rompono anche simbolicamente con il loro passato perché sono obbligate a considerare nuovi problemi e traguardi, il Pd si auto-confina nel recinto della sinistra tradizionale. Ma quella sinistra non è «la» sinistra. Anzi, se c’è un’esigenza in Italia, è proprio quella di costruire (finalmente) la sinistra come crogiuolo dei diversi filoni che si sono variamente intrecciati nella sinistra europea. Dovunque oggi la socialdemocrazia è già un compromesso liberal-socialista. Il rischio della sinistra italiana è di morire di nostalgia: tutto quel che è accaduto nel passato ha valore, tutto ciò che è presente, è corrotto. Ma il passato diventa motivo di forza e di vanto solo per un equivoco: lo si idealizza. E a forza di pensare nostalgico ci si dimentica che il futuro (come dice Obama) si forgia, si costruisce, non lo si aspetta mica. Dobbiamo offrire un cambiamento sia nelle politiche sia nel modo di fare politica. E la vera rupture rispetto agli ultimi anni del Pd (più forte della stessa rottamazione) è l’appello di Renzi agli elettori delusi da Berlusconi. Continuo a ritenere che il Pd debba scommettere sul fatto che possa avvenire, in futuro, un mutamento nelle propensioni degli elettori. Ma per conquistare nuovi elettori bisogna cambiare. E il partito non ha altra possibilità che quella di provare a conquistare quegli elettori delusi dal centrodestra, che ora possono volgere lo sguardo altrove in cerca di una nuova speranza, facendo proprie le loro istanze. Facendo proprie, cioè (sulla base dei nostri valori) quelle domande, quelle aspirazioni che essi esprimono e che Berlusconi ha lasciato insoddisfatte. Non è scritto da nessuna parte che il declino, la decadenza siano un esito inevitabile per il nostro Paese. I leader e le loro idee contano. Ma serve coraggio, che, come scriveva Robert Kennedy, «è la dote indispensabile per chi voglia cambiare un mondo che accetta così faticosamente il cambiamento».

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Il Foglio, 2 novembre 2012 – Perché voto Renzi, l’unica alternativa possibile a questa sinistra fallimentare

Bassi salari, alta disoccupazione, diseguaglianza crescente rischiano di trasformare le preoccupazioni economiche in risentimento. Prima che le difficoltà e il risentimento crescano ulteriormente, l’Italia deve optare per le riforme. E dobbiamo offrire un cambiamento nelle politiche e nel modo di fare politica. Stavolta non basterà attendere che passi la nottata. La destra ha fallito la prova di governo, ma i quieti equilibri del passato non si possono ricreare. E il problema del Pd rimane quello di costruire un’alternativa credibile: il centrodestra, infatti, si sta via via sfaldando senza che i consensi per il centrosinistra aumentino. Per il Pd il punto irrisolto è sempre lo stesso. L’incapacità del centrosinistra di promuovere un’aperta battaglia culturale all’interno del proprio «mondo di riferimento» in difesa di quelle idee che molte volte ha annunciato come l’orizzonte della propria azione politica. Da qui la continua riproposizione di una sorta di strategia dei «due tempi»: prima bisogna risolvere il problema della guida del partito (e del Paese) e solo in un secondo tempo, l’effetto carismatico di quella guida trascinerà il partito su nuove coordinate di cultura politica. Ma non ha funzionato e non può funzionare. Che fare dunque?

Voterò per Matteo Renzi. Sono dell’opinione che il centrosinistra ha bisogno di una rigenerazione, sia pure al prezzo di qualche scossa. C’è bisogno di una sincera e coraggiosa competizione con la vecchia sinistra: il tabù dell’unità del partito e del suo governo dal «centro» (tagliando le ali) ha fatto il suo tempo e, come abbiamo visto, è una modalità che consente solo deboli adattamenti e non innovazione duratura. E bisogna che le primarie sciolgano il nodo del posizionamento di fondo del Pd nella crisi italiana ed europea. Fare una campagna elettorale di opposizione dopo un anno in maggioranza è schizoide. Resto dell’opinione che il Pd deve rivendicare con orgoglio di aver partecipato (da protagonista) allo sforzo per salvare l’Italia, non vergognarsene; e deve prendersi il merito della popolarità di Monti in Europa, non accreditarsi come quello che non vede l’ora di toglierselo dai piedi.

Si può pensare quello che si vuole di Matteo Renzi, ma non c’è dubbio che nei suoi discorsi (e nel suo programma) il sindaco di Firenze abbia ripreso quasi tutte le idee-chiave della sinistra liberale; e non c’è dubbio che è con queste idee che prova a sfidare la maggioranza del Pd.  Senza contare che la vera rupture rispetto agli ultimi anni di vita del Pd, più forte della stessa rottamazione, è il suo appello agli elettori delusi da Berlusconi. E, a ben guardare, ci voleva qualcuno che mettesse apertamente in discussione la continuità burocratica del gruppo dirigente e una concezione del partito e della politica che ha al centro proprio la funzione del «gruppo dirigente».

Dovesse prevalere Renzi alle primarie, non finiremmo nell’anarchia, ma il Pd diventerebbe un partito un po’ più simile a quelli (di sinistra) presenti nelle democrazie europee. Mentre le sinistre europee rompono anche simbolicamente con il loro passato (Hollande compie scelte di governo contro le quali Melenchon organizza mobilitazioni di piazza e l’Spd sceglie Steinbrück come proprio candidato alla cancelleria, per tacere degli inglesi), perché sono obbligate a considerare nuovi problemi e nuovi traguardi, il Pd si auto-confina nel recinto della sinistra tradizionale. Ma quella sinistra non è «la» sinistra. Anzi, se c’è un’esigenza in Italia, è proprio quella di costruire la sinistra come crogiuolo dei diversi filoni che si sono variamente intrecciati nella sinistra europea. Il rischio della sinistra italiana è di morire di nostalgia: tutto quel che è accaduto nel passato ha valore, tutto ciò che è presente, è corrotto. Ma il passato diventa motivo di forza e di vanto solo per un equivoco: lo si idealizza; lo si rende perfetto. E a forza di pensare nostalgico ci si dimentica che il futuro si forgia, si costruisce, non lo si aspetta mica. Per conquistare la credibilità necessaria per costruire una alternativa di governo, il Pd deve definire la propria identità e la propria cultura politica. E proprio perché non ha ancora completato il suo processo di conversione a un liberalismo sociale, il Pd ha bisogno di una riflessione ancora più vasta e profonda su cosa significa essere di (centro) sinistra oggi. In discussione, in altre parole, è la «versione dei fatti» fin qui proposta dal gruppo dirigente. Ma non c’è verso: il partito non ha altra possibilità che quella di provare a conquistare quegli elettori delusi dal centrodestra, che ora possono volgere lo sguardo altrove in cerca di una nuova speranza, facendo proprie le loro istanze. Facendo proprie, cioè (sulla base dei nostri valori), quelle domande, quelle aspirazioni – sul fisco, sulla giustizia, sulle libertà economiche – che esse esprimono e che Berlusconi ha lasciato insoddisfatte. Non è scritto da nessuna parte che il declino, la decadenza siano un esito inevitabile. La tecnologia, il ruolo dell’immigrazione, i miglioramenti nella sanità pubblica, norme che incoraggino una partecipazione più grande delle donne nell’economia, sono solo alcune delle misure che potrebbero cambiare la traiettoria delle tendenze attuali che puntano a un possibile declino. Il ruolo della leadership sarà cruciale circa gli esiti. I leader e le loro idee contano. Ma serve coraggio, che, come scriveva Robert Kennedy, «è la dote indispensabile per chi voglia cambiare un mondo che accetta così faticosamente il cambiamento».

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qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 84 del 13 novembre 2012 – Il nuovo corso di Obama

A quanto pare, la strategia elettorale di Obama ha funzionato benissimo. Tutti gli elementi della «Obama coalition» si sono tradotti in numeri clamorosi: donne, ispanici, afro-americani, giovani, gay e lesbiche e «highly educated professionals». E i messaggi molto mirati in Ohio (il salvataggio dell’industria automobilistica) e in Florida (Medicare) hanno ripagato. Secondo l’exit-poll della CNN, Obama ha perso il voto bianco per più del 15%, ma non ha pesato. Per una volta, scrive il New Yorker, Bill O’Reilly (opinionista conservatore, conduttore del talk show The O’Reilly Factor su Fox News Channel) aveva visto giusto: «Obama vince perché non è più un americano tipico, tradizionale».

La rielezione di Obama mostra un paese frammentato. I ricchi hanno votato Romney, mentre gli americani più poveri hanno votato prevalentemente per Obama. Restano anche nette le divisioni tra gli elettori per genere, età, razza e religione. Gli afro-americani e gli ispanici hanno sostenuto largamente Obama. I bianchi hanno votato per Romney, che vince tra quelli che proclamavano di opporsi ai matrimoni gay, volevano mettere fuorilegge l’aborto o incoraggiavano la deportazione di massa degli immigrati clandestini. Ma, scrive il New York Times, «nessuna di queste, al giorno d’oggi, sono più posizioni maggioritarie negli Usa» e la vittoria di Obama «è stata un forte sostegno alle politiche economiche che mettono l’accento sulla creazione di posti di lavoro, la riforma sanitaria, l’aumento delle tasse e la riduzione bilanciata del deficit – e su politiche moderate sull’immigrazione, l’aborto e il matrimonio tra persone dello stesso sesso. E’ stata il rifiuto dei luoghi comuni della ‘Regan-era’ sul taglio delle tasse e le ricadute favorevoli in economia e delle politiche fondate sulla paura, l’intolleranza e la disinformazione».

Il Washington Post ha posto l’accento invece su quel ci hanno insegnato queste elezioni e sugli elementi che hanno consentito al Presidente Obama di ottenere, in modo relativamente facile, un secondo mandato. In primo luogo, non è stato esclusivamente un referendum sull’economia. L’ex governatore del Massachusetts, Mitt Romney, ha costruito la sua intera campagna sul presupposto che l’unica domanda a contare davvero per gli elettori fosse:«Stai meglio oggi di quattro anni fa?» L’obiettivo era quello di trasformare le elezioni in un referendum sulla gestione, da parte di Obama, di una economia ancora in difficoltà. Non ha funzionato. Quasi 6 elettori su 10 sostenevano che l’economia fosse per loro la questione principale; e tra quel gruppo Romney era in vantaggio: 51 a 47. Ciò nonostante Romney ha perso. Perché? «Obama – osserva il Post – ha trasformato efficacemente la sfida in una scelta tra qualcuno che gli elettori pensavano potesse capirli, e capire i loro problemi, e qualcuno che non sembrava in grado di poterlo fare». Un elettore su cinque ha dichiarato che un candidato al quale «importasse la gente come me» sarebbe stato un elemento cruciale della loro decisione; Obama li ha conquistati con l’82% contro il 17%.

In secondo luogo, i Repubblicani hanno un enorme problema ispanico. Gli elettori ispanici comprendono il 10% del totale degli elettori. Obama ha ottenuto il 69% dei loro voti mentre Romney ha ottenuto solo il 29%. In Florida, i Latinos rappresentano un elettore su cinque e Obama li ha conquistati con 21 punti in più. Il Partito repubblicano, molto semplicemente, non può perdere 7 elettori ispanici su 10 e aspettarsi di essere un partito nazionale in salute, un partito che funziona e può crescere nel 2016, nel 2020 ed oltre. L’incremento della comunità ispanica probabilmente farà dell’Arizona uno swing state nelle prossime elezioni presidenziali ed il Texas potrebbe allo stesso modo diventare uno swing state entro il 2020, a meno che i repubblicani non trovino il modo di farsi largo nella comunità ispanica. «Romney – scrive il NY Times – ha commesso un errore fatele, come si è visto, durante le primarie nel sostenere una linea dura sull’immigrazione, che gli è costata un clamoroso rifiuto da parte dei Latinos. Adottando la posizione spietata che gli immigrati clandestini dovrebbero essere costretti alla deportazione e lodando la crudele legge sull’immigrazione dell’Arizona, Romney ha reso il suo cammino in Florida, e in diversi altri stati cruciali, parecchio più impervio. Solo un terzo degli elettori sostiene che gli immigrati clandestini dovrebbero essere deportati, mentre due terzi sostengono una qualche strada per la residenza legale e la cittadinanza. L’approccio repubblicano, se rimane invariato, potrebbe costare loro molto caro in futuro».

In terzo luogo, il voto dei giovani non è più ignorabile. Secondo gli exit-polls, il 19% dell’elettorato era di età compresa tra i 18 e i 29 anni e Obama ha conquistato quel gruppo con 24 punti di scarto. Era accaduto anche nel 2008, con 34 punti di scarto. «Una volta è un’anomalia; due volte è una nuova realtà politica», osserva il Washington Post. Ora quel che resta da chiedersi è se il voto dei giovani è legato unicamente al presidente Obama o se, più in generale, è un vantaggio per i Democrats.

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qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 85 del 20 novembre 2012 – Quel conservatorismo «progressista»

Mancano più di dieci mesi da qui alle elezioni in Germania, ma il clima, anche a Berlino, comincia a scaldarsi. Si fanno congetture su una nuova coalizione, qualcosa di mai sperimentato a livello nazionale: una alleanza «Nero-Verde» tra la Cdu del cancelliere Angela Merkel, il cuore dell’attuale governo conservatore, e i Grünen, ambientalisti e tradizionalmente anti-establishment. Ne ha parlato anche il Financial Times, mercoledì scorso.

Una coalizione «Nero-Verde» rappresenterebbe una riconciliazione degna di nota tra la  generazione protestataria e di sinistra degli anni 60 e i loro (perplessi) genitori conservatori. I due partiti non hanno mai governato assieme a livello nazionale (quando i primi verdi arrivarono al Bundestag nel 1983, furono accolti con aperta ostilità dai banchi dei conservatori) e neppure in un grande land come il Baden-Württemberg o il Nordrhein-Westfalen. I tentativi compiuti ad Amburgo e nella Saarland sono finiti in un nulla di fatto e con parecchia acredine. Ma il gran parlare di una alleanza «Nero-Verde» è solo aria fritta? Le opinioni divergono. Ma quello che divide i due partiti, scrive Quentin Peel, «è più lo stile della sostanza». Entrambi i partiti concordano sulla politica ambientale, sulla severa disciplina fiscale e su una più stretta integrazione per risolvere la crisi dell’eurozona. Queste sono senza dubbio le tre questioni principali in ogni agenda di governo in Germania. Possono differenziarsi sulla politica migratoria, i diritti dei gay e altri atteggiamenti sociali, ma queste sono urgenze meno importanti. Alcuni analisti ritengono che una combinazione «Nero-Verde» potrebbe essere il governo più conservatore dalla fondazione della Repubblica federale tedesca. «La conservazione è un argomento profondamente conservatore», ha detto al Financial Times, Andreas Busch, professore all’Università di Göttingen, riferendosi al cuore di qualunque programma Verde.  Va da sé che una maggioranza «Rosso-Verde» potrebbe scacciare la Signora Merkel. Ma se questa non c’è, allora quella «Nero-Verde» è una possibilità.

Alle prese con i guai di casa nostra e le elezioni che verranno, il più delle volte finiamo per trascurare quel che succede intorno a noi. Eppure, i partiti di centrodestra in Europa stanno ottenendo un successo elettorale significativo aggiornando pragmaticamente il loro appeal e cercando di posizionarsi al «centro» del sistema politico (quello che inglesi e americani chiamano «triangulation»), fuori dal solco consueto, «sopra» ed «oltre» la destra e la sinistra dello spettro politico tradizionale.

Insomma, c’è una nuova agenda conservatrice «progressista» che sta rimodellando la politica del centrodestra in buona parte d’Europa. E lo sviluppo del conservatorismo «progressista» rappresenta una sfida rilevante al tradizionale modo di pensare dei socialdemocratici. Com’è evidente soprattutto nelle strategie di governo dei partiti di centrodestra in Germania, in Svezia e nel Regno Unito, il conservatorismo «progressista» cerca di controllare il «centro» del terreno politico attraverso una reputazione di competenza economica, una rinnovata diffidenza circa il ruolo dello stato e l’efficienza del settore pubblico e la fiducia nel ruolo dei valori tradizionali nel contesto delle società contemporanee.

Policy Network, il think tank inglese, in questi mesi sta cercando meritoriamente di promuovere una migliore comprensione della nuova agenda conservatrice «progressista» tra i socialdemocratici, delineando le implicazioni elettorali per il centrosinistra e i riflessi sulle strategie per il futuro. Specie se si considera che, nei paesi avanzati, si vince con il consenso degli elettori di «centro».

Rimarrebbe da osservare che il «centro» non è un luogo geometrico da sempre e per sempre immobile, da occupare con una forza centrista e moderata che aspira al ruolo di ago della bilancia. Che non è al centro politico che bisogna guardare, ma al «centro sociale», cioè alle forze dinamiche e potenzialmente «centrali» della società. Che gli elettori di «centro» li si conquista adeguando l’offerta politica. Ogni volta. Sia in Germania sia in Gran Bretagna e in Svezia, il centro dell’elettorato è stato conquistato da partiti capaci di presentare proposte innovative dai lineamenti culturali espansivi. Ma in Italia, purtroppo, sembra fiato sprecato.

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l’Unità, 6 dicembre 2012 – La lezione della destra europea. Il centro non è dei centristi

Come si affanna a ripetere Patrick Diamond del think tank inglese Policy Network, c’è una nuova agenda conservatrice «progressista» e sta rimodellando la politica del centrodestra in buona parte d’Europa. L’implosione del centrodestra che abbiamo conosciuto in Italia (e del partito personale inventato e portato al successo da Berlusconi) rischia (comprensibilmente) di relegarla in secondo piano. Resta però il fatto che i partiti di centrodestra in Europa stanno ottenendo un significativo successo elettorale aggiornando pragmaticamente il loro appeal e cercando di posizionarsi al «centro» del sistema politico (quello che inglesi e americani chiamano «triangulation»), fuori dal solco consueto, «sopra» ed «oltre» la destra e la sinistra dello spettro politico tradizionale.

Il conservatorismo «progressista» rifiuta l’individualismo liberale degli anni 80 e, tuttavia, manifesta una rinnovata diffidenza circa il ruolo dello Stato e l’efficienza del settore pubblico; il che ha permesso ai partiti di centrodestra, specialmente ai conservatori di Cameron nel Regno Unito, alla Cdu della Merkel in Germania e ai moderati di Reinfeld in Svezia, di strappare agli avversari il «centro» del terreno politico abbracciando una nuova concezione di conservatorismo «compassionevole».

Questo drastico spostamento politico è ancora poco compreso dai partiti socialdemocratici nonostante le sconfitte elettorali degli anni recenti. La reazione istintiva è quella di contestare il nuovo atteggiamento pragmatico e compassionevole dei conservatori, ribadendo che i politici del centrodestra, al solito, sono solo dei lupi travestiti da agnelli. Tuttavia, i socialdemocratici farebbero bene a diffidare di chi tende a liquidare sbrigativamente questo nuovo approccio del centrodestra come una riedizione dell’individualismo Thatcheriano degli anni 80.  Dopo la storica vittoria dei conservatori nel 1979, la sinistra inglese ha faticato parecchio a rendersi conto del potenziale incisivo del Thatcherismo: della sua capacità di riprogettarsi come puntello di un nuovo patto tra capitale e lavoro per fermare il declino economico relativo della Gran Bretagna.

La storia può ripetersi. Il primo ministro svedese è stato l’apripista tra i politici conservatori europei. Dopo il disastroso risultato elettorale del 2002, Reinfeld ha conquistato la leadership del partito e lo ha trasformato da capo a piedi. I moderati hanno immediatamente addolcito le politiche liberali tradizionali come il taglio delle tasse e le regole pro-business, adottando programmi che hanno fatto propri il modello di welfare svedese e una nuova «work-first policy» che ha combinato tagli delle tasse per i redditi medio-bassi con tagli nei benefits per la disoccupazione e la malattia. Così Reinfled, ottenendo due vittorie elettorali consecutive nel 2006 e nel 2010, ora sfida la tradizione egemonica della socialdemocrazia nella storia svedese.

Nel suo penetrante libro sui conservatori inglesi, «The Conservative Party from Thatcher to Cameron» (Polity Press, Cambridge, 2009), Tim Bale mostra come anche i Tories hanno riscoperto le loro possibilità di vittoria ritornando al «centro». E la Cdu tedesca da tempo è propensa a svoltare a sinistra (fino a non molto tempo fa ha governato con la Spd); senza contare che la crisi finanziaria ha rafforzato la determinazione dei politici tedeschi, al di là delle divisioni politiche, di distinguere il modello tedesco dagli eccessi peggiori del capitalismo anglo-americano e dalla globalizzazione neo-liberale. Ci sono, insomma, almeno tre modelli distinti di conservatorismo «progressista» in Europa, ma, per dirla con i conservatori inglesi,  tendono tutti alla creazione di «una società in cui la forza motrice del progresso è la responsabilità sociale, non il controllo statale».

Il risultato è che i partiti conservatori del centrodestra sono più affidabili che in passato. Questa concezione del conservatorismo «progressista» raggiunge i gruppi con reddito basso e medio, abbracciando la competenza e l’idoneità a governare, piuttosto che l’ideologia. La nuova politica del conservatorismo «progressista», insomma, rappresenta una sfida rilevante ai partiti e alle ideologie di centrosinistra. Specie se si considera che, nei Paesi avanzati, si vince con il consenso degli elettori di «centro»; e gli elettori di «centro» (cioè le forze dinamiche e potenzialmente «centrali» della società) li si conquista adeguando l’offerta politica. Va da se che per far questo, bisogna definitivamente prendere atto, anche qui da noi, che il «centro» non è un luogo geometrico da sempre e per sempre immobile, da occupare con una forza centrista e moderata che aspira al ruolo di ago della bilancia.

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qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 89 del 18 dicembre 2012 – La variabile Monti

Come ha osservato domenica Renato Mannheimer sul Corriere della Sera ( Discesa in campo di Monti, sì dal 30% Più tra i votanti pd che nel Pdl), una possibile candidatura di Mario Monti nelle prossime elezioni sconvolgerebbe infatti alleanze e preferenze degli italiani: «una presenza diretta di Monti nella competizione elettorale muterebbe completamente – in positivo per alcuni, in negativo per altri – l’atteggiamento (anche emotivo e psicologico) degli elettori nei confronti dell’offerta politica. Mobilitando ad esempio, in un senso o nell’altro, i molti indecisi (la cui quantità è comunque diminuita negli ultimi giorni). Da questo punto di vista, una candidatura effettiva potrebbe rendere in qualche misura obsolete diverse delle stime ipotizzate sin qui».

Le pressioni attorno al Professore sono fortissime. E come si è visto giovedì a Bruxelles, non soltanto nazionali, a cominciare dai giornali anglosassoni come il Financial Times e l’Economist Italian politics in turmoil: Run, Mario, run»). Non resta, dunque, che attendere la decisione del Professore.

Non c’è dubbio che, come ha detto Massimo D’Alema nella sua intervista (vagamente minatoria) al Corriere della Sera ( «Il premier contro chi lo sostiene? Sarebbe moralmente discutibile»), «Monti potrà continuare a svolgere un ruolo importante per tutti noi. Prima di lasciare Palazzo Chigi potrebbe indicare quali sono le cose utili da fare per il paese e le forze politiche si misurerebbero su questo programma».  Ma – mi chiedo – c’è davvero ragione di temere la sua discesa in campo? Accantoniamo, per un momento, alcune questioni  di  fondo (ci sono davvero le condizioni per un ritorno pieno della politica «com’era prima»?) e le preoccupazioni personali su chi farebbe il premier. Che, con l’implosione del partito personale inventato e portato al successo da Berlusconi, la ristrutturazione del centrodestra italiano prenda (sul serio) a modello il Ppe («La derecha europea apadrina a Monti», scrive El País) e provi a gettare le basi, con Monti, di una formazione in qualche modo riconducibile al centrodestra europeo, ponendo un argine alle forze estreme e antieuropee e sanando l’anomalia rappresentata da Berlusconi, non è un processo che andrebbe incoraggiato nell’interesse del paese? E che l’area centro-moderata abbia una figura capace di coagulare consenso, attraendo elettori e limitando le uscite in direzione dei partiti antisistema, verso quel che resta del Pdl o verso l’astensione,non dovrebbe interessare anche il Pd? Sbaglierò, ma non trovo «illogico» e neppure «moralmente discutibile» che il Professore scenda in campo per favorire questo processo. Ma non si era detto, lamentando il bipolarismo «forzoso e incivile», che il problema fondamentale dell’Italia era l’«emergenza democratica»? Possibile che in Italia dobbiamo rassegnarci all’alternativa tra «comunisti» e «farabutti» ?

Oltretutto, mi sembra che, anche dal punto di vista del Pd, poter contare su una formazione (europea) con la quale (se occorre) allearsi e, comunque, condividere gli sforzi nel corso dei mesi che verranno, non sarebbe poi male. Specie se si considera che, in ogni caso, Berlusconi e Lega potrebbero aggiudicarsi il premio regionale (al Senato) in Veneto e Lombardia e, dunque, non è affatto detto che ci sia una maggioranza in quella camera. Tutto considerato, un Pd che potrebbe vincere le elezioni, e che dovrebbe guardare al buon funzionamento del sistema, ha interesse ad avere di fronte un centro solido e non frammentato, con cui poi collaborare.

Non per caso, gli osservatori rilevano una più accentuata presenza di favorevoli alla possibile candidatura di Mario Monti non solo nell’elettorato dell’Udc, «ma anche in quello stesso del Pd: quasi metà (44%) dei votanti per il partito di Bersani dichiara di auspicare la candidatura del Professore, nonostante il parere contrario del segretario».

Del resto, da tempo il Presidente Napolitano non fa che ripetere che «l’Italia non può ritrovare la sua strada in un clima di guerra politica» e non perde occasione per ribadire che «è indispensabile un riavvicinamento tra i campi politici contrapposti, il che non significa confondersi, non significa rinunciare alle rispettive identità, ma significa condividere gli sforzi che sono indispensabili per riaprire all’Italia una prospettiva di sviluppo e anche per ridare all’Italia il ruolo e il prestigio che le spetta nella comunità europea e nella comunità internazionale».

Lo ha sintetizzato Sergio Fabbrini qualche tempo fa sul Sole 24 Ore (Riconoscere le priorità ): «se l’Italia vuole crescere di nuovo, allora la competizione tra leader e partiti, pur dura, dovrà basarsi sul comune riconoscimento dei problemi strutturali che dobbiamo risolvere». L’Italia non può sopravvivere mantenendo lo status quo (che equivale alla legittimazione del nostro declino morale oltre che economico: alti tassi di disoccupazione giovanile, alti tassi di non-occupazione femminile, alti tassi di corruzione pubblica e privata, alti tassi di fiscalità sulle imprese e sul lavoro, alti tassi di evasione fiscale, ecc.); e, per tornare a crescere, non basteranno, misure contingenti e di breve periodo. Non basterà, come direbbe Bersani, «stringere i bulloni». Per risolvere i nostri guai c’è bisogno di un’azione continuativa per almeno una legislatura e bisognerà mettere in discussione interessi consolidati, rendite di posizione, corporativismi diffusi. «Come in guerra – scrive Fabbrini – nell’Italia di oggi la lealtà reciproca tra le principali forze politiche è una necessità, non già un’opzione». Anche perché l’Italia non potrà ritornare a crescere senza un sistema decisionale riformato; senza cioè mettere mano finalmente ad un sistema istituzionale slabbrato e farraginoso.

In fondo, come ha scritto Mark Gilbert su Foreign Affairs ( Mario Monti and Italy’s Generational Crisis), «the real question facing Italy, then, is not whether “Super Mario” can save Italy but whether any non-technocratic government can continue his work».

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GIORNALI2012

Messaggero Veneto, 30 dicembre 2012 – Maran: «Non sarebbe male per i democratici collaborare con Monti»

Dunque, Mario Monti «sale» in politica, impegnandosi direttamente nella sfida delle urne. Ma, mi chiedo, che ragione c’è di temere la «salita in politica» di Monti? Accantoniamo, per un momento, alcune questioni fondamentali e le preoccupazioni personali su chi farebbe il premier. Che, con l’implosione del partito personale inventato e portato al successo da Berlusconi, la ristrutturazione del centrodestra italiano prenda (sul serio) a modello il Ppe e provi a gettare le basi, con Monti, di una formazione in qualche modo riconducibile al centrodestra europeo, ponendo un argine alle forze populiste e antieuropee e sanando l’anomalia rappresentata da Berlusconi, non è un processo che andrebbe incoraggiato nell’interesse del paese? E che l’area moderata abbia una figura capace di coagulare consenso, attraendo elettori e limitando le uscite in direzione dei partiti antisistema, verso quel che resta del Pdl o verso l’astensione, non dovrebbe interessare anche il Pd? Sbaglierò, ma non trovo «illogico» e neppure «moralmente discutibile» che il Professore scenda in campo per favorire questo processo. Ma non si era detto, lamentando un bipolarismo «forzoso e incivile», che il problema fondamentale dell’Italia era l’«emergenza democratica»? Possibile che in Italia dobbiamo rassegnarci all’alternativa tra «comunisti» e «farabutti»? Oltretutto, mi sembra che, anche dal punto di vista del Pd, poter contare su una formazione (europea) con la quale (se occorre) allearsi e, comunque, condividere gli sforzi nel corso dei mesi che verranno, non sarebbe poi male. Specie se si considera che, in ogni caso, Berlusconi e Lega potrebbero aggiudicarsi il premio regionale (al Senato) in Veneto e Lombardia e, dunque, non è affatto detto che ci sia una maggioranza in quella Camera. Tutto considerato, un Pd che potrebbe vincere le elezioni, e che dovrebbe preoccuparsi del buon funzionamento del sistema, ha interesse ad avere di fronte un centro solido e non frammentato, con cui poi collaborare. Specie se si considera che le indicazioni dell’«agenda per un impegno comune» presentata da Mario Monti sono certamente compatibili con gli orientamenti programmatici di un grande partito europeo di centrosinistra quale è il Pd. Non per caso, gli osservatori rilevano una più accentuata presenza di favorevoli alla possibile candidatura di Mario Monti non solo nell’elettorato dell’Udc, «ma anche in quello stesso del Pd: quasi metà (44%) dei votanti per il partito di Bersani dichiara di auspicare la candidatura del professore». Del resto, da tempo il presidente Napolitano non fa che ripetere che «l’Italia non può ritrovare la sua strada in un clima di guerra politica» e non perde occasione per ribadire che è indispensabile un riavvicinamento tra i campi politici contrapposti, il che non significa confondersi, non significa rinunciare alle rispettive identità, ma significa condividere gli sforzi che sono indispensabili per riaprire all’Italia una prospettiva di sviluppo e anche per ridare all’Italia il ruolo e il prestigio che le spetta nella comunità europea e internazionale.

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