Monthly Archives: Mar 2017

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Danzando nella pioggia

Un senso di smarrimento, si sa, accomuna l’Occidente scontento. In Europa e in Nord America, la gente ha la sensazione che il mondo stia rotolando inesorabilmente lungo una brutta china, ma non riesce a capire perché. Non c’è nessuna «narrazione». Da qui il fascino di leader che «dicono le cose come stanno» e identificano comodi capri espiatori, come gli immigrati oppure l’Unione europea. Ma quel che la maggior parte della gente vorrebbe è un’onesta spiegazione. Come con i pazienti sul lettino dello psicanalista, il primo passo è quello di capire cos’è che sta andando per il verso sbagliato. Poi si può decidere la terapia.

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La politica del giusto-messaggio-da-dare si sostituisce alla politica delle-giuste-cose-da-fare?

«Il più grande regalo al nulla grillino è sostituire la “politica delle giuste cose da fare” con la politica del “giusto messaggio da dare”». Lo scrive Claudio Cerasa nel suo «appello per evitare un disastro possibile»: «il problema è che oggi – oggi che i partiti moderati a vocazione europea mostrano viceversa di avere buoni anticorpi per difendersi dall’onda dei movimenti anti sistema – in Italia molti importanti politici sembra che abbiano deciso di conquistare i voti della parte indignata del paese più con la logica del grillismo che con la logica del riformismo. Come ha scritto ieri su Facebook il nostro geniale amico Guido Vitiello, “la lungimirante strategia di tentare di ammansire le belve pascendole con una libbra di carne al giorno ha dato risultati eccellenti: una magistratura i cui poteri sono incompatibili con qualunque assetto democratico e un partito di parafascisti intorno al 30 per cento. Però continuano così”. Prendetelo come un piccolo appello: fate presto, non fate Grillo».

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IL VOTO SU MINZOLINI

Il gruppo del Pd ha dato libertà di coscienza ai suoi senatori. E Pietro Ichino ha spiegato ieri le ragioni del voto di molti di noi che, a rischio di impopolarità, non hanno votato per la decadenza perché convinti che ci fosse un fumus persecutionis (leggi l’editoriale telegrafico con cui Ichino ha motivato il suo voto).

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GIORNALI2017

Messaggero Veneto, 12 marzo 2017 – CON RENZI ROTTAMIAMO I TABÙ ITALIANI

Si è detto che chi lascia il Pd lo fa per salvarsi il posto e che D’Alema vuole vendicarsi di Renzi perché non è diventato commissario europeo, ma non é vero. Anche «personalizzare» su Renzi (se dovesse perdere, allora rientrano tutti) non è che un pretesto.

Il vero motivo della scissione sta, in realtà, in un radicale dissenso sulla natura del Pd. Sono sempre esistite due sinistre e tuttora ci sono due punti di vista diversi su cosa sia la sinistra in Italia (e non solo in Italia). Per D’Alema e Bersani, doveva essere l’ennesima metamorfosi del Pci, a cominciare dalla forma-partito, basata sulla mediazione al «centro» piuttosto che sulla competizione tra proposte alternative, e su un gruppo dirigente sostanzialmente inamovibile, che si rinnova lentamente e solo per cooptazione. È, appunto, lo schema sul quale si è sempre retto il Pci: un gruppo dirigente addensato al centro (Berlinguer) e posizioni tollerabilmente eterodosse verso destra (Napolitano) e verso sinistra (Ingrao) che venivano sintetizzate dal gruppo dirigente centrale. Renzi ha avuto il merito storico di prendere sul serio il nuovo modello di partito voluto da Veltroni e di farlo vivere non solo negli statuti, ma nella prassi quotidiana. Un modello aperto e competitivo che si fonda su due principi, vocazione maggioritaria e contendibilità di tutte le cariche, e che D’Alema e soci considerano a tal punto inaccettabile da tentare, con la scissione, di farlo a pezzi.

La scissione ha, dunque, a che fare con l’identità stessa della sinistra italiana. Non c’è dubbio, infatti, che Matteo Renzi abbia ripreso le idee-chiave della sinistra liberale e che con queste idee abbia sfidato la vecchia «ditta». Del resto, se oggi l’Italia cresce meno degli altri paesi non è perché il Pd non è unito, ma perché non è sufficientemente attrezzato per dare all’Italia la spinta che servirebbe sulle riforme pro-mercato per accrescere produttività e concorrenza. Il segretario dimissionario ha trascinato il Pd nel solco della tradizione liberale e ha cercato di raccogliere i voti degli elettori attraverso il superamento di una serie di tabù che per decenni hanno immobilizzato la sinistra italiana. Una parte della sinistra del partito considera, tuttavia, la trasformazione renziana, un tradimento dei valori tradizionali della sinistra «autentica». Insomma, il Pd vuole esprimere la sinistra riformista di governo. Il che significa che il suo obiettivo essenziale è quello di governare e che, in questo modo, vuole rendere efficace e democraticamente verificabile la propria azione. L’obiettivo di quanti dicono di voler cacciare Renzi è invece quello di disfare un partito così combinato e l’idea stessa di una «sinistra di governo» per tornare a una sinistra che mette al di sopra di tutto la propria «integrità»; che si affida, cioè, alla «identità» e rifiuta di assumere il governo come terreno di verifica della propria azione. Il che, ovviamente, nega la possibilità stessa del riformismo.

Non per caso, al contrario di quel che hanno fatto Bill Clinton, Tony Blair e Gerhard Schröder, rompendo tabù e cinghie di trasmissione (a cominciare dal sindacato), rinunciando alla rendita di consolidati bacini elettorali e mettendo in discussione le vecchie identità, nel Pd l’ala veterostatalista ha preso il sopravvento e ha scelto di usare la crisi finanziaria e politica per tornare alle vecchie certezze sul ruolo dello stato in economia, sulle modalità di regolamentazione del mercato del lavoro e su parecchie altre cose. Ed è stato Renzi, in questi anni, a ridare alla sinistra la possibilità di liberarsi dalle catene del post comunismo. Resto convinto che la sinistra (soprattutto in Italia) abbia bisogno di una «rivoluzione riformista» e non di una «rivoluzione socialista». Per questo, ho appoggiato il progetto innovativo di Veltroni, ho sostenuto lo sforzo riformatore di Monti e, per le stesse ragioni, ho visto nell’ascesa di Renzi alla guida del Pd un antidoto all’immobilismo anti-riformista del Pd di Bersani.

Se essere di sinistra significa, come credo, avere a cuore la condizione dei più deboli, allora è di sinistra una politica che aiuti gli ultimi a migliorare la propria situazione, scardini le posizioni di rendita. E la sinistra dovrebbe intestarsi la battaglia per l’inclusione sociale, il progresso e la creatività. Ho preso la tessera del Pd per appoggiare Matteo Renzi. Non per rottamare le persone, ma per rottamare i tabù del paese.

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CON RENZI ROTTAMIAMO I TABÙ ITALIANI – Messaggero Veneto, 12 marzo 2017

Si è detto che chi lascia il Pd lo fa per salvarsi il posto e che D’Alema vuole vendicarsi di Renzi perché non è diventato commissario europeo, ma non é vero. Anche «personalizzare» su Renzi (se dovesse perdere, allora rientrano tutti) non è che un pretesto.

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PRIMAVERA 2017: L’EUROPA AL BIVIO – Convegno – 15 Marzo 2017, ore 18.30, via Angelo Brunetti, Roma

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GIORNALI2017

Il Foglio, 10 marzo 2017 – Lettera al direttore

La campagna per le primarie sta per iniziare. Tra poche ore, Matteo Renzi aprirà i lavori della kermesse del Lingotto di Torino (dove tutto è cominciato dieci anni fa con Veltroni) che fino a domenica impegnerà i 12 tavoli tematici nella scrittura della mozione congressuale, che diventerà l’ossatura del programma di governo. Il mio punto di vista (sintetico) sul Foglio di oggi:

 

Al direttore – Mai avuto dubbi. Ho appoggiato il progetto innovativo di Veltroni, ho sostenuto lo sforzo riformatore di Monti e, per le stesse ragioni, ho visto nell’ascesa di Matteo Renzi alla guida del Pd un antidoto all’immobilismo antiriformista del Pd di Bersani. Si può pensare quel che si vuole di Matteo Renzi ma non c’è dubbio che abbia ripreso le idee-chiave della sinistra liberale e che con queste idee abbia sfidato la vecchia “ditta”. Non è un mistero per nessuno che, al contrario di quel che hanno fatto Bill Clinton, Tony Blair e Gerhard Schröder, rompendo tabù e cinghie di trasmissione (a cominciare dal sindacato), rinunciando alla rendita di consolidati bacini elettorali e mettendo in discussione le vecchie identità, nel Pd l’ala veterostatalista ha preso il sopravvento e ha scelto di usare la crisi finanziaria e politica per tornare alle vecchie certezze sul ruolo dello stato in economia, sulle modalità di regolamentazione del mercato del lavoro e su parecchie altre cose. Ed è stato proprio Matteo Renzi, in questi anni, a restituire alla sinistra la possibilità di liberarsi, come direbbe Claudio Cerasa, dalle catene del post comunismo. Senza contare che sarebbero bastati gli interventi che ho ascoltato nell’ultima riunione della Direzione (che hanno chiesto a gran voce il ripudio del pareggio di bilancio, invocato più stato in economia, lanciato l’anatema sulle privatizzazioni, ecc.) a dissolvere ogni dubbio eventuale. E, come Biagio De Giovanni, ho preso la tessera del Pd per appoggiare Matteo Renzi e, ovviamente, ho sottoscritto la piattaforma per la sua candidatura.

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Lingotto al via

La campagna per le primarie sta per iniziare. Tra poche ore, Matteo Renzi aprirà i lavori della kermesse del Lingotto di Torino (dove tutto è cominciato dieci anni fa con Veltroni) che fino a domenica impegnerà i 12 tavoli tematici nella scrittura della mozione congressuale, che diventerà l’ossatura del programma di governo. Il mio punto di vista (sintetico) sul Foglio di oggi:

Al direttore – Mai avuto dubbi. Ho appoggiato il progetto innovativo di Veltroni, ho sostenuto lo sforzo riformatore di Monti e, per le stesse ragioni, ho visto nell’ascesa di Matteo Renzi alla guida del Pd un antidoto all’immobilismo antiriformista del Pd di Bersani.

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Happy International Women’s Day 2017!

Il volume raccoglie i racconti più belli di Edna O’Brien, «una delle scrittrici più raffinate del nostro tempo». Scrive John Banville nell’introduzione al volume, che «qui, come spesso altrove, Edna O’Brien lamenta la condizione delle sue donne ferite e allo stesso tempo ne celebra l’esuberanza, la generosità e, in definitiva, lo spirito indomito». Happy International Women’s Day!

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GIORNALI2017

Stradeonline.it, 07 marzo 2017 – IL MONDO DI LENNON CONTRO IL MONDO DI BANNON, LA FRATTURA CHE DIVIDE L’OCCIDENTE

Se c’è una cosa che oggi unisce America ed Europa, questa è senza dubbio la profonda frattura che attraversa entrambe le società. Si tratta di uno scontro ideologico interno all’Occidente, che riguarda, in sostanza, in che mondo vorremmo vivere. Secondo il giornalista tedesco Jochen Bittner, editorialista di Die Zeit, si sfidano il «mondo di Lennon» e il «mondo di Bannon».

Il mondo di Lennon è quello dei liberal cosmopoliti, descritto da John Lennon nella sua più celebre canzone, «Imagine» («Imagine there’s no countries», cantava infatti l’ex Beatle, «a brotherhood of man»). Il mondo di Stephen K. Bannon, il giornalista e cineasta americano, chief strategist del presidente Trump, è invece l’opposto: un posto fatto di barriere e prescrizioni e guidato da figure autoritarie e intransigenti. Nelle città americane e in buona parte dell’Europa il mondo di Lennon è già una realtà e sono stavolta i sostenitori del mondo di Bannon a volere la rivoluzione.

Per i lennonisti, i confini sono concetti artificiali. Ogni essere umano ha il diritto di vivere dovunque lo desideri. Ed anche le merci devono potersi spostare liberamente: il libero scambio avvantaggia tutte le nazioni che vi prendono parte; promuove la ricchezza e la costruzione di reti transnazionali e, dunque, la pace. Le élite devono solo sforzarsi di convincere gli incerti, che ignorano il meccanismo che governa oggi un mondo sempre più interconnesso. I lennonisti credono inoltre che la religione non debba dividere l’umanità, che l’Islam sia una religione di pace e che debba essere distinta nettamente dall’Islamismo, un concetto politico. Perciò, vietare l’ingresso ai musulmani è una smaccata violazione dei diritti umani.

Anche il ruolo delle donne è un punto di scontro. Il «soffitto di cristallo» resta una barriera e gli uomini sono così abituati ad esercitare un dominio politico, economico e culturale che non riescono ad ammettere neppure la loro egemonia. Ecco perché il femminismo rimane un movimento di emancipazione legittimo e necessario. Infine, l’Unione europea è la più alta espressione di tutti questi principi e lo strumento per promuoverli. Chiunque attacchi l’Unione, perciò, attacca la pace, il progresso ed il benessere.

Per i bannonisti, invece, sono proprio i confini a permettere alle nazioni di esprimere la loro identità culturale. Dunque, il libero movimento delle persone (e delle merci) deve essere bilanciato con questo interesse. Anche il bannonismo è perlopiù secolarizzato (sebbene conceda uno spazio maggiore alla tradizione giudaico cristiana), la differenza sta nella convinzione che l’Islam non sia una religione, ma piuttosto una aggressiva ideologia anti-occidentale, intollerante e illiberale, dedita alla conquista mondiale. Ne consegue, perciò, che il divieto all’immigrazione musulmana è giustificato.

Ma il bannonismo è anche una critica del lennonismo. Ritiene che, dopo il crollo del Muro di Berlino, le élite liberali abbiano trascurato gli interessi legittimi dello Stato nazione; continuino a prendere sottogamba le distinzioni tra uomini e donne e abbiano confuso l’eguaglianza con la parità. Il femminismo, per i bannonisti, è una ideologia polarizzante costruita sull’allucinazione che le società occidentali siano ancora patriarcali e gli uomini siano nemici delle donne. Manco a dirlo, per i bannonisti, l’Unione europea incarna tutto quel che oggi non va nell’Occidente.

La disputa è in corso dappertutto. E si sa che quest’anno ci attendono elezioni cruciali in Olanda, in Francia e in Germania. Anche in Germania, una destra bannonista in ascesa si è posizionata sia contro i socialdemocratici di centro-sinistra, sia contro i cristiano democratici di centro-destra (entrambi propendono per una versione della visione del mondo di Lennon). Ma, stando al giornalista tedesco, qualche differenza c’è. Diversamente dall’Olanda e dalla Francia, in Germania il centrosinistra è robusto; e a differenza degli Stati Uniti, il centro-destra non ha interesse a cooptare o a farsi rimpiazzare dall’estrema destra. Inoltre, i tedeschi hanno fatto tesoro delle esperienze americane ed inglesi dello scorso anno; e certamente, snobbare la base elettorale dell’estrema destra, bollandola come «deplorable», è stato un errore (politico e morale).

In un modo o nell’altro, sostiene Bittner, bisogna trovare un compromesso tra due visoni, entrambe insostenibili. In altre parole, c’è una via di mezzo? Detta altrimenti, occuparsi e indennizzare i loser, coloro che nei mutamenti prodotti dalla globalizzazione, almeno temporaneamente, ci perdono, è l’unico modo per alleviare uno smarrimento e un’angoscia che, nella transizione, possono colpire tutti e che possono generare mostri. Vale anche per quanti di noi ritengono che l’Italia abbia bisogno di riforme (sul Foglio del 12 gennaio dello scorso anno, avevamo appunto indicato, in una lettera aperta, cinque priorità «per neutralizzare la paura della globalizzazione e spingere la crescita».

Angela Merkel, che stavolta si propone (per la quarta volta) come un antidoto al Trumpismo, ha detto chiaramente di volere risparmiare alla Germania le crisi che questo scontro ha già prodotto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Nella sua prima intervista della campagna elettorale ha detto infatti: «Non vogliamo odiarci l’un l’altro, vorremmo discutere democraticamente». Ed ha aggiunto: «La domanda è ‘che cosa possiamo fare per la coesione di una società così polarizzata?’».

La risposta non è ancora chiara. Ma nel candidato socialdemocratico, Martin Schulz (ex presidente del Parlamento europeo), la cancelliera tedesca sembra aver finalmente trovato un rivale con il quale dar vita precisamente a quella «conversazione» di cui lennonisti e bannonisti hanno bisogno. Pressati dalla destra populista, i due partiti dell’establishment non si contendono più il controllo dello stesso spazio sicuro al «centro» della società tedesca e stanno cercando di rivolgersi ad una platea più ampia di elettori. Nei prossimi mesi, secondo Bittner, bisogna aspettarsi una linea più dura del governo sull’immigrazione clandestina per contenere gli effetti della politica dei confini aperti della Merkel; un dibattito sul modo di sanare le fratture sociali ed economiche create dalla europeizzazione; e una rifocalizzazione su quella parte dell’elettorato che si sente lasciata indietro da un dibattito politico che si è occupato troppo di questioni come il gender e troppo poco di questioni pressanti come la carenza di alloggi.

Sia Merkel che Schulz condividono, infatti, la necessità di sviluppare un sentimento di appartenenza nazionale senza ricorrere alla retorica nazionalistica e antagonistica del tipo «Germany first». Anche perché una piccola dose di identità politica potrebbe offrire ai giovani musulmani un «rifugio» più attraente di quello offerto dall’Islam politico.

Va da sé che la Brexit, il presidente Trump e l’estrema destra europea continueranno ad agitare le acque. Ma sembra che un po’ alla volta si stia facendo strada anche un promettente dialogo dal «centro»: una attenzione alla disuguaglianza e all’ingiustizia domestiche e un impegno concreto a rafforzare quelli che si sentono lasciati indietro. È su questo terreno che Hillary Clinton sembra aver fallito, permettendo ai bannonisti di occupare Washington. Ma la sfida è appena iniziata. E un match importante si svolgerà in Germania.

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