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Il Piccolo, 9 maggio 2010 – Maran: giustizia? Lo scandalo è la carcerazione preventiva

Il vicecapogruppo del Pd solleva il caso Scaglia: «Detenzione inaccettabile»

di FABIO DORIGO

 «Per trovare una magistratura con prerogative simili bisogna considerare quella iraniana». La frase, nero su bianco, è apparsa in una lettera al Foglio. Il copyright non è berlusconiano. L’autore, stando alla libera titolazione del quotidiano di Giuliano Ferrara, è un «giovane capo del Pd» che «interviene con libertà di tono sulla giustizia e sul caso Scaglia». Il nome è quello del deputato isontino Alessandro Maran, vicepresidente dei deputati del Pd, che ha sollevato il caso di Silvio Scaglia, l’ex amministratore delegato di Fastweb, in carcere ”preventivo” da 71 giorni 17 ore e 2 minuti e 6 secondi (dato aggiornato alle 19 di ieri sul sito www.silvioscaglia.it) nell’ambito dell’inchiesta su un presunto maxi riciclaggio di circa 21 miliardi di euro. «Una detenzione ingiustificata e per certi versi anche scandalosa» certifica Maran.
Perchè sollevare ora il caso Scaglia?
È l’occasione per porre una questione centrale: quella della custodia cautelare.
In che senso?
Il 50% dei nostri detenuti sono in attesa di giudizio. È una cosa che non sta né in cielo, né in terra.
Nasce da qui l’emergenza carceri…
Affrontare la questione della detenzione preventiva significa affrontare di petto la questione del sovraffollamento incivile delle carceri italiane. E soprattutto farlo senza toccare il nodo dell’effettività della pena.
Cioè senza mettere mano ad altri indulti?
Esatto. Bisogna stare in carcere quando c’è la condanna. Non si tratta di condonare niente.
Si dice che il grado di civiltà di un Paese si misura dalle condizioni delle sue carceri…
Sono d’accordo. La nostra è una vergogna nazionale.
C’è quindi un abuso di carcerazione preventiva?
I dati dicono questo. C’è un uso indiscriminato.
Nel caso di Scaglia, che si è pure consegnato volontariamente ai giudici, effettivamente c’è poco da aver fiducia nella magistratura…
La magistratura deve avere la possibilità di condannarlo. Non si deve stare dentro in assenza di condanna.
Recentemente il presidente Napolitano ha invitato la magistratura ad una «seria riflessione critica su se stessa».
Il discorso va fatto a livello generale. È nell’interesse di tutti che la Giustizia funzioni.
La sua lettera sembra però dare ragione ai fantasmi di Berlusconi?
Berlusconi non è interessato a una vera riforma della giustizia. Punta solo a risolvere alcuni dei suoi problemi. Si limita ad esibire all’opinione lo sfascio della giustizia per alimentare il suo vittimismo.
I tempi della Giustizia italiana non sono però difendibili..
Sono come quelli del Gabon. Con una differenza però…
Quale?
Che l’Italia spende per la Giustizia più dell’Olanda, della Svezia e della Germania. E non è colpa della magistratura…
… anche se in Italia ha più poteri che in Iran?
Lo sostiene uno studioso come Carlo Guarnieri.
Un riequilibrio necessario…
Il nodo è quello della responsabilità. Chi esercita un grande potere deve avere una grande responsabilità.

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l’Unità, 14 maggio 2010 – Il problema purtroppo non è più Berlusconi: è come aiutare il Paese

l’Unità,14.05.10.pdf

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Europa, 3 giugno 2010 – Insisto: difendo i parlamentari

Una decina di giorni fa, dopo che i giornali avevano dato rilievo al presidente della camera Gianfranco Fini che stigmatizzava la settimana cortissima dei lavori parlamentari, come parlamentare avevo deciso di mettere un post sul mio blog. Mi domandavo, sollecitato anche da mia moglie, come venisse percepito il mio impegno a Montecitorio di fronte ai continui attacchi all’istituzione parlamento da parte dei media e, in quel momento, anche da parte del suo presidente. Per cercare di dimostrare che non siamo tutti fannulloni o membri della cricca o ricchi sfondati raccontavo del lavoro di un deputato (che non si esaurisce nel voto in aula, ma comprende gli impegni in commissione o nel territorio dove incontriamo e ascoltiamo la gente che poi ci dà o ci nega il voto persino in queste camere di comandati) e, per maggiore trasparenza, aggiungevo anche l’ammontare del mio stipendio e il contributo che verso al mio partito, il Pd, sottolineando anche di essere un privilegiato rispetto a moltissimi italiani sottopagati o disoccupati.
Quelle righe volevano essere anzitutto un monito per tutti: come si può pensare (lo chiedo anzitutto ai nostri leader) di conservare e addirittura rafforzare la democrazia parlamentare se oggi sputare addosso ai parlamentari e al parlamento è diventato uno sport nazionale? È chiaro che, di questo passo, Berlusconi otterrà il presidenzialismo (quello sudamericano, naturalmente) per acclamazione. Certo che si deve riformare il parlamento (noi proponiamo infatti di dimezzare il numero dei parlamentari), ma smettiamo di denigrare la democrazia rappresentativa e il bilanciamento che anche queste nostre camere fanno a un esecutivo che la fa già da padrone, ma che potrebbe spingersi molto più in là. Berlusconi se la gode ogni volta che il parlamento e chi lo popola è sotto accusa. E molti vorrebbero che queste Aule fossero occupate soltanto dai ricchi, che si tornasse a quelle sabaude, formate da conti e da marchesi, da qualche vescovo e dai presidenti degli ordini professionali.
Sono finito in un articolo di Repubblica a far da chiusura a un’inchiesta in cui si parlava di tagli agli emolumenti degli onorevoli. Il mio allarme sulla concreta minaccia di un presidenzialismo sudamericano, è diventata la difesa del mio stipendio e non dell’istituzione nella quale sono orgoglioso (visto che vengo “dal basso”) di portare le istanze di chi mi ha dato fiducia. E sono finito nel tritacarne del web e nella cronaca dei giornali locali, che si sono alimentati a vicenda.
Amarezza a parte, trovo che il problema sia molto serio. Da quant’è che il carattere compromissorio dell’ordinamento parlamentare, la sua lentezza in fatto di decisioni e, più in generale, quel che accade «dentro il parlamento», sono additati al disprezzo dell’opinione pubblica? Sia chiaro: quel che è avvenuto in questi anni (a partire dalla dissoluzione del vecchio sistema dei partiti) non è un incidente di percorso e da tempo la premiership è diventata la vera e fondamentale posta in gioco. Non credo neppure che il parlamentarismo limitato, il sistema tedesco (specialmente se «alle vongole ») o la riduzione dei parlamentari possano bastare: too late, too little; e penso che dovrebbe essere il centrosinistra ad avanzare e precisare il tema del presidenzialismo (visto che bisogna ricostruire il sistema dei checks and balances tra poteri e istituzioni dello stato) come complemento necessario dell’Italia federale.
Ma resto dell’idea che il parlamento non sia soltanto un costo. Nonostante le contraddizioni, i ritardi e gli errori, l’Italia repubblicana è riuscita non solo a conservare la democrazia, ma a consolidarla, garantendo oltre 50 anni di pace, di sviluppo e di progresso come mai nella storia della penisola. Basterebbe questa constatazione a ricordare la superiorità della democrazia rappresentativa rispetto a qualsiasi altra forma di regime politico.
E resto dell’opinione che quando i mezzi di informazione avranno finito di raccontare che siamo tutti quanti, senza distinzione alcuna: inutili/fannulloni/ truffatori/puttanieri, non basterà un editoriale o qualche mail a rimettere tutto a posto. L’ultima volta che il parlamento è stato chiuso (un intervento sul mio blog ha ricordato le invettive che l’ala extraparlamentare ha sempre lanciato contro il “cretinismo parlamentare” dei traditori corrotti della classe operaia), per riaprirlo è corso molto sangue e il paese è stato ridotto in macerie.

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www.repubblica.it, 21 Giugno 2010 – Allarme per il farmaco che stoppa la calvizie Il Pd: “Perché Fazio non risponde?”

LA DENUNCIA

di Adele Sarno

La denuncia in un’interrogazione parlamentare di Alessandro Maran: “In molti Paesi segnalati rischi di effetti collaterali tra i quali il cancro al seno maschile”. E il deputato Pd spiega perché il foglietto illustrativo della molecola andrebbe rivisto anche in Italia.

 

Promette di arrestare la caduta dei capelli negli uomini. Ma, a quanto pare, il finasteride stimola anche la crescita del seno maschile. Tanto che le agenzie di farmacovigilanza inglese e svedese hanno imposto che nella lista delle avvertenze interne al foglio illustrativo del farmaco venissero inseriti i rischi di cancro al seno maschile dopo la cessazione del trattamento (scarica il documento della MHrA). Ma in Italia il cosiddetto ‘bugiardino’ è rimasto come era. Per questo il parlamentare Pd Alessanro Maran in un’interrogazione del 30 marzo 2010 ha invitato il ministro della Salute, Ferruccio Fazio, ad affrontare la questione. Ma la richiesta è rimasta inascoltata. E così in Italia questa molecola in grado di contrastare la calvizie (ma anche il cancro alla prostata e l’ipertrofia benigna), approvata nel 1992 negli Usa e in commercio nel nostro Paese dal 1997, continua a scatenare le reazioni di giovani. Che, pur assumendola su indicazione medica, lamentano effetti invalidanti dal profilo sessuale, fisico e mentale.

Onorevole Alessandro Maran, perché ha presentato un’interrogazione sul finasteride al ministro della salute Ferruccio Fazio?

“Vorrei richiamare l’attenzione sull’argomento, perché molti giovani consumano la Propecia (il nome commerciale del finasteride) senza conoscerne gli effetti collaterali. Pensano di stoppare la calvizie e, invece, possono andare in contro al cancro al seno. Ma il Ministro Fazio non risponde. Che un’interrogazione resti inascoltata non è una novità, ma questa volta in gioco c’è la salute. Non è un caso che da qualche mese a questa parte un numero crescente di giovani sta segnalando all’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) effetti collaterali irreversibili sulla salute sessuale e psico-fisica dopo aver usato il Propecia, un prodotto disponibile ai consumatori italiani da ormai più di dieci anni”.
Pensa che siano sufficienti le dichiarazioni di alcuni ragazzi per sollevare la questione?
“Le segnalazioni dei giovani e degli operatori sanitari all’AIFA non sono l’unico segnale di allarme. La possibilità di effetti collaterali irreversibili correlati al consumo di Propecia è già stata segnalata dagli organismi preposti della Svezia della Gran Bretagna che nel 2009, dopo alcune indagini mirate, hanno imposto alla compagnia produttrice Merck Sharp & Dohme di aggiungere, nella lista delle avvertenze interne al foglio illustrativo del farmaco, i rischi di cancro al seno maschile. Sebbene il foglio illustrativo italiano del Propecia ne evidenzi il profilo di sicurezza e precisi che i rari effetti collaterali sulla sfera sessuale scompaiono con la cessazione dell’uso non mancano le voci contrarie che provengono, in particolare, dagli Stati Uniti. Basti pensare che il dottor Michael Irwig, endocrinologo della George Washington University, ha da poco avviato il primo studio clinico mirato a reperire nuove conoscenze per medici e pazienti in merito ai problemi permanenti provocati dal Propecia sulla sessualità dei giovani”.
Come mai in Italia il problema non si affronta?
“È probabile che questa difficoltà a riconoscere il problema derivi dall’assenza di letteratura scientifica in materia e dall’attuale impossibilità di stabilire un nesso causale tra l’assunzione del prodotto e le debilitate condizioni di salute di questi ragazzi, talvolta contestualmente afflitti da difficoltà erettili, perdita della libido, prostatiti, ansia estrema, depressione, tremori, confusione mentale, spossatezza fisica e dolori muscolari”.
In Italia, invece, non è stato fatto nulla, né una modifica delle informazioni sinora note sul prodotto, né tantomeno un’azione a tutela dei consumatori.
“Il Ministro della Salute deve rispondere. Spieghi per quale motivo l’Agenzia Italiana del Farmaco continua a ricevere comunicazioni di reazioni avverse irreversibili al Propecia e, soprattutto, che cosa può fare per evitare che ne arrivino ancora. Chiarisca quali iniziative intende avviare per tutelare i giovani dal rischio di compromettere gravemente la loro salute”.

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Europa, 20 luglio 2010 – Cercando un altro welfare

Nei giorni scorsi, a Bagni di Val Masino, nell’ambito di un convegno organizzato da Libertà Eguale, ho introdotto il dibattito «Democratici e progressisti nel mondo e in Europa di fronte alle grandi sfide del cambiamento » con una lunga relazione, come si conviene a incontri nei quali si cerca di mettere meglio a fuoco o addirittura di «produrre» quell’idea generale nuova che è la ragione della nascita del Pd.
Provo a soffermarmi su uno dei tanti punti che ho toccato, tentando di superare, con un esempio concreto, la domanda che ci divide nelle risposte: siamo o non siamo socialdemocratici? La nomina di Massimo D’Alema a presidente della Fondazione europea progressista (Feps) ha scatenato una disputa che continuerà a far brontolare ancora a lungo la costola cattolica del Pd. Anche questa volta però la socialdemocrazia è (per dirla con Giuseppe Berta) una «metafora»: in assenza di qualunque autentica distinzione sui contenuti concreti delle politiche da realizzare, rifiutare di diventare socialdemocratici ha solo il significato di esprimere contrarietà ad accettare una leadership e una forma politica derivate dalla storia del Pci-Pds-Ds (la cui cultura era peraltro lontanissima da quella della socialdemocrazia). Ma la crisi di strategie e di idee che attraversa i partiti socialisti e socialdemocratici è esattamente la stessa che attraversa il partito di centrosinistra italiano; e difficilmente il Pd potrà trovare la sua strada isolandosi dai partiti che oggi sono in tutta Europa, partiti di centrosinistra, come il Pd. Il problema, semmai, per loro come per noi, sono le politiche. «E da questo punto di vista, la difficoltà è comune – ha scritto Claudia Mancina – comune è la ricerca, e le soluzioni, se ci saranno, saranno probabilmente abbastanza simili. A meno che non vogliamo rinchiuderci in una dimensione nazionale, una cosa palesemente assurda di questi tempi».
Vengo a un esempio. Si è detto da più parti che la funzione storica della socialdemocrazia sta proprio nella difesa e nello sviluppo del sistema del welfare, anche attraverso nuove forme istituzionali. Non sottovaluto l’apporto delle formazioni cristiane europee alla costruzione del welfare, sia chiaro. In Italia però per decenni abbiamo chiamato il nostro sistema sociale lo «Stato assistenziale». Era una definizione più corretta, perché distingueva l’originale versione democristiana dai sistemi edificati dalle socialdemocrazie europee. Poi (forse per colpa dei giornali) abbiamo cominciato a chiamarlo welfare. Ma il welfare in Italia non esiste. Non è Lord Beveridge il padre dello stato assistenziale all’italiana. «Il nostro modello – ha scritto Antonio Polito – è piuttosto figlio della cultura del mutuo soccorso, di origine sindacale e del solidarismo cattolico, il cui peso piano piano è stato trasferito sulle spalle dello stato. Il soggetto di questa assistenza non è il singolo, il cittadino individuato nella sua neutralità come avviene in Inghilterra, ma la sua appartenenza ad un gruppo sociale protetto, ad una associazione, una gilda, una corporazione». Il sistema italiano non è fondato sull’individuo, ma sulla famiglia; e le rimesse dello stato, essenzialmente sotto forma di pensioni, sovvenzionano il nucleo familiare, che poi funziona al suo interno come distributore di ricchezza. Tanto per capirci, dopo sedici anni di Thatcher, in Gran Bretagna il sostegno ai giovani in cerca di lavoro, la cura degli anziani, dei malati di mente, dei bambini è compito dello Stato. In Italia sono compiti della famiglia.
Ora, che non si possa andare avanti così, ce lo dicono da tempo studiosi e osservatori. In primo luogo, perché le famiglie diventano più piccole e la rapida riduzione delle dimensioni del nucleo familiare rende sempre più marginale il ruolo della redistribuzione operata dalla famiglia. In secondo luogo, perché la redistribuzione all’interno della famiglia è resa sempre più difficile dall’aumento della disoccupazione fra gli adulti: con essa, aumentano le famiglie in cui nessuno lavora. Infine, perché la famiglia usata come “ammortizzatore sociale” comporta dei costi in termini di efficienza: presuppone la condivisione dell’abitazione, fattore che ostacola la mobilità della forza lavoro ed è legata alla bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro perché assegna a mamme e mogli importanti funzioni di cura.
Inoltre, il nostro sistema di protezione sociale, come è stato ampiamente documentato, è fra quelli che meno contribuiscono a ridurre le disuguaglianze in Europa non soltanto perché è largamente incentrato sulle pensioni, ma anche perché le risorse lasciate libere dalle prestazioni pensionistiche sono male utilizzate. Il motivo per cui in Italia il modello di stato sociale universalista socialdemocratico non si è sviluppato ha ovviamente a che fare con la natura familistica democristiana di quello che è stato costruito (con i suoi pregi e i suoi molti difetti), ma ha anche a che fare con il modo sempre assai incerto con cui la sinistra italiana ha coltivato il suo rapporto con il riformismo europeo. Per quanto si vogliano attribuire al Pci dei grandi meriti nell’aver disciplinato alla condotta democratico costituzionale una sinistra italiana da sempre massimalista e al Psi di aver comunque garantito a tutto il mondo progressista lontano dal comunismo luoghi di dibattito e di rappresentanza, non ci sono dubbi che essi sono rimasti troppo a lungo estranei alla cultura riformista europea.
E ora che abbiamo deciso di «fare come in Europa» (adesso che l’Italia ha urgente bisogno di un nuovo e più efficace sistema di welfare e che la soluzione è forse più complicata di quanto non si pensasse), i progressisti italiani possono restare separati ancora una volta dai processi di rinnovamento che ha vissuto e sta ancora vivendo la socialdemocrazia europea? Possiamo restare ai margini della scena europea? Certo che i progressisti europei devono mettere in discussione tesi, analisi e riferimenti culturali datati e devono guardare al di là dell’Atlantico, stabilendo relazioni solide con i Democrats, il cui successo è dipeso anche dal tipo di «liberalismo non ideologico », promosso da Obama. Se l’obiettivo della giustizia sociale da conseguire attraverso politiche redistributive del governo federale è stato riconfermato come la ragione sociale del partito, Obama ha posto l’accento sulla necessità di sperimentare metodi diversi per perseguire tale obiettivo, associando sempre le sue proposte di espansione di diritti ai doveri di responsabilità individuale che ogni nuovo diritto comporta. E dobbiamo apprendere dalle loro esperienze. Ma il futuro del nostro paese è necessariamente legato a quello dei nostri partner europei. E non può essere che, per noi, l’Europa sia tutto solo nei giorni di festa.

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Europa, 22 settembre 2010 – Cambiamo, come fece il Labour

Nel 1992 il Labour aveva perso quattro elezioni di fila e non riusciva a raccogliere oltre il 32 per cento dei voti. Dopo 13 anni di governo conservatore, con il paese impantanato in una crisi economica che poteva (in parte) essere imputata all’operato del governo, i laburisti non riuscivano comunque a superare quella soglia. E, per alcuni, la riforma elettorale (proporzionale, ovviamente) era l’unica soluzione per uscire dall’impasse, perché a prescindere da quanto i laburisti fossero stati bravi e convincenti (era questo il tenore della maggioranza dei commenti sui giornali), il paese chiamato a votare avrebbe scelto i loro avversari. Ma (ora lo sappiamo) si trattava di un disfattismo ingiustificato. Le cose non funzionano così. E la vittoria schiacciante ottenuta dai laburisti nel 1997, si è incaricata di dimostrarlo. Più semplicemente, i laburisti non erano (per dirla con Tony Blair) «in contatto con il mondo moderno». Per questo i «modernizzatori» nel Labour si batterono per cambiare e reindirizzare il partito. E riuscirono a metterlo in sintonia con l’elettorato. Dopo tre mandati consecutivi, hanno perso la sintonia (e le elezioni); ma la ritroveranno.
E da noi? Abbiamo perso le elezioni nel 2008, nel 2009 e nel 2010. È chiaro che l’elettorato non è interessato alla nostra politica e che, quindi, dobbiamo cambiare. Per conquistare nuovi elettori, bisogna liberarsi dei vecchi schemi ideologici e guardare la realtà senza pregiudizi. A meno di non voler fare come l’estrema sinistra del Labour che, ai tempi della Thatcher, aveva stampato sugli striscioni un famoso slogan “Nessun compromesso con l’elettorato” (“No compromise with the electorate”). Ma, ovviamente, sono gli elettori ad aver ragione. E la politica non tornerà «normale» con l’uscita di scena di Berlusconi. Quello che è avvenuto in questo ventennio non è una parentesi antistorica, un’invasione degli Hyksos. Nel ’94 non si è determinata una ferita che attende di essere sanata, ma sono saltate gerarchie culturali che non è possibile restaurare. È tempo perciò di combattere quella battaglia culturale all’interno del nostro «mondo di riferimento» che il centrosinistra italiano ha molte volte annunciato (tutti ricordiamo la promessa di una “rivoluzione liberale”), ma a differenza di quanto è accaduto negli altri paesi europei, non ha mai saputo o voluto combattere.
Il problema del Pd rimane infatti quello di costruire un’alternativa credibile: questo governo si sta via via sfaldando senza però che i consensi per il centrosinistra aumentino. La crisi del Pd è anzitutto il frutto di un cambiamento molte volte promesso e molte volte rinviato e contraddetto. In discussione è infatti proprio la nostra credibilità nel proporre e perseguire davvero politiche nuove; e il partito non ha altra possibilità che quella di provare a conquistare quelle parti di elettorato che si renderanno disponibili con il mutare dei rapporti di forza all’interno del centrodestra, facendo proprie le loro istanze. Facendo proprie, cioè (sulla base dei nostri valori), quelle domande, quelle aspirazioni (sul fisco, sulla giustizia, sulle libertà economiche) che esse esprimono e che Berlusconi lascia ancora insoddisfatte. O davvero crediamo che, come lamenta lo scrittore Francesco Piccolo «la funzione principale della cultura progressista» sia ormai quella di «fare resistenza a qualsiasi novità. Difendere dei baluardi»?
Oggi sono in molti a chiedersi se il progetto del Pd non fosse basato su un’analisi politica sbagliata e se la crisi del partito non sia il risultato inevitabile dell’unione di due formazioni giunte a capolinea.
Ma, diciamoci la verità, finora l’esperimento non è stato nemmeno tentato. Veltroni aveva più di un motivo per lamentarsi del gioco continuo di interdizione nei suoi confronti, ma va anche detto che il leader del Pd, legittimato dal voto delle primarie, non ha fatto uso di quella legittimazione, non ha preso nelle sue mani le redini del cambiamento, non ha, in altre parole, esercitato la leadership. Sono mancate, cioè, proprio quelle posizioni chiare sulle quali arrivare ad una decisione attraverso il voto e costruire una maggioranza interna. È mancata la lotta politica trasparente fra linee alternative, non le divisioni; è mancata la passione e il coraggio. Da qui l’opacità del conflitto interno, l’indebolimento del progetto e la confusione delle prospettive. Ora, il cuore della politica di Bersani tornano ad essere le alleanze. Il che rende il partito sempre più fatalista in merito alle sue possibilità. Il Pd non solo non è capace di adeguarsi ad una società che sta cambiando radicalmente, ma sta evitando di farlo, limitandosi a coltivare il recinto della vecchia sinistra. Ma per dare forza al partito c’è un solo modo, quello di provare a mettersi «in contatto con il mondo moderno », cioè con l’elettorato del mondo di oggi. Puntare (ancora una volta) unicamente ad allargare l’alleanza (anziché a conquistare nuovi elettori ed ampliare, cioè, l’area del nostro radicamento) non ci farà arrivare dove oggi non arriva il Pd né ci farà fare le cose che il Pd non riesce a fare. Per superare la crisi del partito bisogna rilanciare il suo progetto di cambiamento. E discuterne male non ci farà.

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l’Unità , 7 ottobre 2010 – Nel profondo Nord per cambiare passo a partire dal fisco

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Messaggero Veneto, 7 ottobre 2010 – Maran e i dilemmi del centro-sinistra sul dopo-Berlusconi

Capire il Caimano, il significato del centrodestra berlusconiano, per pensare – e ancor prima comprendere – il centrosinistra del futuro. Alessandro Maran si siede in cattedra e scrive. Il vicecapogruppo del Pd alla Camera non nasconde la sua passione politica, non solo da attore in prima persona, ma anche da studioso. E quando il Paese è già inoltrato in un autunno di promessa stabilità politica, si mette ad analizzare il contesto. Avverte che l’eventuale, ipotizzata, forse impossibile uscita di scena di Silvio Berlusconi non normalizzerà lo scenario italiano. Ed esorta ancora il Pd ad acchiappare l’elettorato deluso dalla presunta virtualità berlusconiana. Sulla copertina del piccolo saggio pubblicato dalle Edizioni della Laguna di Cormons,Maran sceglie di mettere un cartello. In inglese, con la freccia puntata, il segnale avvisa: «Keep left». L’invito è chiaro: «tenere la sinistra», anche se a mano qualcuno ha aggiunto la parolina «centro». Proprio dalla ricerca di questa ‘aggiunta’ a penna, veloce, nasce l’idea del saggio di Maran. Il ragionamento si rende evidente a leggere il sottotitolo: Di cosa parliamo quando parliamo del centrosinistra . L’ex segretario regionale dei Ds in Friuli VG, tra i nomi nuovi indicati come in grande ascesa nel nel Pd epoca bersaniana, parte da una fotografia sul momento attuale: «Non sappiamo se la leadership di Silvio Berlusconi – scrive – sia davvero prossima al tramonto». Quel che è certo, secondo Maran, è che «la politica non tornerà normale con l’uscita di scena di Berlusconi». La tesi di Maran non è inesplorata. Ma sentirla spiegare da sinistra fa ancora un po’ specie. «Quello che è avvenuto in questo ventennio – dice Maran – non è una parentesi antistorica (…). Converrà abbandonare l’illusione – aggiunge – che una volta tolto di mezzo il Caimano ritornerà l’età dell’oro, che non è mai esistita». L’attenzione al polo avversario è per Maran un’attenzione obbligata. Proprio per il Pd. «La triste parabola del governo Berlusconi – annota il parlamentare – conferma che il centrodestra non ha la forza per fare quelle riforme che mille volte ha promesso al Paese». Tocca quindi al Pd costruire l’agognata «alternativa credibile». Come? L’unica via è quella di ‘rubare’ in casa dell’avversario, una casa maggioritaria nel Paese. Dice Maran: «Il partito non ha altra possibilità che quella di provare a conquistare quelle parti che si renderanno disponibili con il mutare dei rapporti di forza all’interno del centrodestra, facendo proprie le loro istanze».Maran guarda le esperienze dei democratici all’estero, e avverte i colleghi del Pd: «I partiti del centrosinistra vincono quando, invece di crogiolarsi sui risultati del passato, abbracciano il futuro». Il futuro, già, prima che sia troppo tardi.

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Il Foglio, 9 ottobre 2010 – Maroniano democratico dice cosa serve al Pd quando parla di immigrati

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L’Unità, 19 ottobre 2010 – Immigrazione: le proposte e gli anatemi

Sulla questione immigrazione è facile cadere in giudizi emotivi o anche ideologici. Allora cerchiamo di fare un po’ di chiarezza. Se è vero che – stando al verbale della commissione che ha accettato il testo sull’immigrazione da me firmato insieme a diversi esponenti del Pd – «i documenti presentati non configurano linee alternative» e la proposta di introdurre un sistema di ammissione a punti «è contenuta nel documento generale», perché la «proposta di Veltroni» sarebbe «di destra» come ha scritto su “l’Unità” qualcuno? Inoltre, il modello di cui si discute, è stato introdotto in Inghilterra dal Labour Party. I socialisti inglesi (o quelli danesi) non si occupano degli ultimi, dei poveri, degli emarginati?

Nessun italiano dubita che il centrosinistra stia dalla parte dei migranti (siamo tutti d’accordo che i migranti regolari debbano accedere ai diritti sociali e politici: casa, scuola, formazione, sanità, voto locale, cittadinanza); buona parte degli italiani ritiene invece che non riusciamo a comprendere le loro preoccupazioni sull’immigrazione (se minaccerà i loro salari, le loro prospettive di lavoro, la loro sicurezza o metterà sotto pressione i servizi e l’edilizia pubblica), al punto che l’inquietudine pubblica circa l’immigrazione influenza ormai la fiducia nel sistema politico e nelle istituzioni.

La gente ha bisogno di sapere che l’immigrazione è controllata, che le regole sono ferme e giuste, che c’è sostegno per le comunità alle prese con il cambiamento. Dunque (a meno che non si dica che devono poter entrare tutti) il punto è: «come si sceglie?» E come si affanna a ripetere Massimo Livi Bacci, non deve essere solo l’esistenza di un posto di lavoro che determina l’ammissione dell’immigrato ma anche la qualità del capitale umano, la capacità di far parte della società e di contribuire alla sua crescita e la volontà d’inclusione. Proprio perché l’immigrazione non è un fatto temporaneo, ma un trapianto duraturo. Australia, Nuova Zelanda, Canada, Gran Bretagna e Danimarca hanno adottato strategie di questo tipo. E l’ammissibilità è legata a una valutazione delle caratteristiche degli immigrati, in funzione del loro contributo allo sviluppo e alla coesione.

La selettività, tuttavia, è basata su criteri noti e controllabili, al contrario delle politiche attuali, implicitamente selettive, opache e arbitrarie. Allo stesso tempo lo Stato accoglie generosamente chi ha bisogno di soccorso umanitario, sostiene le politiche di aiuto allo sviluppo (da noi, a differenza degli inglesi, ridotte al lumicino) e mette in grado l’immigrazione di acquisire pieni diritti sociali, politici e di cittadinanza. Dall’equilibrio di questi elementi può scaturire una nuova politica migratoria funzionale alla crescita della nostra società. Discutiamone senza anatemi.

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