GIORNALI2010

Europa, 22 settembre 2010 – Cambiamo, come fece il Labour

Nel 1992 il Labour aveva perso quattro elezioni di fila e non riusciva a raccogliere oltre il 32 per cento dei voti. Dopo 13 anni di governo conservatore, con il paese impantanato in una crisi economica che poteva (in parte) essere imputata all’operato del governo, i laburisti non riuscivano comunque a superare quella soglia. E, per alcuni, la riforma elettorale (proporzionale, ovviamente) era l’unica soluzione per uscire dall’impasse, perché a prescindere da quanto i laburisti fossero stati bravi e convincenti (era questo il tenore della maggioranza dei commenti sui giornali), il paese chiamato a votare avrebbe scelto i loro avversari. Ma (ora lo sappiamo) si trattava di un disfattismo ingiustificato. Le cose non funzionano così. E la vittoria schiacciante ottenuta dai laburisti nel 1997, si è incaricata di dimostrarlo. Più semplicemente, i laburisti non erano (per dirla con Tony Blair) «in contatto con il mondo moderno». Per questo i «modernizzatori» nel Labour si batterono per cambiare e reindirizzare il partito. E riuscirono a metterlo in sintonia con l’elettorato. Dopo tre mandati consecutivi, hanno perso la sintonia (e le elezioni); ma la ritroveranno.
E da noi? Abbiamo perso le elezioni nel 2008, nel 2009 e nel 2010. È chiaro che l’elettorato non è interessato alla nostra politica e che, quindi, dobbiamo cambiare. Per conquistare nuovi elettori, bisogna liberarsi dei vecchi schemi ideologici e guardare la realtà senza pregiudizi. A meno di non voler fare come l’estrema sinistra del Labour che, ai tempi della Thatcher, aveva stampato sugli striscioni un famoso slogan “Nessun compromesso con l’elettorato” (“No compromise with the electorate”). Ma, ovviamente, sono gli elettori ad aver ragione. E la politica non tornerà «normale» con l’uscita di scena di Berlusconi. Quello che è avvenuto in questo ventennio non è una parentesi antistorica, un’invasione degli Hyksos. Nel ’94 non si è determinata una ferita che attende di essere sanata, ma sono saltate gerarchie culturali che non è possibile restaurare. È tempo perciò di combattere quella battaglia culturale all’interno del nostro «mondo di riferimento» che il centrosinistra italiano ha molte volte annunciato (tutti ricordiamo la promessa di una “rivoluzione liberale”), ma a differenza di quanto è accaduto negli altri paesi europei, non ha mai saputo o voluto combattere.
Il problema del Pd rimane infatti quello di costruire un’alternativa credibile: questo governo si sta via via sfaldando senza però che i consensi per il centrosinistra aumentino. La crisi del Pd è anzitutto il frutto di un cambiamento molte volte promesso e molte volte rinviato e contraddetto. In discussione è infatti proprio la nostra credibilità nel proporre e perseguire davvero politiche nuove; e il partito non ha altra possibilità che quella di provare a conquistare quelle parti di elettorato che si renderanno disponibili con il mutare dei rapporti di forza all’interno del centrodestra, facendo proprie le loro istanze. Facendo proprie, cioè (sulla base dei nostri valori), quelle domande, quelle aspirazioni (sul fisco, sulla giustizia, sulle libertà economiche) che esse esprimono e che Berlusconi lascia ancora insoddisfatte. O davvero crediamo che, come lamenta lo scrittore Francesco Piccolo «la funzione principale della cultura progressista» sia ormai quella di «fare resistenza a qualsiasi novità. Difendere dei baluardi»?
Oggi sono in molti a chiedersi se il progetto del Pd non fosse basato su un’analisi politica sbagliata e se la crisi del partito non sia il risultato inevitabile dell’unione di due formazioni giunte a capolinea.
Ma, diciamoci la verità, finora l’esperimento non è stato nemmeno tentato. Veltroni aveva più di un motivo per lamentarsi del gioco continuo di interdizione nei suoi confronti, ma va anche detto che il leader del Pd, legittimato dal voto delle primarie, non ha fatto uso di quella legittimazione, non ha preso nelle sue mani le redini del cambiamento, non ha, in altre parole, esercitato la leadership. Sono mancate, cioè, proprio quelle posizioni chiare sulle quali arrivare ad una decisione attraverso il voto e costruire una maggioranza interna. È mancata la lotta politica trasparente fra linee alternative, non le divisioni; è mancata la passione e il coraggio. Da qui l’opacità del conflitto interno, l’indebolimento del progetto e la confusione delle prospettive. Ora, il cuore della politica di Bersani tornano ad essere le alleanze. Il che rende il partito sempre più fatalista in merito alle sue possibilità. Il Pd non solo non è capace di adeguarsi ad una società che sta cambiando radicalmente, ma sta evitando di farlo, limitandosi a coltivare il recinto della vecchia sinistra. Ma per dare forza al partito c’è un solo modo, quello di provare a mettersi «in contatto con il mondo moderno », cioè con l’elettorato del mondo di oggi. Puntare (ancora una volta) unicamente ad allargare l’alleanza (anziché a conquistare nuovi elettori ed ampliare, cioè, l’area del nostro radicamento) non ci farà arrivare dove oggi non arriva il Pd né ci farà fare le cose che il Pd non riesce a fare. Per superare la crisi del partito bisogna rilanciare il suo progetto di cambiamento. E discuterne male non ci farà.

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