Occorre una riforma delle istituzioni in grado di scongiurare il rischio di un decadimento della democrazia. Il nodo irrisolto non
riguarda la legge elettorale, ma la forma di governo. Da un pezzo la premiership è diventata la vera e fondamentale posta in gioco.
Davvero le preferenze sono diventate l’unico strumento affinché i rappresentanti del popolo siano scelti dai cittadini e non dai vertici
dei partiti? Ci siamo scordati quel che il sistema delle preferenze realmente ha comportato, diventando strumento della degenerazione correntizia dei partiti, motivo dell’esplosione della spesa, occasione di corruzione e controllo del voto, strumento di lobby trasversali non sempre di natura legale? Vogliamo «restituire lo scettro» ai cittadini? Allora, usiamo le primarie come strumento democratico per scegliere le candidature.
Gianfranco Moretton, nei giorni scorsi, ha rilanciato l’idea di un Pd del Nord «confederato e allineato con quello nazionale». Ha aggiunto inoltre di concordare con chi sostiene che il Pd non potrà mai aderire al Pse e di guardare invece agli Stati Uniti. Si tratta di opinioni che meritano di essere considerate e, visto che nessuno finora si è preso la briga di farlo, vorrei tornarci su. A differenza di Moretton, non credo che possiamo curarci con l’illusione di vivere la vita degli altri, confidando che la vittoria di Obama cambierà anche noi. Moretton si illude forse di essere “oltre” rispetto all’esperienza dei partiti socialisti europei. Ma non siamo oltre, siamo ancora al di qua. E parecchio. Tanto per fare un esempio, dobbiamo definire ancora l’autonomia del partito riformista rispetto ai sindacati e non riusciamo ancora a calibrare il tono e i contenuti di un’opposizione post-ideologica a Berlusconi: come si fa a dichiarare chiusa la stagione della guerra civile italiana e poi, dopo tre mesi, sostenere che siamo nella Russia di Putin? Il guaio è che nella nostra discussione si è cristallizzata un’immagine dogmatica del socialismo europeo che non ha alcun rapporto con la realtà. Così inteso, il socialismo europeo non esiste e, almeno dagli anni 50, ha lasciato il posto a un ampio ventaglio di declinazioni politiche nazionali. Non è un mistero per nessuno che tra il Labour britannico e il Ps francese vi sia una divaricazione di sensibilità e di prospettive. Il che non ha mai impedito che entrambi quei partiti appartenessero alla famiglia socialista, che è molto meno ortodossa di come la si dipinge in Italia. Al contrario, i partiti socialisti europei sono diventati dei veri e propri «crocevia culturali» che sono stati capaci di metabolizzare e addirittura egemonizzare le tendenze innovative sorte su altri terreni. È infatti l’incontro tra socialismo e liberalismo che ha consentito ai grandi partiti del socialismo europeo di ridefinire la propria funzione e i tratti essenziali del proprio programma: il rapporto tra Stato e mercato, l’organizzazione dello Stato sociale, le relazioni con i sindacati e, più in generale, il rapporto tra politica, singoli cittadini e società civile. Non è il Pse, è piuttosto questa immagine ingessata (tutta italiana) del socialismo europeo che rappresenta l’ostacolo dinanzi al quale si trova oggi il Pd. Proprio mentre il nuovo partito unico berlusconiano sta per diventare il più grande raggruppamento nazionale del Ppe, che da tempo non è più il partito dei democristiani europei, ma il raggruppamento dei diversi soggetti nazionali di centro-destra: ognuno con la sua storia e la sua identità, ma tutti dalla stessa parte della barricata. Per il Pd è venuto il momento di condurre una discussione trasparente sulle linee politiche. Specie se si considera che l’economia italiana oltre a soffrire di una malattia comune a molti paesi Ocse (un periodo di difficoltà dovuto alla crisi finanziaria internazionale e al prezzo di alcune materie prime) è affetta anche da un malessere tutto italiano (una crescita inferiore alla media europea che dura ormai da più di vent’anni) le cui cause vanno ricercate esclusivamente all’interno del nostro paese. Naturalmente, è comodo per molti incolpare la globalizzazione, l’euro o la Bce, ma i nostri problemi sono interni. E vengono da lontano, visto che il declino del nostro sistema educativo e la stagnazione degli investimenti non nascono certo oggi. La verità è che bisogna che più persone lavorino (i giovani e le donne, per esempio, partecipano pochissimo alla forza lavoro) e che aumenti la produttività. E aumentare la produttività significa lavorare meglio, ridurre i vincoli che impediscono agli imprenditori di fare il loro lavoro, ma al tempo stesso migliorare il welfare, i servizi e il sistema giudiziario. Infatti, il welfare italiano è inadeguato e muove poche risorse dai ricchi ai poveri e le perdite dovute a un sistema giudiziario che non funziona si traducono nell’impossibilità di pagare stipendi più alti, distribuire dividendi o investire di più. Ovviamente, sono tutte cose difficili e impegnative. Ma per conquistare nuovi elettori, bisogna guardare la realtà senza pregiudizi. E il Pd deve promuovere quell’aperta battaglia culturale all’interno del proprio «mondo di riferimento» in difesa di quelle idee che tante volte il centro-sinistra italiano ha annunciato come l’orizzonte della propria azione politica, ma che, a differenza di quanto è accaduto negli altri paesi europei, non ha mai voluto combattere. Ma solo così si può affermare una cultura politica del primato dell’individuo, delle libertà, della cittadinanza e quell’attenzione «strutturalmente diversa» (per usare le parole di Paolo Mieli) che merita il Nord. È di questo che ha bisogno il nostro territorio, non di un partito confederato. Il guaio è che all’indomani della sconfitta, abbiamo tardato ad aprire una discussione politica d’analisi e soprattutto di progettazione. E continua la difficoltà di condurre una discussione trasparente sulle linee politiche; è più facile stare nell’opacità del conflitto interno fra tribù separate non dalla politica ma dalla vecchia appartenenza: popolari e diessini, veltroniani e dalemiani, ecc. Ma è possibile che non abbiamo trovato ancora il modo di concentrarci sulle ragioni della sconfitta alle elezioni regionali? E su queste, il vicepresidente della giunta uscente non ha niente da dire? È possibile che, anziché dalla (incerta) collocazione internazionale del partito o dalla sua attuale forma organizzativa, la sconfitta elettorale sia dipesa dall’insufficienza della sua politica riformatrice, in contrasto stridente con le attesa e le aspirazioni diffuse in una società, quella regionale, profondamente trasformata? Come si fa a stupirsi se il Pd, così com’è combinato, è percepito dagli elettori come il residuo di un passato che non vuole passare e come un partito nato per conservare un’oligarchia? Il fatto è che qualsiasi pretesa di incarnare l’innovazione rimanendo uguali a se stessi è svuotata di ogni credibilità. Oggi i tempi chiedono una nuova fase. E, a Roma come in Friuli, l’unica e vera salvezza del partito è rappresentata dalla possibilità di innescare, già oggi, una competizione di idee e personalità. I democratici americani non sono arrivati a Denver da un giorno all’altro, ma dopo un anno di scontri appassionati dopo i quali si sono stretti attorno a Obama. Non attraverso lo scontro (o gli accordi) tra capibastone, ma con il libero e creativo scontro di idee e di ricette che anima i partiti più dinamici.
Caro Direttore,
il guaio è che la nostra Repubblica è già cambiata e oggi risulta incompiuta, a metà. E’ da tempo che la premiership è diventata la vera e fondamentale posta in gioco.
Il deputato isontino del Pd avrebbe voluto le primarie: «Ha vinto la paura del salto nel buio»
UDINE «Obama ha vinto grazie all’audacia e con l’audacia della speranza ha indotto gli americani a spendersi per il cambiamento. All’assemblea del Pd è mancato invece il coraggio. Ha prevalso la paura del salto nel buio». Alessandro Maran, deputato isontino, capogruppo del Partito democratico nella commissione Esteri, avrebbe voluto le primarie, il cambiamento subito, una leadership non preordinata a tavolino. Non è andata così. Ma adesso, se il Pd vuole davvero riemergere, «servono politiche nuove».
Maran, il Pd esce più forte o più debole dopo la nomina a segretario di Franceschini?
Non cambia nulla. La crisi del partito è il frutto di un cambiamento molte volte promesso e molte volte rinviato e contraddetto. Per affrontare la crisi del Pd non serve un patto tra dirigenti, ma la trasparenza di una battaglia politica tra linee e leadership alternative.
Le primarie?
Sarebbero state un atto di coraggio, un modo per dire ai cittadini: il Pd non appartiene a una oligarchia ma ai cittadini; ci fidiamo della vostro giudizio e vi chiediamo fiducia.
Meno della metà dei delegati attesi in assemblea, un segnale di disaffezione?
Stupisce che in queste condizioni qualcuno abbia pensato che partecipare non servisse granché?
È stata la vittoria della nomenclatura?
È stata la vittoria della paura di un vuoto di direzione e di un confronto politico lacerante. Ma chi vuole governare il processo di cambiamento del Paese avrebbe invece bisogno dell’audacia che ha consentito a Obama di vincere. Per radicare il partito servono identità e politiche nuove.
Paura anche che qualche volto nuovo spazzasse via il vecchio?
Non credo. Il poco tempo avrebbe anzi favorito i soliti noti. Da qui a ottobre, speriamo, potranno emergere linee politiche nuove. Perché è certo: il vecchio gruppo dirigente ha terminato il suo compito.
Ma Franceschini è vecchio o nuovo?
Sarebbe sbagliato collocarlo nel passato. Il punto è mantenere le parole che abbiamo detto in campagna elettorale e batterci perché le riforme si facciano e non per bloccarle.
Ci sono vittoriosi e sconfitti post-assemblea?
No. Spetta a tutto il partito ricostruire un rapporto di fiducia tra classe dirigente ed elettori che sembra sfaldarsi.
Visto dal punto di vista del vostro elettore: dopo Veltroni, il suo vice. Che cosa cambia?
Veltroni ha creduto di compiere un gesto che fosse utile a salvare il Pd. Se avessimo svolto il congresso subito dopo le elezioni, non saremmo arrivati al logoramento del segretario. Il problema oggi come allora non è rompere il partito, il problema è scegliere. Tocca a Franceschini.
La rinuncia alla conta di Bersani?
Sorprende che chi si era candidato a guidare il partito abbia poi evitato di farlo alla prima occasione. A ottobre, credo, ci sarà. E, in ogni caso, più candidati ci saranno, meglio sarà.
Franceschini ha garantito che lavorerà in autonomia. Ce la farà?
È la condizione per avviare un confronto esplicito.
Ha anche detto che il suo sarà un ruolo di servizio. Servizio per perdere europee e amministrative?
Mi auguro che in questi mesi si lavori tutti insieme per evitare una nuova sconfitta elettorale. Del resto, l’argomento di chi non ha voluto le primarie era proprio questo.
Il discorso del nuovo segretario?
Molto netto sulla collocazione internazionale del partito, sulla laicità dello Stato, sulla libertà di scelta.
Non è mancata la solita «filippica» anti – Berlusconi.
Il vero problema è che è mancata un’analisi più profonda della società italiana. Berlusconi non è il pifferaio magico, il manipolatore, non è nemmeno la causa del cambiamento ma, piuttosto, il suo sintomo più vistoso. Il collasso del sistema educativo italiano, la stagnazione degli investimenti, i problemi delle reti infrastrutturali non nascono con Berlusconi ma precedono la sua discesa in campo. Alle volte diamo l’impressione di sapere benissimo come deve essere la società italiana ma di non sapere com’è.
Ottimista?
Mi sono battuto per le primarie, ma adesso si tratta di unire le forze per tornare a parlare al Paese.
Cacciari, Chiamparino, Franceschini. Chi a ottobre?
Sbagliato ripartire dai nomi. Ci siamo sin qui aggrappati attorno a un leader carismatico e ci è andata male. Partiamo piuttosto da un confronto politico trasparente. Da quel confronto emergeranno nuovi gruppi dirigenti, nuove personalità.
Un Obama non si vede però all’orizzonte.
Per molto tempo non lo hanno visto nemmeno gli americani. Sono servite le primarie e un anno di scontro durissimo per farlo conoscere.
Se aspettate troppo, qualcuno entrerà nell’Udc…
Non credo. Il bipolarismo è assestato, non c’è spazio per un centro che possa incidere da solo. A meno che Berlusconi non vada alle Bahamas, il quadro non cambierà.
Marco Ballico
«Inconcepibile parlare di fascismo, Antonaz sbaglia»
L’intervista
UDINE. «Erano prevedibili le bocciature della Corte Costituzionale su alcune parti della legge sulla lingua friulana». Ne è convinto Alessandro Maran, deputato del Partito democratico. «Le criticità erano emerse già durante il dibattito che aveva preceduto la stesura della legge i questione. Se le riserve espresse, anche all’interno del Centrosinistra, fossero state ascoltate, non ci troveremmo oggi a questo punto».
In passato, lo stesso Maran non ha lesinato critiche al provvedimento, mettendosi anche nella scomoda posizione di oppositore all’interno del suo partito. E se oggi non dichiara «lo avevo detto» è perché sinceramente convinto «che la tutela è giusta e doverosa. Ma non c’è solo questo modo per attuarla». Perché, di fronte alle polemiche, vale sempre la regola fondamentale: «Rispettare i diritti fondamentali di tutti».E proprio dal rispetto della pluralità delle idee muove il ragionamento di Maran.
La Corte Costituzionale ha, dunque, emesso la sua sentenza.
«In democrazia, le questioni, essendo oggetto di opinione, non hanno una “sola” risposta legittima. Non c’è un “unico” modo di tutelare il friulano e quel che è in discussione oggi non è la sua tutela ma le costrizioni e gli incentivi di una legge, di una specifica disciplina giuridica”.
Si spieghi.
«Non sarebbe male rammentare che le questioni, proprio perché sono oggetto di opinione, si risolvono per via di consenso e sono soggette all’ordine legale della Repubblica. La Costituzione, infatti, ha anche una funzione di controllo e di contenimento del potere costituito. Il governo democratico è basato sulla regola secondo la quale chi governa deve rendere conto sia ai governati sia alla legge. Vale ancora (a due secoli e mezzo di distanza) l’esclamazione del mugnaio Arnold di Postdam di fronte alle prepotenze del Re di Prussia Federico II: «Ci sarà pure un giudice a Berlino…». Il giudice delle leggi è la Corte costituzionale».
Faccia un esempio.
La Corte è intervenuta sul cosiddetto silenzio-assenso: non è giusto imporre a tutti la volontà di una parte dei cittadini. E’ in palese contrasto con la prima parte della Costituzione.
C’è chi ha detto che Roma capitale, sul friulano, staziona tra il tiepido e l’ostile.
Ma è inconcepibile mettere in discussione l’arbitro. La Costituzione è stata pensata e scritta per porre dei limiti al legislatore, questi limiti devono essere fatti rispettare. E questo, in Italia, è il compito della Corte costituzionale. E a nessuno è consentito reagire con l’aggressione se un arbitro, il giudice, decide in modo contrario ai suoi auspici e ai suoi interessi. Né a Berlusconi, né ad altri.
Richiama la terzietà della Consulta.
Certamente. Voglio ricordato che la Corte Costituzionale è la stessa che ci ha dato ragione sulle pensioni. Tengo anche a precisare che la Costituzione stabilisce principi che non valgono solo il sabato ma tutta la settimana. Non possiamo accogliere con favore solo le sentenza che ci danno ragione».
Il padre della legge, l’ex assessore regionale alla Cultura, Roberto Antonaz (Rc), oggi consigliere regionale, parla apertamente di neo centralismo con atteggiamenti che ricordano il Ventennio.
«E’ inconcepibile questa affermazione. Così si dà ragione al Presidente Berlusconi quando mette in discussione i giudici».
Cosa si deve fare ora?
Si riparte dalle indicazioni dateci dalla Consulta. Non sarebbe male far tesoro di questa esperienza. La stessa cosa era accaduta in occasione della legge sullo Statuto regionale.
Sonia Sicco
Sarà colpa dei giornali, ma agli occhi degli italiani che ancora guardano al congresso del Pd che si svolgerà ad ottobre, con partecipazione e (perfino) speranza, le candidature in campo sembrano essere un nuovo capitolo della lotta infinita tra D’Alema e Veltroni. I due schieramenti congressuali che si vanno delineando sono trasversali ai due partiti fondatori (e questa, per ora, è l’unica cosa positiva), ma le idee e le strategie a confronto sembrano essere le stesse degli ultimi quindici anni. Ancora una volta, qualunque cosa Franceschini e Bersani possano scrivere nel loro programma, la sfida sembra essere quella tra «continuisti» e «nuovisti». Con D’Alema ancora nei panni del garante della solidità degli apparati di partito e Veltroni che sta dalla parte del «nuovo». Diciamoci, allora, la verità: l’eterno duello fra i due azionisti di riferimento che sembrano ispirare le candidature di Franceschini e Bersani ha ormai stufato. E l’alternativa tra «continuisti» e «nuovisti» è fuorviante. In questo modo il Pd rischia di perpetuare le oscillazioni, le reticenze, gli sbagli che gli hanno fatto perdere il contatto con la gente. Perché sia le vecchie (e inutili) certezze che vengono da un’altra storia (fallita), sia il «nuovo» veltroniano (disastroso alla prova dei fatti) non ci aiutano ad analizzare le ragioni della sconfitta, a tenere i piedi nella realtà e a porci le domande su che cosa deve essere oggi il Pd, su che cosa non ha funzionato e che cosa si deve cambiare. Come si fa a non vedere che sono le tradizioni, le culture politiche, da cui è derivato il Pd che hanno perso da tempo solidità e consistenza e che, ormai svuotate e prive di presa sulla realtà, sono inadeguate ad interpretare le domande del paese? Come si fa a non vedere che è inadeguato un riformismo che non vuole pagare il prezzo delle scelte (chi ricorda la promessa di una «rivoluzione liberale»?) che da tempo invoca? La crisi del partito è anzitutto il frutto di un cambiamento molte volte promesso e molte volte rinviato e contraddetto. Gli errori della gestione Veltroni non sono imputabili solo a manovre correntizie. È mancata una lotta vera, è mancata la passione e il coraggio. Da qui l’opacità del conflitto interno e l’indebolimento del progetto, sempre più simile ad un’imbarcazione priva di rotta, piena di comandanti ciascuno con una sua idea del viaggio. Da qui il disincanto e la confusione delle prospettive. Quel che è in discussione, dunque, è proprio la nostra credibilità nel proporre e perseguire davvero politiche «nuove». E quindi il rapporto di fiducia tra classe dirigente del partito e i suoi elettori. Un rapporto che, dopo l’ultima fallimentare esperienza di governo e col riemergere della questione morale, si sta sfaldando. In discussione, in altre parole, è proprio la «versione dei fatti» fin qui proposta dal gruppo dirigente. Gli esempi potrebbero essere moltissimi. Ma come, la nostra scuola produce ripetutamente pessimi risultati, la spesa per studente è tra le più alte e i risultati medi degli studenti italiani sono tra i più insoddisfacenti dell’area Ocse, e noi facciamo finta di niente? Ce lo deve dire l’Ocse (di nuovo la settimana scorsa) che bisogna puntare su insegnanti «con una buona preparazione e ben motivati»? Che «è preferibile legare gli aumenti di stipendi dei professori a buone prestazioni, piuttosto che aumentare gli stipendi a tutti gli insegnanti incondizionatamente»? Che per migliorare la qualità della scuola bisogna introdurre un sistema nazionale di valutazione esterno? E potrei continuare: la risposta al bisogno di sicurezza dei cittadini continua a privilegiare la quantità sulla qualità.
Sarà colpa dei giornali, ma le idee e le strategie a confronto sembrano essere le stesse degli ultimi quindici anni. Ancora una volta, la sfida sembra essere quella tra “continuisti” e “nuovisti”, con D’Alema ancora nei panni del garante della solidità degli apparati di partito e Veltroni che sta dalla parte del “nuovo”. Il guaio è che, in questo modo, il Partito democratico rischia di perpetuare le oscillazioni e le reticenze che gli hanno fatto perdere il contatto con la gente. Perché sia le vecchie certezze che vengono da un’altra storia (morta e sepolta con la prima repubblica), sia la retorica del «nuovo» (disastrosa alla prova dei fatti) non ci aiutano ad analizzare le ragioni della sconfitta, a tenere i piedi nella realtà e a porci le domande su che cosa deve essere oggi il Pd, su che cosa non ha funzionato e che cosa si deve cambiare.
All’origine del nostri malanni non ci sono il partito “liquido” o gli apparati (fragilissimi) e neppure, com’è stato detto, lo statuto e le primarie. Sono le tradizioni, le culture politiche, da cui è derivato il Pd che hanno perso da tempo solidità e consistenza e che, ormai svuotate e prive di presa sulla realtà, sono inadeguate a interpretare le domande del paese. Ed è inadeguato un riformismo che non vuole pagare il prezzo delle scelte che da tempo invoca. La crisi del partito è anzitutto il frutto di un cambiamento molte volte promesso e molte volte rinviato e contraddetto.
Quel che oggi è in discussione è proprio la nostra credibilità nel proporre e perseguire davvero politiche «nuove», e quindi il rapporto di fiducia tra classe dirigente del partito e i suoi elettori. Gli esempi potrebbero essere moltissimi: scuola, università, forze dell’ordine, giustizia, producono pessimi risultati nonostante la spesa per abitante sia tra le più alte in Europa. Ma la politica è, appunto, l’arte di risolvere problemi di sostanza. Per questo, stavolta ci dovremmo permettere una discussione che tenga i piedi nella realtà e nei problemi di oggi. Perché ci vogliono teste nuove e non solo facce nuove. In giro c’è troppa gente che sembra illudersi di poter scansare le scelte difficili, e spesso scomode, che comportano necessariamente proprio quei principi che abbiamo (molte volte) affermato, nella convinzione che la crisi economica destabilizzi e rimescoli le alleanze politiche; che la crisi del berlusconismo sia ormai prossima; che basti seppellire la «vocazione maggioritaria » e tornare alle vaste alleanze del tempo che fu. Fingendo di dimenticare– ad esempio, a proposito del risultato (e delle «nuove» alleanze) delle amministrative – che a livello locale, con l’elezione diretta del sindaco, è cambiata la forma di governo. E che l’alleanza di centrosinistra per quanto larga ed eterogenea, è coesa, credibile (e stabile) proprio perché è organizzata attorno alla leadership.
Resta il fatto che se si punta alla «vocazione maggioritaria», se si punta cioè ad ampliare l’area del radicamento, e non solo ad allargare l’alleanza, bisogna mettere in discussione la propria identità. Non c’è verso: per conquistare nuovi elettori, bisogna liberarsi dei vecchi schemi ideologici e guardare la realtà senza pregiudizi. Rimando, tanto per fare un esempio, alle cose dette da Fassino sul Corriere della sera a proposito di immigrazione. In altre parole, bisogna cambiare.
Come dappertutto ha cercato di fare in questi anni (e tornerà a fare dopo la sconfitta) il centrosinistra e la sinistra europea, ridefinendo la propria funzione e i tratti essenziali del proprio programma: il rapporto tra stato e mercato, l’organizzazione dello stato sociale, le relazioni con i sindacati e il rapporto tra politica, singoli cittadini e società civile.
Il punto è proprio questo. Per il Pd è venuto il momento di combattere quella battaglia culturale all’interno del proprio “mondo di riferimento” che il centrosinistra italiano ha molte volte annunciato (tutti ricordiamo la promessa di una «rivoluzione liberale») ma, a differenza di quanto è accaduto (e accadrà di nuovo) negli altri paesi europei, non ha mai saputo, potuto o voluto combattere. Ma si passa da lì: solo in questo modo si può affermare una cultura politica del primato dell’individuo, delle libertà, della cittadinanza, della responsabilità. E cambiare in profondità significa batterci perché le riforme si facciano e non per bloccarle.
Faccio un solo esempio che riguarda la giustizia. Le garanzie di indipendenza della nostra magistratura sono tra le più elevate nell’ambito dei regimi democratici consolidati. Difatti, per trovare una magistratura con prerogative simili bisogna considerare quella iraniana (e ho detto tutto, direbbe Peppino).
«In questo modo però – come osserva uno studioso attento come Carlo Guarnieri – una larga fetta di decisioni di politica criminale è stata sottratta al circuito della responsabilità democratica. In linea di principio, non c’è alcuna necessità che il pubblico ministero sia sottoposto alle direttive dell’esecutivo, anche se questa (va detto) è la tradizione dell’Europa continentale. Visto però il ruolo cruciale che il pubblico ministero svolge nel processo penale, qualche forma di responsabilità deve pur esserci, se non altro per verificare il modo con cui esercita la discrezionalità di cui inevitabilmente dispone». Bisogna allora prendere il toro per le corna perché, in mancanza di soluzioni che permettano di affrontare il nodo della responsabilità, la proposta della Lega (l’elezione popolare dei pubblici ministeri, sul modello del prosecutor di alcuni Stati degli Usa) rischia di farsi strada, com’è capitato col federalismo che gli italiani hanno abbracciato per disperazione, perché non c’era verso di riformare la pubblica amministrazione.
E rischia di farsi strada perché, come sanno tutti i ragazzini che hanno visto l’Uomo Ragno, «da grandi poteri derivano grandi responsabilità ». Non dico che la soluzione giusta sia quella della Lega. Ci possono essere diverse soluzioni, ma è giusta la domanda.
E se non cominciamo a porci le domande giuste, le risposte appropriate faticheranno ad arrivare.
Il punto è sempre lo stesso.
Come ammoniva Popper, dobbiamo di norma aspettarci di avere i leader peggiori e soltanto sperare di avere i migliori. E la domanda che dobbiamo porci anche stavolta è «come possiamo organizzare le istituzioni in modo da impedire che governanti (o magistrati) cattivi o incompetenti facciano troppi danni?». È questa la domanda sottesa alla società aperta e l’unico modo per tornare a parlare al paese è quello di mantenere quella promessa che abbiamo fatto molte volte e molte volte contraddetto. Cominciando con l’appendere, come Lutero, le nostre tesi sul portale della chiesa del castello di Wittenberg.
«Una vittoria di Franceschini confermerebbe l’aspirazione del Pd a guidare il Paese. Con Bersani si tornerebbe a rappresentare le minoranze». Alessandro Maran, deputato Pd, chiarisce subito perché sta dalla parte del segretario in carica. E fa capire che, se Debora Serracchiani diventasse segretario regionale, toccherebbe a lei la candidatura per le regionali del 2013. Quanto all’importanza dell’Udc, il deputato del Pd minimizza: «Quello che conta è far valere le ragioni del cambiamento».
Onorevole Maran, il dibattito verso il congresso del Pd è costruttivo o prevalgono troppi veleni?
Il pericolo è di una partita giocata tutta nella nostra metà campo.
Avrebbe preferito Chiamparino ma ha dovuto optare per Franceschini. Perché?
Da una parte c’è chi pensa che il bipolarismo sia stato una sciagura e ritiene che l’unica strategia per partecipare a un futuro governo sia quella della creazione di un centro indipendente con il quale il Pd possa allearsi. D’Alema non per caso vuole introdurre la legge elettorale alla tedesca, che significa il ritorno al proporzionale e ai governi che si fanno e si disfano in Parlamento. Dall’altra c’è chi ritiene invece che questa eventualità sarebbe una disgrazia: gli elettori non sarebbero più in grado di scegliere e si tornerebbe ai problemi della prima Repubblica. Ho scelto di stare da questa parte.
E’ una competizione tra «vecchio» e «nuovo»?
No, ma quel che manca al centrosinistra italiano è la piena consapevolezza dell’esaurimento di un ciclo storico e del bisogno di cercare strade diverse. In Francia o in Inghilterra nessuno si illude di risollevarsi con le stesse idee e lo stesso personale politico degli ultimi 15 anni.
Che succede nel Pd se vince Franceschini? E se invece vince Bersani?
Nel primo caso uscirebbe confermata l’aspirazione a dotarsi di un progetto autonomo, di un profilo politico e di una leadership buona per rappresentare la maggioranza del popolo. Con Bersani si tornerebbe all’illusione di poter contrastare il centrodestra facendo il mestiere di sempre: rappresentare minoranze.
Crede che Berlusconi possa cadere?
Chi può dirlo? Oggi la sua credibilità è diminuita, un po’ per gli scandali e soprattutto per la distanza tra promesse e realizzazioni. Ma il Pd non riesce ad approfittarne perché sembra più preoccupato di rappresentare minoranze minacciate dagli interventi confusi del governo che di rappresentare la maggioranza degli italiani, almeno potenzialmente interessata a un cambiamento ispirato ai suoi valori. Da qui il confuso discutere di alleanza politiche.
C’è il rischio nel frattempo di perdere pezzi importanti? Rutelli non esclude di allearsi con Casini, se non con Fini..
Il rischio è proporre uno schema in cui al Pd dei Bassolino e dei Loiero si sommano un pezzo di sinistra e l’Udc dei Cuffaro…
Che partita sta giocando Gianfranco Fini?
Ho l’impressione che stia costruendo il profilo di una leadership diversa, pronta per il giorno della successione.
Debora Serracchiani: più brava o più fortunata? Secondo Machiavelli, in politica servono virtù e fortuna.
Nel caso vincesse lei, sarebbe l’automatica candidata alle regionali del 2013?
In buona parte dei Paesi europei si fa così.