GIORNALI2008

Messaggero Veneto, 12 dicembre 2008 – Aprire una nuova fase politica nel Pd senza illudersi che risolva tutto Obama

Gianfranco Moretton, nei giorni scorsi, ha rilanciato l’idea di un Pd del Nord «confederato e allineato con quello nazionale». Ha aggiunto inoltre di concordare con chi sostiene che il Pd non potrà mai aderire al Pse e di guardare invece agli Stati Uniti. Si tratta di opinioni che meritano di essere considerate e, visto che nessuno finora si è preso la briga di farlo, vorrei tornarci su. A differenza di Moretton, non credo che possiamo curarci con l’illusione di vivere la vita degli altri, confidando che la vittoria di Obama cambierà anche noi. Moretton si illude forse di essere “oltre” rispetto all’esperienza dei partiti socialisti europei. Ma non siamo oltre, siamo ancora al di qua. E parecchio. Tanto per fare un esempio, dobbiamo definire ancora l’autonomia del partito riformista rispetto ai sindacati e non riusciamo ancora a calibrare il tono e i contenuti di un’opposizione post-ideologica a Berlusconi: come si fa a dichiarare chiusa la stagione della guerra civile italiana e poi, dopo tre mesi, sostenere che siamo nella Russia di Putin? Il guaio è che nella nostra discussione si è cristallizzata un’immagine dogmatica del socialismo europeo che non ha alcun rapporto con la realtà. Così inteso, il socialismo europeo non esiste e, almeno dagli anni 50, ha lasciato il posto a un ampio ventaglio di declinazioni politiche nazionali. Non è un mistero per nessuno che tra il Labour britannico e il Ps francese vi sia una divaricazione di sensibilità e di prospettive. Il che non ha mai impedito che entrambi quei partiti appartenessero alla famiglia socialista, che è molto meno ortodossa di come la si dipinge in Italia. Al contrario, i partiti socialisti europei sono diventati dei veri e propri «crocevia culturali» che sono stati capaci di metabolizzare e addirittura egemonizzare le tendenze innovative sorte su altri terreni. È infatti l’incontro tra socialismo e liberalismo che ha consentito ai grandi partiti del socialismo europeo di ridefinire la propria funzione e i tratti essenziali del proprio programma: il rapporto tra Stato e mercato, l’organizzazione dello Stato sociale, le relazioni con i sindacati e, più in generale, il rapporto tra politica, singoli cittadini e società civile. Non è il Pse, è piuttosto questa immagine ingessata (tutta italiana) del socialismo europeo che rappresenta l’ostacolo dinanzi al quale si trova oggi il Pd. Proprio mentre il nuovo partito unico berlusconiano sta per diventare il più grande raggruppamento nazionale del Ppe, che da tempo non è più il partito dei democristiani europei, ma il raggruppamento dei diversi soggetti nazionali di centro-destra: ognuno con la sua storia e la sua identità, ma tutti dalla stessa parte della barricata. Per il Pd è venuto il momento di condurre una discussione trasparente sulle linee politiche. Specie se si considera che l’economia italiana oltre a soffrire di una malattia comune a molti paesi Ocse (un periodo di difficoltà dovuto alla crisi finanziaria internazionale e al prezzo di alcune materie prime) è affetta anche da un malessere tutto italiano (una crescita inferiore alla media europea che dura ormai da più di vent’anni) le cui cause vanno ricercate esclusivamente all’interno del nostro paese. Naturalmente, è comodo per molti incolpare la globalizzazione, l’euro o la Bce, ma i nostri problemi sono interni. E vengono da lontano, visto che il declino del nostro sistema educativo e la stagnazione degli investimenti non nascono certo oggi. La verità è che bisogna che più persone lavorino (i giovani e le donne, per esempio, partecipano pochissimo alla forza lavoro) e che aumenti la produttività. E aumentare la produttività significa lavorare meglio, ridurre i vincoli che impediscono agli imprenditori di fare il loro lavoro, ma al tempo stesso migliorare il welfare, i servizi e il sistema giudiziario. Infatti, il welfare italiano è inadeguato e muove poche risorse dai ricchi ai poveri e le perdite dovute a un sistema giudiziario che non funziona si traducono nell’impossibilità di pagare stipendi più alti, distribuire dividendi o investire di più. Ovviamente, sono tutte cose difficili e impegnative. Ma per conquistare nuovi elettori, bisogna guardare la realtà senza pregiudizi. E il Pd deve promuovere quell’aperta battaglia culturale all’interno del proprio «mondo di riferimento» in difesa di quelle idee che tante volte il centro-sinistra italiano ha annunciato come l’orizzonte della propria azione politica, ma che, a differenza di quanto è accaduto negli altri paesi europei, non ha mai voluto combattere. Ma solo così si può affermare una cultura politica del primato dell’individuo, delle libertà, della cittadinanza e quell’attenzione «strutturalmente diversa» (per usare le parole di Paolo Mieli) che merita il Nord. È di questo che ha bisogno il nostro territorio, non di un partito confederato. Il guaio è che all’indomani della sconfitta, abbiamo tardato ad aprire una discussione politica d’analisi e soprattutto di progettazione. E continua la difficoltà di condurre una discussione trasparente sulle linee politiche; è più facile stare nell’opacità del conflitto interno fra tribù separate non dalla politica ma dalla vecchia appartenenza: popolari e diessini, veltroniani e dalemiani, ecc. Ma è possibile che non abbiamo trovato ancora il modo di concentrarci sulle ragioni della sconfitta alle elezioni regionali? E su queste, il vicepresidente della giunta uscente non ha niente da dire? È possibile che, anziché dalla (incerta) collocazione internazionale del partito o dalla sua attuale forma organizzativa, la sconfitta elettorale sia dipesa dall’insufficienza della sua politica riformatrice, in contrasto stridente con le attesa e le aspirazioni diffuse in una società, quella regionale, profondamente trasformata? Come si fa a stupirsi se il Pd, così com’è combinato, è percepito dagli elettori come il residuo di un passato che non vuole passare e come un partito nato per conservare un’oligarchia? Il fatto è che qualsiasi pretesa di incarnare l’innovazione rimanendo uguali a se stessi è svuotata di ogni credibilità. Oggi i tempi chiedono una nuova fase. E, a Roma come in Friuli, l’unica e vera salvezza del partito è rappresentata dalla possibilità di innescare, già oggi, una competizione di idee e personalità. I democratici americani non sono arrivati a Denver da un giorno all’altro, ma dopo un anno di scontri appassionati dopo i quali si sono stretti attorno a Obama. Non attraverso lo scontro (o gli accordi) tra capibastone, ma con il libero e creativo scontro di idee e di ricette che anima i partiti più dinamici.

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