Monthly Archives: Ago 2015

GIORNALI2011

qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 33 del 25 ottobre 2011 – Per tornare a crescere

Un recente fascicolo di poche pagine della Banca d’Italia ha sintetizzato molto efficacemente, con l’aiuto di grafici e cartine, i nostri «problemi di struttura». Tutte cose note e stranote, sia chiaro. Ma vederle messe in fila senza tanti complimenti, fa una certa impressione. L’opuscolo si apre con due grafici (fonte Oecd) che misurano l’andamento della produttività: il prodotto per ora lavorata e la produttività totale dei fattori. Tra i sei paesi messi a confronto (Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito, Stati Uniti) dal 1993 al 2010, l’Italia, manco a dirlo, è quello messo peggio. Cominciamo da qui: se non si assume l’aumento della produttività (del lavoro e dei fattori) come obiettivo principale, se non c’è uno «scatto» su questo fronte, non c’è politica redistributiva che tenga.

Il dépliant prosegue elencando i nostri problemi strutturali ed evidenziando in modo molto conciso (e perciò crudo e spiacevole) le storture. Scrive l’opuscolo della Banca d’Italia:

1) Istruzione. «Italia in ritardo. Capacità di apprendimento scendono con il grado di istruzione. Elevata dispersione fra studenti determinata da differenza fra scuole → le scuole amplificano i gaps. Circolo vizioso: basso capitale umano, bassa domanda, bassi rendimenti dell’istruzione, bassi incentivi all’accumulazione di capitale umano. Bassa attrattività delle università italiane.»

2) Mercato del lavoroDualismo. «Segmentazione: Effetti negativi sulla produttività del lavoro e su incentivi all’accumulazione di capitale umano. Particolarmente colpiti i giovani. Segmentazione accentuata dal sistema attuale di welfare». I grafici sui salari di ingresso e profili di carriera, sugli indici di protezione e sue componenti, sulla stringenza della protezione, sono eloquenti.

3) ImpreseInternazionalizzazione:«Italia paese esportatore ma pochi investimenti diretti in uscita. Grandi imprese esportatrici più efficienti e innovative. La propensione all’innovazione cresce significativamente con la dimensione, specialmente verso mercati  lontani (Asia)». Dimensione delle imprese:«Media: 4 occupati, indipendentemente dalla specializzazione settoriale. Oggi piccola dimensione inadeguata per innovare. Imprese piccole hanno sofferto di più nella crisi. Le imprese italiane non crescono». Qualità del management: «Dimensione di impresa correlata con proprietà familiare e management tradizionale. Nella manifattura quasi il 60% appartiene a una famiglia con management familiare (25% in Germania, 20% in Francia, 8% in Regno Unito). Management familiare. Decisioni molto centralizzate, scarso uso di incentivi di performance, meno internazionalizzazione e innovazione, maggiore avversione al rischio».

4) ConcorrenzaRegolazione dei servizi professionali e crescita:«Effetti indiretti della regolazione di input chiave (servizi professionali, trasporti e telecomunicazioni, energia) sulla performance dei settori manifatturieri. Riduzione della regolazione dagli alti livelli della Francia al basso livello del Canada aumenta di circa 1 p.p. la crescita della produttività di settori ad alta intensità di servizi (es. Carta e editoria) rispetto a settori a bassa intensità di servizi (prodotti in metallo)». Il  grafico «Average regulation in professional services», 2008, fonte Oecd), mostra che, su 34 paesi, peggio di noi fanno solo Slovenia, Turchia e Lussemburgo. Barriere all’entrata nella distribuzione:«Prevalenza di piccola distribuzione tradizionale al dettaglio. Cambiamenti nella regolazione nel 1998: regolazione della grande distribuzione delegata alle autorità locali →differenze sostanziali nella regolazione locale. Effetti significativi sull’occupazione e sulla produttività».

5) Giustizia civile. «Tempi molto lunghi nel confronto internazionale, molto diversi nel Paese». Il grafico relativo alla durata dei procedimenti (giorni) mostra che l’Italia è 156° su 181 paesi e che la durata dei procedimenti italiani non è nemmeno lontanamente comparabile con quel che avviene nei principali paesi europei.  Inoltre, la mappa che indica la durata, regione per regione, dei procedimenti di cognizione ordinaria (2006) mostra il crescente divario tra il nord e il sud del Paese. La durata dei procedimenti aumenta man mano che si procede verso sud: da 554 giorni a 1512 giorni. Se non si mette mano a questa condizione non c’è politica di sviluppo per il Mezzogiorno che tenga. Infatti, «inefficienze nel sistema creano incertezze e riducono i prestiti. Una riduzione nella lunghezza delle cause civili aumenterebbe la dimensione media delle imprese manifatturiere del 20%».

6) Oneri amministrativi. «In Italia è più oneroso ‘fare impresa’. Un esempio: i permessi di costruzione». Il grafico (fonte Banca Mondiale, Doing Business in 2011) mostra che rispetto a Francia, Germania, Regno Unito, Stati Uniti e anche Spagna i tempi sono fino a cinque volte più lunghi e i costi più onerosi.  «Nel confronto internazionale le procedure amministrative che regolano l’entrata e l’attività di impresa sono lunghe e costose; gli oneri per le imprese derivanti da adempimenti amministrativi sono elevati (secondo stime CE 4,6% del Pil contro 3,5% medio)».

7) Infrastrutture: «La spesa è stata simile a quelle di Ger, Fr e Gb, ma le dotazioni fisiche sono inferiori». Insomma, il grafico mostra che spendiamo più o meno lo stesso e otteniamo molto meno. Come, del resto, per le forze dell’ordine, la giustizia, ecc.

Le conclusioni sono perentorie. Quali riforme? «Rimozione vincoli alla concorrenza e alla attività economica. Migliore contesto istituzionale per l’attività delle imprese. Più capitale fisico, più  capitale umano. Completamento riforme mercato del lavoro». Difficile non essere d’accordo. La domanda è semplice e riguarda sia quel tale che ha promesso mari e monti e di problemi ha risolto solo qualcuno dei suoi, sia quelli che vorrebbero levarsi dai piedi proprio quel tale: che cosa aspettiamo?

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Il Riformista, 27 ottobre 2011 – Appello deputati per Timoshenko

Liberare immediatamente Julia Timoshenko e permettere alla leader dell’opposizione filo-occidentale di Kiev di poter svolgere attivamente la propria attività politica. Lo chiedono con un appello bipartisan promosso dal vicepresidente dei deputati Pd, Alessandro Maran, tutti i rappresentanti dei gruppi parlamentari di Montecitorio. Detenuta dal 5 agosto scorso, la Timoshenko è stata condannata a 7 anni di carcere per abuso di potere nonostante l’alto rappresentante per la Politca estera dell’Ue avesse dichiarato che i rapporti tra l’Unione e l’Ucraina sarebbero stati fortemente compromessi qualora la Timoshenko fosse stata condannata senza piena garanzia dei suoi diritti fondamentali. “Quanto sta accadendo in Ucraina – si legge nell’appello – appare una grave violazione dei principi generali del diritto penale e contrasta con i valori fondamentali di democrazia e stato di diritto su cui l’Unione europea si fonda”.”Chiediamo pertanto al Governo ucraino la liberazione immediata e incondizionata di Julia Timoshenko e ai responsabili politici, ai rappresentanti istituzionali, e a tutti i democratici europei di firmare questo appello, nella speranza di vedere nuovamente rispettati i diritti fondamentali dell’uomo, quali valori universali”. L’appello è firmato da Alessandro Maran (Pd), Roberto Antonione(Pdl), Giampaolo Dozzo (Lega Nord), Ferdinando Adornato (Udc), Fabio Evangelisti (Idv), Aldo Di Biagio (Fli) Matteo Mecacci (Radicali), Silvano Moffa e Massimo Calearo (Popolo e territorio), Giuseppe Giulietti (Misto), Pino Pisicchio (Misto Api), e dai Democratici Sesa Amici, Federica Mogherini, Franco Narducci, Francesco Tempestini e Walter Veltroni.

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qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 37 del 21 novembre 2011 – Dalla guerra civile alla responsabilità

Dunque, il governo Monti nasce «per affrontare con spirito costruttivo e unitario una situazione di seria emergenza». La sua squadra è di alto profilo e la discontinuità con l’esecutivo precedente è molto netta: negli uomini, nei messaggi, nello stile. I giornali di tutto il mondo hanno evidenziato che si tratta di un governo che più tecnico non si può:“Italy unveils government of technocrats” ha scritto The Guardian e Le Monde ha intitolato “Italie: le professeur Monti compose un gouvernement de professeurs”. Ma, a ben guadare, il fatto che sia un governo di tecnici è un aspetto secondario. Il dato fondamentale sta nel fatto che si tratta di un «governo di tregua» – un «governo di impegno nazionale» come lo ha definito il neo-premier – sostenuto da tutte le principali forze politiche. Insomma, ora lo scontro permanente (che ha condotto la politica in un vicolo cieco) dovrebbe lasciare posto alla collaborazione.

Del resto, da tempo il Presidente Napolitano non fa che ripetere che «l’Italia non può ritrovare la sua strada in un clima di guerra politica» e non perde occasione per ribadire che «occorre una straordinaria coesione sociale e nazionale di fronte alle difficoltà molto gravi, alle prove molto dure che l’Italia deve affrontare nel quadro della sconvolgente crisi finanziaria che ha investito l’Europa e che incombe sulle nostre economie e sulle nostre società». E proprio il Capo dello Stato ha affermato che «è indispensabile un riavvicinamento tra i campi politici contrapposti, il che non significa confondersi, non significa rinunciare alle rispettive identità, ma significa condividere gli sforzi che sono indispensabili per riaprire all’Italia una prospettiva di sviluppo e anche per ridare all’Italia il ruolo e il prestigio che le spetta nella comunità europea e nella comunità internazionale». «In realtà i sostenitori della presunta illegittimità democratica del governo Monti – ha puntualizzato Roberto D’Alimonte sul Sole 24 Ore – confondono la sospensione della democrazia con la sospensione della competizione. La competizione tra partiti e tra schieramenti è una modalità del funzionamento della democrazia ma non è la democrazia. Questo governo è nato perché in un clima di scontro permanente non è possibile prendere le decisioni necessarie per far uscire il paese dalla crisi. In questo momento alla competizione tra opzioni partigiane va sostituita la collaborazione su un programma comune». Specie se si considera che bisogna cambiare molte cose sia nelle politiche che nel modo di fare politica, nel modo di produrre e di lavorare, nel modo di vivere e di comportarsi di tutti noi.

Non si passerà dalla guerra civile alle responsabilità condivise in un attimo. Ma il governo Monti, e cioè l’attuale collaborazione tra diversi, si fonda sulla consapevolezza condivisa della gravità della crisi. «Per il ritorno alla competizione –  conferma D’Alimonte  – c’è tempo».

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qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 38 del 29 novembre 2011 – Americans Elect: il terzo polo negli US

Il Terzo Polo sembra tentare anche gli americani. Incoraggiato dall’incapacità della speciale commissione del Congresso di raggiungere un accordo sulla riduzione del debito, l’inquieto centro politico americano sta cercando di inserirsi nelle elezioni del 2012. Un gruppo bipartisan conosciuto come Americans Elect ha raccolto 22 milioni di dollari e pare voglia piazzare un terzo candidato in ogni Stato il prossimo anno. L’obiettivo è quello di fornire un’alternativa al presidente Obama e al candidato del GOP e rompere la tradizione del confronto tra un Democratico e un Repubblicano.

Il tentativo potrebbe rappresentare un’occasione promettente per i moderati americani che vedono aprirsi uno spazio al centro del panorama politico dato che l’ingorgo congressuale e gli aspri scontri partigiani hanno fatto precipitare i consensi per entrambi i partiti. «Gli elettori sono amareggiati dall’incapacità della gente di Washington di gestire le questioni che per la gente davvero contano» ha detto al Washington Post il direttore del gruppo Kahil Byrd, uno stratega repubblicano che lavorava per il Governatore democratico del Massachusetts. Stando al giornale, Americans Elect potrebbe trovare uno spazio in Florida, Michigan, Nevada, Ohio ed in altri cinque Stati. Ma, innanzitutto, il gruppo fa affidamento sul progetto ambizioso di tenere una convention su Internet, in modo che ciascuno degli elettori registrati, come i fan di «American Idol», avrebbe la possibilità di scegliere il loro candidato preferito. «Vogliamo radunare milioni di persone e consentire loro di partecipare autenticamente al processo» ha dichiarato Byrd al Washington Post.

A differenza del Green Party, Americans Elect non sta dando vita ad un nuovo partito, ma sta cercando di cambiare il processo politico. In due modi.  In primo luogo, il gruppo cerca di costruire un «nonpartisan ticket», mescolando i partiti e chiedendo al candidato alla presidenza di presentare un compagno di un diverso partito. In secondo luogo,American Elect vuole portare il processo di selezione fuori dalle mani dei pochi elettori delle primarie e farlo diventare più aperto attraverso l’uso della tecnologia. Gli elettori registrati che si iscrivono sul sito web del gruppo selezioneranno direttamente online i candidati. La selezione finale avverrà in giugno. Secondo Nico Mele – che insegna ad Harvard tecnologia e politica e che ha aiutato a costruire un seguito online per l’ex candidato alla presidenza Howard Dean – tutto questo potrebbe influenzare le elezioni del 2012. Al punto che il processo online per la nomination di Americans Elect potrebbe essere «potenzialmente distruttivo».

L’insostenibile partigianeria di Washington ha partorito anche altri nuovi gruppi. Una organizzazione conosciuta come No Labels è sostenuta da Bloomberg e sta spingendo membri del Congresso a collaborare. Upward Spiral, un’iniziativa sostenuta dal fondatore di Starbucks, Howard Schultz, sta spronando gli americani a negare le elargizioni ad entrambi i partiti per protestare contro l’atmosfera eccessivamente settaria. Nessuno  di questi gruppi sostengono il progetto di Americans Elect di proporre un terzo ticket. Ma gli americani sono stanchi di una politica «as usual». Insomma, parecchia gente vuole superare le tradizionali divisioni fra destra e sinistra ed essere protagonista di una nuova fase politica post-ideologica; tanta gente non vuole rassegnarsi allo status quo, perché pensa che non funzioni. Anche in America.

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qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 40 del 13 dicembre 2011 – Nostalgia di Monica

La crisi finanziaria incide duramente su molte vite e non c’è dubbio che ora, a vent’anni di distanza da quando James Carville scrisse ‘It’s the economy, stupid’ su un cartello nel quartier generale della campagna presidenziale di Bill Clinton nel 1992,  che il problema sia l’economia lo vedono anche i ciechi.

Può darsi che nel 1992 il cattivo andamento dell’economia degli Stati Uniti abbia davvero fatto eleggere Clinton, ma «chiunque allora sperasse di guidare il mondo libero», come rimarca Simon Kuper in un spiritoso articolo sul supplemento domenicale del Financial Times, doveva rispondere ad alcune altre fondamentali domande:«Clinton ha mai fumato marijuana? E’davvero andato a letto con Gennifer Flowers? Nei paesi occidentali, agli elettori importavano ancora questioni d’identità. Volevano leader che almeno fingessero di condividere i loro valori». Ora non è più così: «Vent’anni dopo, Carville ha definitivamente ragione. Il sesso, la droga e le vecchie guerre stanno svanendo dalla testa degli elettori, lasciando l’economia come l’unico vero argomento in politica. Non è detto che il cambiamento sia un bene. Ogni paese era solito avere il suo tipo peculiare di identità politica. Il sesso, la razza e la forza virile americana hanno avuto una grande influenza negli Stati Uniti».

«Nel 2000 – prosegue Kuper – George W Bush fu eletto promettendo ‘di restaurare onore e dignità nello Studio Ovale’, il che nel codice del tempo significava ‘niente sesso orale’. Vinse ancora nel 2004 dopo che gli annunci Swift Boat insinuarono il dubbio sul coraggio di John Kerry durante la guerra in Vietnam. Gli elettori inglesi furono a lungo guidati dalle loro convinzioni sugli omosessuali, gli adulteri e le ragazze madri. Gli elettori italiani si dividevano tra chi credeva in Dio e chi no. In Olanda, quel che contava era appunto quale fosse il Dio in cui credere. E dovunque incombeva l’ombra della seconda guerra mondiale. Charles De Gaulle guidò la Francia fino al 1969 anche perché rappresentava quel pezzo di Francia che aveva scelto la parte giusta nel 1940. Dopo la guerra, l’intero paese voleva quella reputazione».

Insomma, Simon Kuper ritiene che lo spostamento dall’identità politica a quella economica, abbia avuto una lunga gestazione ma sia stato consacrato il 15 settembre 2008 quando collassò la Lehman Brothers: «John McCain era il candidato repubblicano, principalmente perché era stato torturato in Vietnam e sembrava, perciò, incarnare il coraggio americano. Non ha mai finto di capire l’economia. Ma nel dopo-Lehman, l’economia era improvvisamente diventata decisiva. E McCain perse le elezioni».

Ora agli elettori importa pochissimo dell’identità dei politici. «Gli Stati Uniti – insiste Kuper – sono guidati da un nero, l’Islanda da una lesbica, i conservatori scozzesi da una kick-boxer lesbica e il Regno Unito da un vecchio Etoniano. Nessun politico oggi pagherebbe Carville per farsi dire ‘It’s the economy, stupid’, perché la verità è sotto gli occhi di tutti. Perfino i partiti razzisti dell’Europa settentrionale stanno cambiando e dal colpevolizzare i mussulmani passano a condannare il salvataggio greco. I nuovi movimenti di massa americani, il Tea Party e Occupy Wall Street, hanno nomi esplicitamente economici. Il grido di guerra di quest’ultimo,’We are the 99 per cent’, si riferisce a una rilevazione statistica sulla distribuzione del reddito che prima del 2008 era a stento conosciuta all’esterno delle facoltà di economia delle università. Solo nel tempo deformato delle primarie americane dei Repubblicani possono ancora per davvero trionfare discussioni su Dio, le armi e gli omosessuali».

Insomma, gli italiani si sono liberati di Berlusconi per l’incapacità del governo di arginare il drammatico aggravarsi e l’annunciata caduta nel baratro dell’economia italiana e non per le sue abitudini sessuali. Un passo avanti? In Italia, sicuro. Specie se si considera che a forza di carnevalate abbiamo sprecato almeno un decennio. Ma Kuper insinua il dubbio: «Votare sulle questioni economiche sembra una cosa da adulti. Sfortunatamente, gli elettori non sono attrezzati a farlo. Bisogna riconoscere che il vantaggio del sesso orale è che ciascuno ha un’opinione sull’argomento. Ma ora gli elettori stanno cercando di giudicare questioni che confondono perfino gli economisti di professione (…) Gli Stati Uniti hanno bisogno di uno stimolo fiscale? I Greci hanno bisogno dell’euro?» Insomma, «gli elettori sono lasciati a compiere scelte alla cieca. Se solo potessimo ancora dibattere su Monica Lewinsky».

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qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 41 del 20 dicembre 2011 – Monti e la fine della politica del cucù

Mai come in questo periodo politica interna ed estera sono tanto strettamente collegate. Come ha rilevato il New York Times, «a conti fatti, a mettere fine ai diciassette anni di Berlusconi come figura dominante nella vita politica italiana non sono stati gli scandali sessuali, i processi per corruzione e neppure il venir meno del consenso popolare. E’ stata, invece, la pressione dei mercati (…) e l’Unione europea, che non poteva rischiare di trascinare a fondo l’euro e con esso l’economia mondiale». Niente di nuovo, a dire il vero. Lo ha ricordato Cesare Merlini su Affari Internazionali: «Anche negli anni settanta si lamentava il vulnus alla sovranità nazionale, intendendo le pressioni americane per non includere il Pci in una coalizione di governo. Adesso si tratta della sorveglianza speciale di cui siamo oggetto da parte delle istituzioni europee e mondiali». E l’asimmetria che si riscontra oggi «non deriva da prevaricazione altrui, bensì dallo stato di demandeur in cui il paese si trova: super indebitato e destabilizzante». Una differenza ovviamente c’è: allora l’alternativa era fra Ovest ed Est, «mentre adesso è fra dentro o fuori le principali sedi decisionali – fuori, cioè, come problema o dentro come attore per risolverlo».

Le difficoltà dell’Italia derivano in buona parte da una concezione dei rapporti internazionali (che il Financial Times, vedendo Berlusconi sbucare dalla fontana dietro la Merkel, ha definito la «peekaboo politics», la politica del «cucù») in cui la chiave era il grado di intimità che il Presidente del Consiglio riusciva a stabilire con i leader stranieri. Una strategia che con Putin ha suscitato forti riserve presso i nostri alleati e con Gheddafi ha prodotto risultati grotteschi e indecorosi.

E’ tempo di venirne fuori. E il governo Monti ha la possibilità («Con il nuovo primo ministro la stella italiana può risorgere nell’Unione Europea» ha titolato il New York Times),  oltre che il bisogno (annunciando la sua visita alla Casa Bianca nel mese di gennaio, Monti ha dichiarato: «il segretario al Tesoro Usa ci ha assicurato di avere un vivo e duraturo interesse per l’Italia»), di compiere alcuni passi nella giusta direzione. Soprattutto se si tiene presente che «le risposte a questa crisi passano attraverso una coesa azione di politica estera». C’è una prima necessità : quella di ristabilire una presenza adeguata al nostro ruolo nell’Unione europea, che non si esaurisca nel restare nell’Euro. Anche perchè, come avvertiva Riccardo Perissich, «nulla sarà veramente irreversibile finchè non verrà data all’integrazione anche una dimensione politica». Ma anche i due versanti obbligati della politica estera italiana (la sponda Sud del Mediterraneo e i Balcani) e la dimensione globale (l’Italia, ha detto il ministro Terzi, «è una realtà globale, con interessi globali») acquistano un crescente rilievo. Cambiamenti strutturali stanno rimodellando non solo la politica italiana ma il vasto mondo. La classe media in Cina e in India sta crescendo al ritmo di 50 milioni l’anno, creando un mercato per i prodotti asiatici finora diretti verso ovest, mentre in Occidente la classe media patisce le ristrettezze economiche e l’incertezza, e i poveri il pericolo di essere lasciati indietro.  Il punto non è più la globalizzazione, ma lo spostamento nel balance of power.  E poichè gli Stati Uniti limitano il loro impegno, ai paesi europei spetta di contribuire (in un contesto di risorse scarse) allo sforzo di ridurre minacce e conflittualità . Per l’Europa, è l’occasione per accelerare il decollo della difesa comune.

Non per caso, il pressing degli Usa nei giorni e nelle ore precedenti al vertice di Bruxelles è stato senza precedenti. A tutti i leader europei gli Usa hanno rivolto lo stesso messaggio: «La crisi va risolta». Sono in gioco le conseguenze che tale scenario avrebbe sulla popolazione americana (la crisi – ha rimarcato Obama – può avere «un enorme impatto, anche negli Usa, sull’economia che comincia a dare i primi segnali di ripresa e sulla capacità di creare posti di lavoro») e anche le speranze di Obama (che una nuova recessione potrebbe affossare) di essere rieletto presidente il prossimo novembre. Ma c’è dell’altro. Gli Stati Uniti stanno intensificando il loro impegno in Asia e nel Pacifico. Come ha chiarito Hillary Clinton nel suo lungo articolo America’s Pacific Century: «We are proud of our European partnerships and all that they deliver. Our challenge now is to build a web of partnership and institutions across the Pacific that is as durable and as consistent with American interests and values as the web we have built across the Atlantic».

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l’Unità, 24 dicembre 2011 – Italia ed Europa. Il momento delle scelte

lUnita.24.12.11

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Europa, 26 gennaio 2012 – Le sinistre con le forbici

Il capitalismo, si sa, è in crisi. Eppure nessuna nuova teoria, nessuna visione economica alternativa ha ancora modificato il suo attuale disegno neoliberale e la narrazione del centrodestra tiene banco dappertutto. Al punto che il governo spagnolo ha annunciato che tra i meccanismi che introdurrà per garantire il controllo del deficit pubblico ci sarà anche una riforma della Ley de Trasparencia del Gobierno.
La proposta avanzata dall’esecutivo di Mariano Rajoy è che i governanti spendaccioni debbano affrontare «responsabilità penali». Insomma, per la prima volta negli ultimi cent’anni, il centrosinistra è all’opposizione in tutti i principali paesi europei: Germania, Gran Bretagna, Francia, Italia, Spagna, Olanda, Svezia.
Secondo il pensatoio britannico Policy Network, parte del problema sta proprio nel fatto che i partiti del centrosinistra sono impantanati dovunque sulla questione del debito e del deficit. Ma oggi affrontare gli inevitabili vincoli fiscali – come sottolinea il think-tank laburista in un recente pamphlet, intitolato In the Black Labour. Perché conservatorismo fiscale e giustizia sociale vanno a braccetto – è una precondizione necessaria proprio per contribuire a plasmare il prossimo stadio del capitalismo. Non a caso il leader del Labour Party, Ed Miliband, con un repentino cambio di strategia (che immancabilmente ha fatto infuriare il sindacato), ha collocato il suo progetto (per un paese più giusto e un capitalismo più responsabile) in un contesto in cui c’è meno denaro da spendere, sostenendo che «è responsabilità del Labour trovare un nuovo approccio per i momenti difficili».
Sono inglesi, si dirà. Noi confidiamo nel successo dei socialisti francesi e, più ancora, dei socialdemocratici tedeschi. Se dovessero vincere – sostengono in molti nel Pd – le cose si aggiusteranno. Incrociamo (ovviamente) le dita, ma le cose stanno davvero così? Secondo una recente indagine, la principale preoccupazione dei tedeschi è proprio il debito pubblico: il 63 per cento degli intervistati si dice preoccupato del livello di indebitamento. Poi viene il timore circa il destino delle future pensioni e (fatalmente, anche in Germania) la preoccupazione per i politici inetti.
In sintonia con la pubblica opinione, negli ultimi anni la Spd tedesca ha preso una posizione molto ferma sulla politica fiscale.
In termini generali, la linea del partito coincide con la filosofia delineata da Policy Network. I socialdemocratici tedeschi hanno, infatti, definito obiettivi precisi per la riduzione del deficit e stabilito chiare priorità di spesa. Può sembrare inconsueto che sia un partito di opposizione (di sinistra) a invocare una dura disciplina di bilancio, ma ciò deve essere visto alla luce dei livelli storici d’indebitamento della Germania fin dagli anni ’70.
Alla fine del 2010, il debito ha superato la barriera dei due trilioni di euro. Il che significa che ogni nuovo nato (anche lì) è in debito di 25mila euro. Senza contare che la pressione sui bilanci è destinata ad aumentare considerevolmente nei prossimi anni per effetto dell’andamento demografico: un “debito implicito”, come lo chiamano gli esperti, che eccede di gran lunga il “debito esplicito”. Non è stato sempre così. Nel 1970 il debito nazionale ammontava al 18 per cento del pil.Da allora, il debito è cresciuto al 40 per cento nel 1989, l’anno precedente l’unificazione. Nel periodo che precede la crisi finanziaria del 2008, era del 64 per cento. Oggi il debito ammonta all’82 per cento del prodotto nazionale, vale a dire 22 punti percentuali sopra il limite di Maastricht.
Secondo Michael Miebach, senior editor del Berliner Republik, l’espansione del debito ha a che fare in primo luogo con «i segni lasciati dall’unificazione tedesca (che si stima sia costata finora circa 1,5 trilioni di euro) e dalla crisi economica successiva al 2008, che ha condotto a misure di stabilizzazione del sistema bancario e dell’economia.
La seconda ragione è il modello di spesa pubblica degli ultimi quarant’anni. Spesso i governi tedeschi hanno aumentato la spesa allo scopo di stimolare l’economia, ma poi non hanno ridotto il deficit neppure nei periodi di boom. Anzi, hanno aumentato ulteriormente le spese, qualche volta assieme al taglio delle tasse».
In questo contesto, la Spd ha acconsentito a rendere operante un argine costituzionale al debito durante la grande coalizione nel 2009, nonostante la forte opposizione, nel partito, dei sostenitori di una politica di maggior «respiro» del bilancio. L’approvazione del vincolo all’indebitamento è stata una decisione storica che influenzerà la politica fiscale dell’Spd per il futuro prevedibile. Coerentemente, infatti, il piano finanziario che il partito ha adottato nella sua Conferenza nazionale del dicembre scorso si conforma completamente con gli obiettivi prestabiliti dal limite all’indebitamento. Il «Patto per l’educazione e la riduzione del debito» dei socialdemocratici comprende un piano dettagliato (che ha suscitato reazioni positive nei media) per eliminare il deficit federale entro il 2016 attraverso tagli di spesa e una crescita moderata delle tasse per i più ricchi.
Il Patto designa, inoltre, chiare priorità di spesa (soprattutto investimenti nella formazione e più soldi alle città cronicamente sotto finanziate) e stabilisce una cornice politica che avrà conseguenze restrittive per tutti gli altri campi nei quali i socialdemocratici potrebbero farsi venire in mente nuove idee, potenzialmente costose. Insomma, anche per la Spd, il «conservatorismo fiscale» è oggi un presupposto indispensabile per la politica socialdemocratica.

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qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 47 del 7 febbraio 2012 – Fermiamo Assad

Finitelo“. Così il magazine americano Foreign Policy ha intitolato il pezzo con il quale Daniel Byman ha cercato di spiegare perché il mondo ha bisogno di togliersi dai piedi il dittatore siriano Bashar al-Assad e perché senza l’intervento internazionale c’è il rischio che Assad continui invece a governare ancora per anni.

La guerra civile è cominciata da tempo, la crisi si è internazionalizzata (la Turchia è da tempo impegnata a ricevere profughi siriani e a ospitare le forze armate libere della Siria) e sono in molti a pensare che il presidente siriano abbia i giorni contati, eppure Assad potrebbe rimanere in sella ancora per un pezzo. Specie se non è pressato da attori esterni. Certo, nonostante la morte di 5000 dimostranti e l’arresto di altre migliaia, i siriani hanno coraggiosamente sfidato il regime che sembra incapace di domarli. E senza dubbio il sostegno internazionale ad Assad si è indebolito.

In agosto il presidente Obama ha dichiarato «E’ venuto il momento per il presidente Assad di fare un passo indietro»; l’Unione europea si è associata agli Stati Uniti e ha imposto sanzioni contro il regime siriano, anche sulle forniture di petrolio. Nel frattempo, la Lega Araba ha ripetutamente chiesto il cessate il fuoco e ha cercato di raggiungere un’intesa per il passaggio dei poteri. Il presidente siriano ha respinto gli appelli per un regime change, ma il collasso dei commerci e degli investimenti e la massiccia fuga di capitali gli stanno alienando le simpatie di molti siriani, senza contare che il regime tra non molto faticherà a pagare i suoi servizi di sicurezza. Piuttosto che uccidere i propri connazionali, migliaia di soldati hanno abbandonato l’esercito siriano. Le diserzioni stanno aumentando e molti militari sono consegnati nelle loro caserme perché il regime non si fida di loro.

L’Esercito Siriano Libero, composto (apparentemente) in larga parte da disertori, sta diventando più forte e sta operando liberamente nella maggior parte del paese. Insomma, il regime è stato colpito duramente. Eppure Assad non è finito e può giocare ancora parecchie carte. Secondo Byman, può contare ancora sulla lealtà dei militari e dei servizi di sicurezza. Specie degli ufficiali, che per la maggior parte vengono dalla comunità alawita. L’opposizione è dominata dalla maggioranza sunnita (sostenuta da paesi arabi del Golfo) e la minoranza alawita ha ragioni viscerali per resistere al regime change. Non per caso, Assad ha cercato di cooptare altri gruppi minoritari (cristiani, drusi, curdi) che temono che il crollo del regime possa condurre a massacri.

Le sanzioni hanno indebolito la popolarità del regime, ma quando le risorse diventano scarse stare dalla parte di chi comanda diventa più importante ancora: chi ha le armi mangia per primo e l’opposizione mangia per ultima. Tanto per fare un esempio, Saddam ha resistito alle sanzioni per un decennio e per abbatterlo c’è voluta l’invasione. Oltretutto, insiste Byman, Assad non è da solo. L’Iran può garantire al regime sostegno economico e armi a sufficienza. Lo stesso possono fare gli Hezbollah attraverso il Libano. E lo stesso governo iracheno può distogliere lo sguardo mentre i trafficanti trasportano merci e armi in Siria dall’Iraq. Inoltre, c’è la Russia, un fornitore d’armi e (come abbiamo visto) un ostacolo inamovibile alle Nazioni Unite, che può bloccare gli sforzi internazionali per isolare il regime.

C’è inoltre la disorganizzazione dell’opposizione e non c’è un leader carismatico che possa unire l’opposizione che ha forti identità (e divisioni) regionali e locali. Insomma, il dittatore siriano non è abbastanza forte per sottomettere l’opposizione, ma gli oppositori non sono forti abbastanza per cacciarlo. Uno scenario perfetto per una guerra civile permanente.

Per andarsene, Assad ha bisogno di una spinta della comunità internazionale. In Libia, uno dei passi più importanti intrapresi dagli occidentali è stato proprio quello di mettere in piedi l’opposizione libica in modo da farne una istituzione più rappresentativa e più efficace. Ma l’Occidente (che ha una posizione molto defilata) non deve escludere l’intervento e, anzi, l’opzione deve rimanere sul tavolo per segnalare che l’opposizione al regime non può essere spazzata via con la forza e che l’intervento (che verosimilmente potrebbe essere turco o arabo) sarà tanto più probabile quanto più Assad si rifiuterà di uscire di scena. Il che potrebbe convincere molti lealisti che è tempo di abbandonare la nave prima che affondi e prima che nell’opposizione cresca la voglia di vendetta e diventi perciò meno disposta a trattare.

In caso contrario, lo spargimento di sangue continuerà per un pezzo, con il rischio di inghiottire altri paesi vicini come la Turchia e Israele; con il rischio distruggere gli sforzi dell’Iraq di ricostruzione dell’assetto statale, di accrescere le tensioni tra l’Iran e l’Occidente e di restituire credibilità agli autocrati nel mondo arabo, quando affermano che l’alternativa alla tirannia non è la libertà ma il caos. Non è poco.

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GIORNALI2012

Il Piccolo, 16 febbraio 2012 – Maran: «Possiamo cercare l’anti-Tondo anche fuori dal Pd»

Il parlamentare si dice «a disposizione» del partito ma apprezza le possibili candidature di Bolzonello e Honsell

 

 

di Marco Ballico

Si dice «a disposizione» ma non annuncia discese in campo. Alessandro Maran, alla vigilia della convention organizzata dall’associazione Luoghi Comuni, domani al Savoia Excelsior di Trieste, pensa alla «visione d’insieme». Quella che deve elaborare il Pd prima di individuare l’anti-Tondo. Le mille anime del partito? Il deputato isontino non si preoccupa e, come Debora Serracchiani che invita a pensare al programma prima che alle caselle, afferma: «L’importante è che si discuta di cose». Qual è il significato dell’incontro di domani? Continuo a pensare che possiamo vincere le prossime elezioni. Ma, nel decennio più traumatico per l’Occidente dagli anni ’30, il Pd deve dimostrare di comprendere il momento. Lo scopo di una politica di centrosinistra è di mettere le persone in condizione di avere più controllo sulle loro vite, proteggerle dai rischi e aiutarle a migliorare le comunità in cui vivono. Le domande non riguardano quello che vorremmo ottenere, ma come fare per raggiungerlo. Domande che vanno al cuore della nostra credibilità e affidabilità. Discuteremo di questo. E’ un Pd regionale diviso, lo ammette? Trovo normale che si discuta e ci siano posizioni diverse. Purché ovviamente si discuta di cose. Succede in tutti i grandi partiti occidentali. I democratici si sono stretti attorno a Obama dopo un anno di scontri appassionati. Il libero e creativo scontro di idee e ricette serve a far emergere una piattaforma e una figura in grado di ripartire e di giocarsi una nuova partita. Che responsabilità hanno il segretario e il gruppo di queste spaccature? All’origine di molte delle difficoltà c’è la sconfitta del 2008. Ma dobbiamo smetterla di essere dispiaciuti per noi stessi e ritrovare la fiducia per dimostrare daccapo che le tesi giuste sono le nostre. Che ne pensa dell’intenzione del segretario di non candidarsi? Bisogna rispettare le scelte di ciascuno. Anche perché Serracchiani non scappa in Messico e continua a battersi con tutti noi per cambiare le cose. Se non Serracchiani, chi? Il punto di partenza è discutere della nostra visione del futuro e di come metterla in pratica. Viviamo una fase storica di drammatiche sfide esterne e la nostra ossessione deve essere come far crescere economia e standard di vita. E dobbiamo dimostrare che siamo pronti a sfidare lo status quo e non solo a difenderlo. Se non lo fa il Pd non lo fa nessuno? La destra ha badato solo a rassicurare gli ancoraggi sociali e culturali di un tempo. Non ha neppure provato a cambiare la regione. Ma i tempi chiedono una nuova fase. Lei è a disposizione? Per quel che può servire. L’anti-Tondo può essere pescato fuori dalla politica? Con la nascita del Pd, volevamo costruire un grande partito riformista, il naturale perno della alternativa al centrodestra. Un partito con un consenso elettorale largamente maggioritario nel suo campo; con un programma fondamentale che è la base naturale del programma di governo della coalizione; con una leadership individuale e collettiva che è naturalmente la leadership della coalizione. Non ho cambiato idea. Bolzonello e Honsell sono candidati che la convincono? Di prim’ordine. Ma, se vogliamo contare su una piattaforma di cambiamento, dobbiamo impostare una competizione di idee e di visione per la guida della Regione. E il Pd deve riscoprire la passione politica e un modo efficace di trasmettere all’opinione pubblica la sua visione del paese. Poi verranno le alleanze. Quanto alto é il rischio Genova anche in Fvg? Sono certo che impareremo dagli errori. Quali tappe e tempi per candidato, coalizione e programma? Saranno stretti, presumo. Si vota l’anno prossimo. Immagina un confronto bipolare o nuove alleanze? Il bipolarismo è entrato nella cultura politica degli italiani e, anche nella nostra regione, ogni forza politica è ormai legittimata a governare. Oltretutto c’è l’elezione diretta. In altre parole, l’alleanza può essere ampia, coesa e credibile proprio perché è organizzata attorno alla leadership.

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