GIORNALI2011

qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 41 del 20 dicembre 2011 – Monti e la fine della politica del cucù

Mai come in questo periodo politica interna ed estera sono tanto strettamente collegate. Come ha rilevato il New York Times, «a conti fatti, a mettere fine ai diciassette anni di Berlusconi come figura dominante nella vita politica italiana non sono stati gli scandali sessuali, i processi per corruzione e neppure il venir meno del consenso popolare. E’ stata, invece, la pressione dei mercati (…) e l’Unione europea, che non poteva rischiare di trascinare a fondo l’euro e con esso l’economia mondiale». Niente di nuovo, a dire il vero. Lo ha ricordato Cesare Merlini su Affari Internazionali: «Anche negli anni settanta si lamentava il vulnus alla sovranità nazionale, intendendo le pressioni americane per non includere il Pci in una coalizione di governo. Adesso si tratta della sorveglianza speciale di cui siamo oggetto da parte delle istituzioni europee e mondiali». E l’asimmetria che si riscontra oggi «non deriva da prevaricazione altrui, bensì dallo stato di demandeur in cui il paese si trova: super indebitato e destabilizzante». Una differenza ovviamente c’è: allora l’alternativa era fra Ovest ed Est, «mentre adesso è fra dentro o fuori le principali sedi decisionali – fuori, cioè, come problema o dentro come attore per risolverlo».

Le difficoltà dell’Italia derivano in buona parte da una concezione dei rapporti internazionali (che il Financial Times, vedendo Berlusconi sbucare dalla fontana dietro la Merkel, ha definito la «peekaboo politics», la politica del «cucù») in cui la chiave era il grado di intimità che il Presidente del Consiglio riusciva a stabilire con i leader stranieri. Una strategia che con Putin ha suscitato forti riserve presso i nostri alleati e con Gheddafi ha prodotto risultati grotteschi e indecorosi.

E’ tempo di venirne fuori. E il governo Monti ha la possibilità («Con il nuovo primo ministro la stella italiana può risorgere nell’Unione Europea» ha titolato il New York Times),  oltre che il bisogno (annunciando la sua visita alla Casa Bianca nel mese di gennaio, Monti ha dichiarato: «il segretario al Tesoro Usa ci ha assicurato di avere un vivo e duraturo interesse per l’Italia»), di compiere alcuni passi nella giusta direzione. Soprattutto se si tiene presente che «le risposte a questa crisi passano attraverso una coesa azione di politica estera». C’è una prima necessità : quella di ristabilire una presenza adeguata al nostro ruolo nell’Unione europea, che non si esaurisca nel restare nell’Euro. Anche perchè, come avvertiva Riccardo Perissich, «nulla sarà veramente irreversibile finchè non verrà data all’integrazione anche una dimensione politica». Ma anche i due versanti obbligati della politica estera italiana (la sponda Sud del Mediterraneo e i Balcani) e la dimensione globale (l’Italia, ha detto il ministro Terzi, «è una realtà globale, con interessi globali») acquistano un crescente rilievo. Cambiamenti strutturali stanno rimodellando non solo la politica italiana ma il vasto mondo. La classe media in Cina e in India sta crescendo al ritmo di 50 milioni l’anno, creando un mercato per i prodotti asiatici finora diretti verso ovest, mentre in Occidente la classe media patisce le ristrettezze economiche e l’incertezza, e i poveri il pericolo di essere lasciati indietro.  Il punto non è più la globalizzazione, ma lo spostamento nel balance of power.  E poichè gli Stati Uniti limitano il loro impegno, ai paesi europei spetta di contribuire (in un contesto di risorse scarse) allo sforzo di ridurre minacce e conflittualità . Per l’Europa, è l’occasione per accelerare il decollo della difesa comune.

Non per caso, il pressing degli Usa nei giorni e nelle ore precedenti al vertice di Bruxelles è stato senza precedenti. A tutti i leader europei gli Usa hanno rivolto lo stesso messaggio: «La crisi va risolta». Sono in gioco le conseguenze che tale scenario avrebbe sulla popolazione americana (la crisi – ha rimarcato Obama – può avere «un enorme impatto, anche negli Usa, sull’economia che comincia a dare i primi segnali di ripresa e sulla capacità di creare posti di lavoro») e anche le speranze di Obama (che una nuova recessione potrebbe affossare) di essere rieletto presidente il prossimo novembre. Ma c’è dell’altro. Gli Stati Uniti stanno intensificando il loro impegno in Asia e nel Pacifico. Come ha chiarito Hillary Clinton nel suo lungo articolo America’s Pacific Century: «We are proud of our European partnerships and all that they deliver. Our challenge now is to build a web of partnership and institutions across the Pacific that is as durable and as consistent with American interests and values as the web we have built across the Atlantic».

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