Monthly Archives: Ago 2015

GIORNALI2013

Il Gazzettino, 19 settembre 2013 – IL SALTO DI MASSA SUL CARRO DI RENZI

Non molti mesi fa, non c’era un dirigente del Pd che fosse disposto a prendere un caffè con Matteo Renzi che, solo per citare Rosy Bindi, non era che «un frutto di questa epoca di berlusconismo». Allora, a sostenerlo, tra i duecento e passa deputati del Pd, eravamo in quattro gatti. Oltre al sottoscritto, c’erano Mario Adinofi, Paolo Gentiloni, Roberto Giacchetti, Ermete Realacci, Fausto Recchia, Andrea Sarubbi, Giuseppina Servodio e Sebastiano Vassallo. Niente a che vedere, ovviamente, con la storia dei dodici professori universitari (12 su 1250) che dissero di no a Mussolini, ma anche questa vicenda marginale la dice lunghissima sull’aria che tirava (?) nel Pd solo pochi mesi fa, sull’atmosfera culturale che si respira nel nostro Paese e sul conformismo dell’intellighenzia di sinistra italiana; e ci ricorda che dire no è un gesto semplice solo in apparenza.

Ora non c’è militante, non c’è assessore di provincia che non voglia mettergli in capo una corona e proclamarlo imperatore galattico della sinistra. Anche Franceschini, Fassino e perfino Fioroni adesso stanno dalla sua parte. Anche uno come Gherghetta, ovviamente. Al punto che D’Alema, di fronte a tante improvvise «conversioni», non ha nascosto di provare «fastidio», perché «a tutto c’è un limite: i congressi si possono vincere o perdere, ma non la dignità».

Niente di nuovo, sia chiaro. Gli italiani, si sa, corrono sempre in  soccorso del vincitore; e si sa che a sinistra (in Italia) le idee dei riformisti di solito vengono «indossate» dal vecchio gruppo dirigente con vent’anni di ritardo, di norma dopo aver emarginato ed epurato i «revisionisti» che avevano osato proporle. E’ stato così anche nel recente passato: dalla svolta della Bolognina all’Ulivo e alla nascita del Pd. Senza contare che ora Renzi sembra aver cambiato programma. Anche grazie all’apporto culturale di personalità come il giuslavorista Pietro Ichino, nel frattempo passato a Scelta civica, Renzi l’anno scorso sembrò un riformatore. Nei suoi discorsi (e nel suo programma) il sindaco di Firenze aveva ripreso quasi tutte le idee-chiave della sinistra liberale e, con queste idee, aveva provato a sfidare la maggioranza del Pd. Infatti, il suo appello agli elettori delusi da Berlusconi fu la vera rupture rispetto agli ultimi anni di vita del Pd, più forte della stessa rottamazione. Ora Renzi sembra puntare invece a rassicurare i militanti. Non per caso ha scelto di rivolgersi al «popolo del Pd» da un luogo iconico e identitario come la festa dell’Unità dell’Emilia. Peccato che Bill Clinton, Tony Blair e Gerhard Schröder (forse i tre leader mondiali che più hanno cambiato le rispettive sinistre) abbiano fatto la scelta opposta, rompendo tabù e cinghie di trasmissione (a cominciare dal sindacato), rinunciando alla rendita di consolidati bacini elettorali e mettendo in discussione le vecchie identità. Nel Pd al contrario l’ala veterostatalista da molto tempo ha preso il sopravvento e ha scelto di usare la crisi finanziaria e politica per tornare alle vecchie certezze sul ruolo dello stato in economia, sulle modalità di regolamentazione del mercato del lavoro e su parecchie altre cose. Di fronte a questa offensiva, la cultura dei riformisti è stata sopraffatta. Le voci che si sono levate nel partito per difendere non tanto una qualche astratta nozione di liberalismo ma molto semplicemente un approccio pragmatico e non ideologico alla politica economica (per ridisegnare gli incentivi nel settore sanitario e nell’educazione, per ripensare l’opportunità dell’attuale, soffocante, tassazione di lavoro e impresa o per riformare la pubblica amministrazione, la giustizia e le istituzioni) sono state pochissime e assolutamente minoritarie. Si sa che Parigi val bene una messa, ma è su queste scelte strategiche per l’economia e la società che si fonda una leadership nuova, non sull’usuale rassicurante scelta identitaria.

Leggi Tutto
GIORNALI2013

MessaggeroVeneto, 16 ottobre 2013 – «Mancano politiche attive per ricollocare i lavoratori»

Il senatore Maran illustra l’iniziativa sperimentale in capo alle Regioni per riqualificare chi è senza occupazione

 

 

di ALESSANDRO MARAN* Finora a chi perde il posto abbiamo offerto, nel migliore dei casi, soltanto un sostegno del reddito: nella forma appropriata di un trattamento di disoccupazione o in quella inappropriata della Cassa integrazione, ma sempre senza che il beneficio fosse condizionato per davvero alla disponibilità a un nuovo lavoro. Il risultato è che abbiamo praticato soltanto le cosiddette politiche del lavoro passive, per le quali dal 2010 abbiamo speso oltre 20 miliardi l’anno. Sono invece mancate le politiche attive, quelle volte alla ricollocazione del lavoratore. Il Senato, approvando un ordine del giorno (primo firmatario Pietro Ichino) proposto da un gruppo di senatori di Scelta Civica e del Pd, ha avviato un progetto che si propone di affrontare le crisi occupazionali in modo nuovo. Come? Lo Stato si limita a porre a disposizione delle Regioni la possibilità dell’esperimento: lo attiva solo la Regione che vuole utilizzarlo per riqualificare la propria spesa in questo settore. La Regione, a sua volta, con una delibera della Giunta, offre ai disoccupati la possibilità di stipulare il contratto di ricollocazione, mettendo sul piatto un voucher per la copertura del costo di un buon servizio di outplacement, cioè di assistenza intensiva nella ricerca del nuovo posto. Il voucher è suddiviso in una parte fissa e in una, assai maggiore, pagabile soltanto a ricollocazione avvenuta. Il lavoratore può scegliere liberamente l’agenzia di cui avvalersi tra quelle accreditate presso la Regione. Per neutralizzare il rischio che le agenzie accreditate si concentrino sulle persone più facilmente collocabili, lasciando perdere le altre, il progetto prevede che l’entità del voucher sia differenziata in relazione al grado di “collocabilità” di ciascuna persona, secondo i criteri che ciascuna Regione deciderà. La Lombardia ha già elaborato una “griglia di valutazione” della collocabilità delle persone interessate molto evoluta. Le agenzie accreditate sono comunque impegnate ad accettare tutti i lavoratori che si rivolgono loro. Il progetto, poi, prevede che al contratto di ricollocazione possa partecipare anche l’impresa che licenzia, la quale può impegnarsi a pagare un trattamento complementare di disoccupazione. Così, per esempio, il lavoratore licenziato che stipula il contratto, invece di ricevere soltanto il 75 per cento dell’ultima retribuzione erogato dall’ASpI, riceve il 90 per cento. Dov’è la condizionalità? Il contratto prevede l’affidamento della persona interessata a un tutor designato dall’agenzia, che ha il compito di assisterla giorno per giorno, ma anche di controllarne la disponibilità effettiva per tutto quanto è necessario ai fini della ricollocazione, compresi eventuali corsi di riqualificazione mirati. Nel caso di rifiuto ingiustificato di una iniziativa, o addirittura di un posto di lavoro, il tutor lo contesta al lavoratore. E alla contestazione consegue il dimezzamento dell’indennità; poi, la seconda volta, l’interruzione. È fatta salva la possibilità di impugnazione del lavoratore davanti a un arbitro (scelto di comune accordo dai sindacati maggiormente rappresentativi e dall’associazione delle agenzie) che decide entro due settimane, con una procedura semplicissima. Perché, si dirà, chi viene licenziato e ha un’indennità dovrebbe decidere di aderire al nuovo contratto, che prevede questa condizionalità? Semplice: per godere del servizio di outplacement pagato dalla Regione. Oggi le Regioni spendono fiumi di denaro per corsi di formazione professionale la cui utilità effettiva non viene quasi mai misurata. È urgente che esse incomincino a riqualificare questa spesa, anche spostandola in parte dalla formazione all’attività di placing. Poi ci sono i contributi del Fondo sociale europeo, di cui riusciamo a utilizzare mediamente soltanto il 40 per cento, per mancanza di progetti che abbiano i requisiti necessari; e questo esperimento soddisferebbe pienamente quei requisiti. Ci sono inoltre i fondi Ue per lo Youth Guarantee, il programma per l’aiuto intensivo all’inserimento nel tessuto produttivo dei giovani. Infine, occorre considerare che tenere i lavoratori in Cassa integrazione per anni, come facciamo ora diffusamente, costa molto di più che inserirli nel giro di sei mesi nel grande flusso delle assunzioni: perfino nel 2012, in Italia, nonostante la crisi nera, sono stati stipulati un milione e mezzo di contratti di lavoro a tempo indeterminato, abbastanza ben distribuiti fra nord, centro e sud. E il progetto può applicarsi anche ai giovani che si affacciano per la prima volta sul mercato del lavoro. Il contratto di ricollocazione può costituire una delle alternative da offrire loro entro il quarto mese, come previsto dallo Youth Guarantee. Sarebbe un ottimo modo di usare i fondi che per questo programma riceveremo dall’Unione Europea. Da qui l’idea di valorizzare l’autonomia legislativa e amministrativa delle Regioni in questo campo. Non tutte le Regioni sono pronte a mettere in pratica efficacemente questa sperimentazione. Alcune, come il Lazio e la Toscana, non aspettano altro; e, a ben vedere, potrebbero anche avviare questo progetto a legislazione invariata. Però una norma di legge statale può dettare le linee guida dell’esperimento. Le altre Regioni seguiranno, sfruttando l’esperienza delle prime e l’ampio spazio di discrezionalità nella determinazione delle modalità specifiche dell’esperimento: entità e modulazione del voucher. Certo, mettere la gente che perde il posto in Cassa integrazione, cioè in freezer, per qualche anno è la soluzione più comoda. Ma è una soluzione costosissima e che fa un danno grave proprio ai lavoratori interessati. D’altra parte, sindacati e imprenditori finora hanno considerato che questa dei servizi di assistenza intensiva per la ricollocazione, nel nostro Paese, sia una partita persa. Uno degli scopi principali del progetto di sperimentazione è, invece, proprio di mostrare che anche in Italia queste cose si possono fare, e si possono fare bene. Anche in Friuli. *senatore di Scelta Civica

Leggi Tutto
GIORNALI2013

Il Piccolo, 21 ottobre 2013 – Brandolin e Maran: “Ora si realizzi il Centro amianto”

di Laura Borsani

Il Centro amianto, i rapporti tra la città e Fincantieri, chiamata a un maggiore coinvolgimento per affrontare le ricadute sociali che continuano a pesare sulla comunità. Il sindaco Silvia Altran ha indicato i binari da percorrere. Monfalcone attende risposte concrete, interventi pianificati e strutturati. Ma a che punto siamo e come si dovrebbe intervenire in prospettiva? I parlamentari Giorgio Brandolin e Alessandro Maran concordano che sul tema-amianto c’è ancora molta strada da fare. Sul tappeto innumerevoli aspetti, in ordine alla prevenzione e all’approccio sanitario nei confronti dei malati e degli esposti all’amianto, ma anche in relazione alla bonifica dei siti ancora inquinati. Gianpiero Fasola, primario oncologo a Udine e consigliere di “Cambiamo Monfalcone”, ha presentato una mozione in Consiglio che affida un impegno preciso al sindaco e alla giunta (la richiesta all’Ass di collocare al San Polo l’Unità operativa e le attività pneumologiche aziendali), ma indica anche un percorso utile a definire alcuni contenuti realistici per il Centro amianto di cui si parla da anni. Fu proprio Fasola, nel 2002, con il Gruppo di Oncologia toracica dell’ospedale di Udine che aveva attivato il gruppo di ricerca multisciplinare Atom a mettere a punto uno studio-pilota assieme ai colleghi del San Polo e pubblicato nel 2007, sulla diagnosi precoce del tumore al polmone. Lo screening coinvolse 1000 soggetti esposti all’amianto. Lo ha ricordato l’onorevole Giorgio Brandolin, che in qualità di presidente della Provincia, allora finanziò l’avvio della ricerca, che ottenne inoltre una quota rilevante di fondi dalla Fondazione Istituto San Paolo di Torino, riconoscendone la validità: «Il Centro amianto? Certo che serve. Ma, se vogliamo, esiste già dal 2002, solo che poi è stato abbandonato», ha osservato Brandolin. La ricerca sul territorio scaturì sulla scorta dello studio Elcap, pubblicato nel ’99 sulla rivista “The Lancet”, in merito alla diagnosi precoce del tumore del polmone su soggetti forti fumatori attraverso una Tac a basso dosaggio di radiazioni e senza mezzi di contrasto. Le Linee Guida internazionali Nccn del 2013 riconoscono questa metodica come potenziale «buona pratica» per i forti fumatori, suggerendo la possibile estensione anche ad altre popolazioni ad alto rischio, tra le quali gli esposti all’amianto: ciò conferma la validità dello studio Atom. La procedura non ha tutte le evidenze scientifiche necessarie a renderla una pratica standard, ma rappresenta comunque un passo significativo. Non ci fu tuttavia alcun seguito. «Sulla base delle informazioni oggi disponibili – ha osservato Fasola – sarebbe ragionevole avviare uno studio più ampio, che coinvolga tutti gli esposti dell’area compresa tra Trieste ed il Monfalconese e tenga conto delle conoscenze maturate in letteratura». Il senatore Alessandro Maran ha premesso: «La sentenza pronunciata dal Tribunale di Gorizia è importante, poiché è importante un intervento del giudice a tutela delle parti offese, i lavoratori ex esposti ad amianto e i familiari superstiti. Dopo le pronunce emesse in altre sedi sui casi Fincantieri, era ora che si intervenisse per condannare i responsabili e risarcire i colpiti dalle malattie correlate all’amianto. Ma amianto – ha aggiunto – significa anche bonificare i siti inquinati, trovare luoghi e modalità di smaltimento, affrontare i problemi sanitari degli ex esposti, riconoscere e corrispondere i risarcimenti alle vittime. Tutti aspetti in larga misura insoluti. Nel 2004 nella Conferenza nazionale sull’amianto che si svolse a Monfalcone, furono indicati gli obiettivi da perseguire per la completa eliminazione della fibra dall’Italia entro il 2015». Maran quindi ha concluso: «Bisogna ora arrivare all’istituzione del Centro amianto e consolidare un rapporto nuovo con il cantiere. Gli esempi di altri Paesi europei mostrano che non c’è alcun bisogno di contrapporre salute e lavoro, diritti che possono e devono andare di pari passo».

Leggi Tutto
GIORNALI2013

Il Piccolo, 21 ottobre 2013 – “Io sto con Monti”

Il senatore del Friuli Venezia Giulia Maran boccia i Popolari e si schiera con il Prof

 

di Roberto Urizio

Alessandro Maran, senatore di Scelta Civica, non ha dubbi. Non farà parte del gruppo dei Popolari che prenderà le distanze dall’ex premier. In gioco, secondo l’esponente montiano, c’è un futuro autonomo per Scelta Civica o un approdo nel centrodestra per ricostruirlo, e il progetto di riformismo europeo per cui la lista che fa capo a Monti è nata. Cosa sta succedendo in Scelta Civica? I nodi al pettine c’erano da un po’ di tempo e ora stanno venendo fuori. La questione non riguarda la partecipazione al governo, le larghe intese non sono in discussione al di là di normali accenti diversi. Il vero confronto è sulla prospettiva: per usare una caricatura, da una parte c’è chi crede sia giusto concorrere a un nuovo centrodestra con Berlusconi nel Ppe, dall’altra una visione liberal-democratica autonoma e distante da Berlusconi. Il dibattito è serio e ancora non so a quali evoluzioni porterà. Martedì c’è una riunione convocata da Bombassei, giovedì invece si riuniscono i gruppi parlamentari. Vedremo. Come giudica la reazione di Monti? Monti ha reagito alla lettere di alcuni senatori in difesa dell’iniziativa dell’ex ministro Mauro che si è incontrato con Berlusconi e che ha trovato nell’Udc porte aperte, tanto che ad esempio Buttiglione ha addirittura prospettato l’ipotesi di liste uniche alle europee con il Pdl. La reazione di Monti è quella di una persona che non ha dimestichezza con la politica, altrimenti avrebbe convocato una direzione del partito. Non ho ben chiaro cosa accadrà adesso, bisogna innanzitutto capire se Monti ha semplicemente sbattuto la porta e se n’è andato o se ora vuole dare battaglia, come sembra dalle ultime dichiarazioni». Lei da che parte sta in questa divisione? Sto con Monti e Ichino, non potrebbe essere altrimenti considerate le prospettive. Questa d’altro canto è la scelta che ha fatto l’elettorato. Un’ area di opinione pubblica che non è collocabile né a centrodestra né a centrosinistra ha optato per Monti e per le riforme. L’idea era quella di utilizzare la crisi come un’opportunità per riformare l’Italia e avvicinarla alle grandi democrazie europee. L’asse non è più quello destra-sinistra, ma quello tra chi sta con l’Europa o contro la prospettiva europea, e sono aree trasversali all’interno degli schieramenti politici italiani. Ritengo che questa idea sia ancora valida e vada ancora perseguita, c’è lo spazio per un forza politica che dia voce a chi punta all’integrazione europea, andando oltre la vecchia destra e la vecchia sinistra. Per questo sto con Monti.

Leggi Tutto
GIORNALI2013

qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 127 del 12 novembre 2013 – L’Olanda tra stato sociale e società partecipativa

La cerimonia di apertura ufficiale dell’anno parlamentare in Olanda è stata lo sfondo prescelto dall’attuale governo di centrosinistra per annunciate la sostituzione del «classico Stato del benessere del XX secolo con una società partecipativa». Un modo distaccato per annunciare alla cittadinanza che la crisi continua a farsi sentire e che «ogni olandese deve adattarsi ai cambiamenti che si avvicinano». Le parole chiuse tra virgolette provengono dal Discorso della Corona (scritto dall’Esecutivo) che per la prima volta il nuovo Re d’Olanda, Guglielmo Alessandro, ha rivolto al Parlamento.

«The classic welfare state has become untenable», ha detto il Re. «In addition, that is no longer in line with the expectations of the people. People want to make their own choices. We ask everyone to take responsibility. We will change from a welfare state to a participatory society». E, come ha spiegato il Re, «il passo verso una società partecipativa è particolarmente importante nella sicurezza sociale e in tutto quel che richiede assistenza di lunga durata. È proprio in questi settori che il classico Stato del benessere della seconda metà del XX secolo ha prodotto sistemi che nella loro forma attuale non sono né sostenibili né conformi alle aspettative dei cittadini». In altre parole, «a causa di cambiamenti sociali come la globalizzazione o l’invecchiamento della popolazione, il nostro mercato del lavoro ed i servizi pubblici non sono più adeguati alle domande del presente. Il classico stato sociale sta lentamente evolvendo verso una società partecipativa, dove i cittadini dovranno prendersi cura di sé, e creare soluzioni condivise per problemi quali il welfare pensionistico». Ed è il centrosinistra a dirlo, mica la Fornero.

Va da sé che secondo l’inchiesta più recente commissionata dalla televisione nazionale (NOS), i programmi della coalizione di liberali e socialdemocratici, sono considerati deleteri dall’80% della popolazione; e, manco a dirlo, dallo stesso sondaggio si ricava che gli olandesi, per uscire dalla crisi, confidano più nel mondo imprenditoriale e nella ripresa dell’economia mondiale che nella capacità dei propri politici. Senza contare che, immancabilmente, il leader della destra populista anti immigrazione, Geert Wilders, uscito piuttosto malconcio dalle elezioni dell’anno scorso, ora sembra riprendersi nettamente.

Negli ultimi anni il governo olandese ha introdotto una lunga serie di riduzioni del generoso welfare dei Paesi Bassi e ora si aggiungono l’annuncio di una nuova manovra di 6000 milioni di euro e le amare previsioni economiche del dicastero della Pianificazione per il 2014: la disoccupazione raggiungerà il 7,5%, il deficit totalizzerà un 3,3% (superando il limite del 3% fissato da Bruxelles) e il potere di acquisto scenderà dello 0,5%. Certo, Mark Rutte, primo ministro liberale, e Diderik Samsom, leader socialdemocratico, hanno potuto aggrapparsi a un dato importante: la crescita economica dello 0,5%; il che ha permesso al Re Guglielmo di lanciare un timido messaggio di speranza:«Sebbene la crisi continui a farsi sentire, ci sono segnali positivi che fanno pensare che stia per finire e ci sono prospettive di miglioramento per l’Olanda». Ma che nessuno si inganni. Il Re ha ricordato l’indebitamento delle famiglie, la delicata situazione delle banche e la necessità di ridurre il deficit ed ha sottolineato come l’austerità non sia un passaggio temporaneo, ma la nuova regola alla quale la cittadinanza si dovrà abituare. Non per caso, il Re ha invocato «riforme che richiedono tempo» e ha rimarcato che gli olandesi devono essere «un popolo forte e cosciente, capace di adattare la propria vita ai cambiamenti».

Potremmo ovviamente ironizzare a lungo. La prospera e calvinista Olanda, solido alleato di Berlino e di Bruxelles nell’imporre politiche di austerità a tutto il continente, è caduta nella sua stessa trappola. «L’unica via affinchè Spagna e Italia possano uscire dalla crisi è che facciamo cambiamenti nel mercato del lavoro e proseguano approvando riforme e tagli», diceva un impetuoso Mark Rutte (il primo ministro olandese) nel giugno dell’anno scorso. Ora tocca a lui: il suo governo ha ritardato alcune riforme per non aggravare la recessione ma ora deve fare i conti con la necessità di ottemperare alle richieste di Bruxelles.

Ma c’è di più. Non per caso, Olaf Cramme, direttore di Policy Network, in un suo paper recente (Politics in the Austerity State – Policy Straitjackets, Electoral Promises & Ideological Space in Crisis Europe) parla di «New Realism». I principali partiti politici europei stanno combattendo una battaglia ideologica tra crescita e austerità che, a sentir loro, definirà l’era politica post-crisi. Ma gli elettori rifiutano largamente queste nuove linee divisorie che i partiti di sinistra e di destra stanno cercando di tracciare e non fanno molto assegnamento sull’influenza che i politici pensano di avere sugli esiti economici in un contesto globalmente interdipendente come quello delle economie avanzate d’Europa. Anzi, secondo Cramme, «con gradazioni diverse da paese a paese, la sinistra europea è accomunata da un problema di scarsa comprensione della crisi finanziaria. La crisi è stata letta come il fallimento del mercato e del capitalismo, e invece è stata una crisi di deficit e debito pubblici. I cittadini hanno opinioni contrastanti, ma in generale percepiscono che la soluzione non può essere un ritorno del ‘tassa e spendi’.

Leggi Tutto
GIORNALI2013

ReteLib, 20 novembre 2013 – Non tornerà l’età dell’oro

Torno sull’interessante editoriale di Oscar Giannino e sul dibattito in corso su reteLib, anche alla luce di quel che è accaduto in questi giorni.

L’assemblea di Scelta Civica ha decretato il divorzio tra «popolari» e «montiani».  Come spesso accade, le accuse reciproche hanno finito per appannare le ragioni «politiche» del disaccordo: il «superamento» di Scelta Civica delineato dal progetto che prende il nome di «Popolari per l’Italia». «Vogliamo che Scelta Civica evolva verso un soggetto più maturo», ha sostenuto Mauro Mauro su Il Giornale. «Con una tempesta forza sette, non è più tempo di scialuppe, ma di una grande nave. La nave del Partito popolare europeo, sulla quale vogliamo salire aggregando quanti più passeggeri possibile». In altre parole, il suo obiettivo dichiarato è quello di riunire in un’unica aggregazione politica  – una sorta di «DC 2.0» – chiunque si riconosca nella bandiera dei Popolari europei, in attesa che l’eredità elettorale del Cavaliere, quel blocco sociale e di voti custodito a Palazzo Grazioli, cada come un frutto maturo all’interno del nuovo soggetto politico.
Sia chiaro: il progetto di dar vita alla sezione italiana del Ppe, e per questa via, archiviare la stagione berlusconiana e ristrutturare il centro destra, va preso sul serio: il problema della destra è il problema storico dell’Italia. Senza contare che il progetto di una riedizione riveduta e corretta della «Cosa bianca», cioè di una nuova, più moderna (e più piccola) Dc, è comodo, quasi ovvio;  e consente di conservare un nocciolo duro tradizionale e già organizzato. Del resto, è quel che, specularmente, suggeriscono anche quanti ritengono che non sia necessario un partito veramente liberale per affermare le idee liberali di SC e invitano tutti i liberali a prendere posto tra i Democratici, anche perché il Pd avrebbe di fronte, con Matteo Renzi, «una nuova possibilità l’8 dicembre».

Il guaio è che non ci sono scorciatoie. La politica non tornerà «normale» con l’uscita di scena di Berlusconi. Tolto di mezzo Berlusconi, non tornerà l’età dell’oro. E non è affatto scontato che dalle macerie del berlusconismo spunti improvvisamente il profilo di una Merkel. Quello che è avvenuto in questo ventennio non è una parentesi antistorica, una invasione degli Hyksos. Nel ’94 non si è prodotto un vulnus che attende di essere sanato, ma sono saltate gerarchie culturali durate mezzo secolo che non è più possibile ristabilire. A modo suo, Berlusconi (e prima la Lega Nord) sono l’espressione di un grande rivolgimento iniziato nel secolo scorso che Luigi De Marchi e ha definito la «rivolta dei produttori»: la sollevazione dei ceti produttivi (dipendenti, imprenditori, agricoltori, professionisti, commercianti, artigiani e altri lavoratori del settore privato) «contro la truffa e lo sfruttamento di una classe politico-burocratica che – uso le parole di De Marchi – spacciandosi per paladina dell’interesse generale, si appropria di una parte sempre più cospicua del loro reddito, riuscendo a vivere ed arricchirsi nell’ozio, nella sicurezza e nel privilegio, alle spalle di chi lavora nella fatica e nell’insicurezza tipiche di ogni attività di mercato». Questa sollevazione, questa rivolta antiburocratica e antistatalista, è il filo rosso che collega la spinta populista di oggi, la svolta reaganiana in America, quella thatcheriana in Gran Bretagna, quella antisocialista in Germania, Belgio, Scandinavia e Francia e perfino (fatte salve le ovvie specificità) quella anticomunista all’Est.

Con questa «cosa», nella versione di casa nostra, dobbiamo fare i conti. Insomma, la maggioranza che in questi anni si è raccolta attorno a Berlusconi non è un castello di carte destinato a cadere all’improvviso. Per rendersene conto, basta dare un’occhiata a quel che succede in tutte le grandi democrazie. E proprio l’illusione che una volta sparito il Caimano ritornerà l’età dell’oro, impedisce di comprendere il cambiamento del Paese. La supremazia di Berlusconi è stata sfidata più volte e finora sempre in maniera fallimentare perché si è basata su una premessa erronea: che il rapporto tra il Cavaliere e il suo elettorato fosse privo di sostanza politica. Nel berlusconismo, invece, di sostanza politica ce n’è stata moltissima (rimando al libro di Giovanni Orsina citato da Andrea Romano). E ce n’è ancora, concentrata da ultimo su due snodi cruciali: la pressione fiscale e il rapporto fra politica e giustizia. Tenere fermo su questi due punti è essenziale per chiunque desideri ereditare l’elettorato di centro destra. E non c’è altra possibilità che quella di provare a conquistare quelle parti di elettorato che si renderanno disponibili con il mutare dei rapporti di forza all’interno del centrodestra, facendo proprie le loro istanze. Facendo proprie cioè quelle domande e quelle aspirazioni – sul fisco, sulla giustizia, sulle libertà economiche – che esse esprimono e che Berlusconi ha lasciato insoddisfatte.

Che tutto questo abbia pochissimo a che vedere con il progetto di una riedizione della «Cosa Bianca», lo ha spiegato, parlando di Alfano, lo stesso Andrea Olivero a l’Unità: «Loro vogliono ricostruire il centrodestra, per noi è un obiettivo irrealizzabile. Il centrodestra è una creatura di Berlusconi. Noi pensiamo a un progetto popolare, concorrenziale alla sinistra ma alternativo alla destra, come diceva De Gasperi». Al solito, too late, too little. Non ci resta, allora, che la strada di «di modernizzare il partito più rappresentativo a sinistra per cambiare l’Italia», come scrive Guido Ferradini? Sbaglierò, ma non credo che il Pd sia davvero riformabile, con o senza Renzi. Per due solide ragioni contro le quali abbiamo sbattuto molte volte la testa: la cultura del gruppo dirigente e  gli interessi materiali di una vasta parte del partito e dei gruppi sociali che ad esso fanno riferimento.

Messe così le cose, la teoria dell’«o di qua o di là», la scelta di restare imperniati sul discrimine tra destra e sinistra tradizionali rischia, come si affanna a ripetere Pietro Ichino, di condannare la politica italiana all’inconcludenza. E contraddice quella che è stata la ragion d’essere di Scelta Civica. Nei mesi scorsi abbiamo sostenuto che oggi la scelta che il Paese deve compiere è quella pro o contro la profonda trasformazione dell’Italia e il vero discrimine della politica italiana non è quello tra la sinistra di Bersani-Vendola e la destra di Berlusconi-Maroni. Il vero discrimine è tra chi vuole cogliere l’occasione offerta dalla crisi per innescare un processo di allineamento dell’Italia ai migliori standard europei e chi pensa che questo progetto sia irrealizzabile. Perché «l’Italia è diversa», perché «in Italia queste cose non si possono fare», ecc.  Mi spiego con un esempio (sul quale si sono soffermati anche Giorgio Tonini ed Enrico Morando nel loro libro L’Italia dei democratici): nei paesi dell’Unione e dell’Ocse c’è una forza di polizia per il controllo capillare del territorio e una forza di polizia per il contrasto della grande criminalità. In Italia ci sono sei diverse e autonome forza di polizia, senza contare la polizia municipale, spesso in competizione l’una con l’altra e ciascuna incaricata di occuparsi di tutto, ben al di la della propria specializzazione. E potrei continuare: a parità di grado e di anzianità, lo stipendio, inclusi gli straordinari, di un addetto alla mensa oggi è uguale a quello di un agente della squadra mobile. La conseguenza è che otteniamo, spendendo tre punti di Pil (il 30% in più della Germania), risultati decisamente inferiori a quelli degli altri. E vale per difetti della nostra giustizia civile o per il distacco del sistema educativo italiano dalle migliori pratiche mondiali, che ci costano un punto di Pil ciascuno. Certo che, come in ogni battaglia riformista, ci vuole coraggio, bisogna superare una montagna di egoismi, pigrizie e cattive abitudini, rimuovere diffidenze e ostilità, fare i conti con robusti e consolidati «muri  mentali».  Ma si passa da qui.

Per questo ha ancora senso l’esistenza di una formazione ispirata agli ideali liberal-democratici e impegnata a  sostenere la «riforma europea» di cui il nostro Paese ha bisogno. E più forte sarà questa formazione politica, più grande sarà la sua capacità di influenzare entrambe le formazioni principali sui punti cruciali della strategia europea dell’Italia. Di questo c’è ancora bisogno. Forse Scelta Civica è uscita dalle elezioni ridimensionata rispetto alle aspettative, ma di sicuro non l’esigenza di porre l’agenda Monti – cioè le riforme necessarie per la piena integrazione dell’Italia nella nuova Europa – al centro della legislatura.

Aggiungo che, come ha sottolineato nel suo articolo Enrico Morando, la definizione delle forze politiche, della loro identità, e la messa a punto degli assetti costituzionali, del funzionamento delle istituzioni, sono ambiti inscindibilmente connessi. Non è possibile procedere in una direzione senza farlo anche nell’altra. Lo ha ricordato, di recente, Claudio Petruccioli con un esempio storico efficace: «Prendiamo pure Togliatti, la stella polare di Reichlin (e di tanti epigoni, giù giù fino a Prospero). Dopo il ritorno in Italia il capo del Pci fece una scelta fondamentale che riguardava la nazione (unità contro tedeschi e fascisti, liberazione nazionale, rinvio a dopo della “questione monarchica”) avviò la costruzione di una inedita forza politica (il “partito di tipo nuovo”) ma chiuse poi il cerchio partecipando da protagonista alla definizione dell’assetto costituzionale avendo in mente idee precise e fondamentali parametri per la regolamentazione della Repubblica. Senza quest’ultimo elemento, anche gli altri due sarebbero restati aleatori, confusi, non sarebbe stato possibile dare loro respiro e prospettiva. Tanto per dirne una, non sarebbe stato possibile costruire nei fatti un partito come il Pci se non ci fosse stata quella Costituzione».

Nutro da tempo una convinta preferenza per il semi-presidenzialismo francese perché le sue regole e le sue istituzioni contribuiscono in maniera molto significativa alla ristrutturazione dei partiti e delle loro modalità di competizione, alla eventuale formazione delle coalizioni di governo, a dare potere ai cittadini elettori. In Francia la ristrutturazione dei partiti, basti pensare all’UMP, ha avuto come principale volano la competizione per la presidenza della Repubblica. E i partiti sono sopravvissuti. Del resto, dal crollo della Prima repubblica, consentire ai cittadini di scegliere col voto un leader e una maggioranza, è stata la fonte principale di forza e di legittimazione di tutta la strategia riformista sul tema della forma di governo e delle leggi elettorali: l’elezione diretta del sindaco, la prima e finora la più felice delle riforme, è del 1993. Oggi, invece, il bipolarismo, il maggioritario, la personalizzazione, l’elezione diretta (tutti, indistintamente, accomunati sotto l’etichetta del populismo personalistico) sono diventati, nella narrazione che ha preso piede, il segno della fine della democrazia, della abdicazione della politica e di altre terribili catastrofi. Ma bisognerà farsene una ragione: oggi solo la leadership può essere una risposta alla crisi di legittimazione.

So bene che ogni ipotesi di riforma istituzionale che evochi il «presidenzialismo» è motivo di sospetto prima ancora che di ragionata opposizione. Ma quello che sta accadendo da anni è la prova evidente della necessità di dotare il nostro sistema politico di competenze di governo che abbiano la legittimità e la forza di aggregare decidendo. Oggi in molti prendono atto che non è possibile praticare la vecchia forma della partecipazione alla politica, ma continuano a ritenere che quella forma e quel sistema politico siano i migliori; e dunque cercano di avvicinarsi a quel modello e di salvare più elementi possibili di quella esperienza. Questo atteggiamento nasce da una visione statica e conservatrice. Ma come si fa a pensare di poter ripristinare il vecchio sistema con un semplice intervento di restauro? Quel che è avvenuto in questi anni (a partire dalla dissoluzione del vecchio sistema dei partiti) non è un incidente di percorso. Nel vecchio sistema ci si faceva cittadini nel partito e del partito, perché non si riusciva ad esserlo interamente nello stato e dello stato. Adesso che l’identificazione e l’appartenenza (all’ideologia, all’utopia, alla morale del partito) non ci sono più, l’unica strada praticabile è quella di esaltare la possibilità della scelta, la responsabilità della scelta, l’esercizio della cittadinanza nello stato. Non si tratta di una questione tecnico-istituzionale, ma di una questione etico-politica. Caduti gli stimoli del passato, come si riattiva la partecipazione alla politica? Le primarie non servono a questo? Il rispetto della competenza decisionale degli individui non è forse l’unica risposta possibile a una crisi di fiducia ormai incontenibile? Anche su questo terreno, Scelta Civica dovrebbe stare un passo avanti. Di questo infatti c’è ancora bisogno: che i liberali facciano i liberali.

Leggi Tutto
GIORNALI2013

Formiche (www.formiche.net), 26 novembre 2013 – Come e chi controllerà in Parlamento i conti dello Stato

Lo stato dell’arte sull’Ufficio parlamentare di bilancio. Norma, metodi e nomine del board 

 

L’Ufficio parlamentare del bilancio (UPB) nasce con l’obiettivo di promuovere la trasparenza del bilancio e, per questa via, permettere al Parlamento di svolgere il suo ruolo di indirizzo e controllo sul Governo.

CHE COSA SUCCEDE IN ITALIA

In Italia oggi il sistema è tale per cui il Governo ha un controllo pressoché completo nella gestione del Bilancio e dei dati di finanza pubblica. È infatti il Governo – attraverso la Ragioneria Generale dello Stato – che fornisce al Parlamento tutte le informazioni di finanza pubblica ed è al Governo stesso che il Parlamento deve rivolgersi per avere ulteriore dettaglio di informazioni. Eppure la trasparenza dei dati è un bene pubblico, è presupposto della verità dell’informazione, è uno dei principi della democrazia.

COME FUNZIONERA’ L’UFFICIO PARLAMENTARE DI BILANCIO

Attraverso l’UPB il Parlamento potrà disporre di fonti autonome di verifica dei flussi di bilancio superando l’attuale monopolio dell’esecutivo. L’UPB – voluto dall’Europa e non, purtroppo, dall’Italia – è stato istituito con principio costituzionale (Legge costituzionale 1/2012) e reso attuativo con la legge rinforzata 243/2012 che, al capo VII ne prevede l’operatività a partire dal primo gennaio 2014. I principi che ne sono alla base – competenza e indipendenza – dovrebbero dare al Parlamento la possibilità di un confronto reale sui dati del governo: previsioni, impatto dei provvedimenti legislativi, sostenibilità della finanza pubblica e molto altro.

QUALI SARANNO I METODI

È vero, parliamo di metodologia. Ma il successo o l’insuccesso delle politiche si evidenzia a partire dai risultati ed i risultati sono condizionati dalla metodologia. Ne consegue che solo la conoscenza degli strumenti metodologici permette di verificare i risultati delle politiche adottate. Obiettivo dell’Ufficio Parlamentare del Bilancio è quindi quello di incrementare la trasparenza sulle metodologie e sulle decisioni pubbliche, riducendo le asimmetrie informative e l’opacità dietro cui si nascondono comportamenti opportunistici. Grazie alla trasparenza dovrebbe aumentare il costo di reputazione connesso con l’adozione di “cattive” politiche e verrebbe influenzata la capacità degli elettori di premiare – con la rielezione – la “buona” politica.

CHI NOMINA IL BOARD DELL’UFFICIO

In Italia, definite norme e principi istitutivi dell’UPB, è il momento di nominare il Board. La legge 243/2012 prevede che la nomina avvenga con decreto adottato d’intesa dai Presidenti del Senato e della Camera nell’ambito di una lista di dieci nominativi votati dalle Commissioni competenti. Nel mese di novembre le Commissioni dovrebbero definire i criteri per la selezione Board. Il passo successivo sarà la stesura della lista dei dieci candidati da cui eleggere i tre membri.

LA SFIDA PER L’ITALIA

La sfida è quella di nominare un Board di altissima competenza e indipendenza, lontano da logiche clientelari che difendendo privilegi di pochi metterebbero a rischio uno dei fondamenti della democrazia. La proposta per vincere la sfida è quella della trasparenza: mettere il bando su una rivista internazionale,  utilizzare criteri di selezione puntuali e verificabili, far  uscire il dibattito dai palazzi e coinvolgere l’opinione pubblica.

COME DISSE KEYNES

Certo che, come in ogni battaglia riformista, bisogna superare una montagna di egoismi, pigrizie e cattive abitudini, rimuovere diffidenze e ostilità, fare i conti con robusti e consolidati «muri  mentali». Ma si passa da qui. Come disse una volta Keynes, «la difficoltà non sta tanto nelle idee nuove, ma nell’evadere dalle vecchie, le quali ramificano in tutti gli angoli della mente».

Alessandro Maran

senatore di Scelta Civica

Leggi Tutto
IN PRIMO PIANO

C’è lo sputtanamento olé …

In questi giorni mi sono ricordato di un vecchia canzone di Cochi e Renato:«c’è lo sputtanamento olé e così un bel momento olé …». Un tormentone del 1978.
Ieri (quasi) tutti i giornali ci hanno spiegato che il Pd si sarebbe suicidato perché la maggior parte dei suoi senatori non ha votato a favore dell’arresto di un senatore del Ncd. Ma è corretto commentare il voto del Senato sul caso Azzollini senza dar conto neppure in estrema sintesi di quanto risulta dagli atti giudiziali a carico dell’imputato?
Come ha lamentato Pietro Ichino in una lettera al Direttore, «nel Corriere di ieri mi ha colpito molto che nessun articolo, e neppure l’editoriale di Massimo Franco intitolato Da giustizialisti a garantisti (solo per interesse), fornisse alcuna notizia sugli argomenti sulla base dei quali il Tribunale di Trani chiede l’autorizzazione all’arresto del senatore Azzollini. Come se nella decisione del Senato «gli argomenti del giudice a sostegno della richiesta non avessero alcun peso. Le cose, per fortuna, non stanno così; e proprio il caso Azzollini, se si guarda bene ciò che è accaduto in Senato, lo dimostra» (UN CASO DI BUONA POLITICA E CATTIVA INFORMAZIONE).

Leggi Tutto
1 8 9 10