GIORNALI2013

ReteLib, 20 novembre 2013 – Non tornerà l’età dell’oro

Torno sull’interessante editoriale di Oscar Giannino e sul dibattito in corso su reteLib, anche alla luce di quel che è accaduto in questi giorni.

L’assemblea di Scelta Civica ha decretato il divorzio tra «popolari» e «montiani».  Come spesso accade, le accuse reciproche hanno finito per appannare le ragioni «politiche» del disaccordo: il «superamento» di Scelta Civica delineato dal progetto che prende il nome di «Popolari per l’Italia». «Vogliamo che Scelta Civica evolva verso un soggetto più maturo», ha sostenuto Mauro Mauro su Il Giornale. «Con una tempesta forza sette, non è più tempo di scialuppe, ma di una grande nave. La nave del Partito popolare europeo, sulla quale vogliamo salire aggregando quanti più passeggeri possibile». In altre parole, il suo obiettivo dichiarato è quello di riunire in un’unica aggregazione politica  – una sorta di «DC 2.0» – chiunque si riconosca nella bandiera dei Popolari europei, in attesa che l’eredità elettorale del Cavaliere, quel blocco sociale e di voti custodito a Palazzo Grazioli, cada come un frutto maturo all’interno del nuovo soggetto politico.
Sia chiaro: il progetto di dar vita alla sezione italiana del Ppe, e per questa via, archiviare la stagione berlusconiana e ristrutturare il centro destra, va preso sul serio: il problema della destra è il problema storico dell’Italia. Senza contare che il progetto di una riedizione riveduta e corretta della «Cosa bianca», cioè di una nuova, più moderna (e più piccola) Dc, è comodo, quasi ovvio;  e consente di conservare un nocciolo duro tradizionale e già organizzato. Del resto, è quel che, specularmente, suggeriscono anche quanti ritengono che non sia necessario un partito veramente liberale per affermare le idee liberali di SC e invitano tutti i liberali a prendere posto tra i Democratici, anche perché il Pd avrebbe di fronte, con Matteo Renzi, «una nuova possibilità l’8 dicembre».

Il guaio è che non ci sono scorciatoie. La politica non tornerà «normale» con l’uscita di scena di Berlusconi. Tolto di mezzo Berlusconi, non tornerà l’età dell’oro. E non è affatto scontato che dalle macerie del berlusconismo spunti improvvisamente il profilo di una Merkel. Quello che è avvenuto in questo ventennio non è una parentesi antistorica, una invasione degli Hyksos. Nel ’94 non si è prodotto un vulnus che attende di essere sanato, ma sono saltate gerarchie culturali durate mezzo secolo che non è più possibile ristabilire. A modo suo, Berlusconi (e prima la Lega Nord) sono l’espressione di un grande rivolgimento iniziato nel secolo scorso che Luigi De Marchi e ha definito la «rivolta dei produttori»: la sollevazione dei ceti produttivi (dipendenti, imprenditori, agricoltori, professionisti, commercianti, artigiani e altri lavoratori del settore privato) «contro la truffa e lo sfruttamento di una classe politico-burocratica che – uso le parole di De Marchi – spacciandosi per paladina dell’interesse generale, si appropria di una parte sempre più cospicua del loro reddito, riuscendo a vivere ed arricchirsi nell’ozio, nella sicurezza e nel privilegio, alle spalle di chi lavora nella fatica e nell’insicurezza tipiche di ogni attività di mercato». Questa sollevazione, questa rivolta antiburocratica e antistatalista, è il filo rosso che collega la spinta populista di oggi, la svolta reaganiana in America, quella thatcheriana in Gran Bretagna, quella antisocialista in Germania, Belgio, Scandinavia e Francia e perfino (fatte salve le ovvie specificità) quella anticomunista all’Est.

Con questa «cosa», nella versione di casa nostra, dobbiamo fare i conti. Insomma, la maggioranza che in questi anni si è raccolta attorno a Berlusconi non è un castello di carte destinato a cadere all’improvviso. Per rendersene conto, basta dare un’occhiata a quel che succede in tutte le grandi democrazie. E proprio l’illusione che una volta sparito il Caimano ritornerà l’età dell’oro, impedisce di comprendere il cambiamento del Paese. La supremazia di Berlusconi è stata sfidata più volte e finora sempre in maniera fallimentare perché si è basata su una premessa erronea: che il rapporto tra il Cavaliere e il suo elettorato fosse privo di sostanza politica. Nel berlusconismo, invece, di sostanza politica ce n’è stata moltissima (rimando al libro di Giovanni Orsina citato da Andrea Romano). E ce n’è ancora, concentrata da ultimo su due snodi cruciali: la pressione fiscale e il rapporto fra politica e giustizia. Tenere fermo su questi due punti è essenziale per chiunque desideri ereditare l’elettorato di centro destra. E non c’è altra possibilità che quella di provare a conquistare quelle parti di elettorato che si renderanno disponibili con il mutare dei rapporti di forza all’interno del centrodestra, facendo proprie le loro istanze. Facendo proprie cioè quelle domande e quelle aspirazioni – sul fisco, sulla giustizia, sulle libertà economiche – che esse esprimono e che Berlusconi ha lasciato insoddisfatte.

Che tutto questo abbia pochissimo a che vedere con il progetto di una riedizione della «Cosa Bianca», lo ha spiegato, parlando di Alfano, lo stesso Andrea Olivero a l’Unità: «Loro vogliono ricostruire il centrodestra, per noi è un obiettivo irrealizzabile. Il centrodestra è una creatura di Berlusconi. Noi pensiamo a un progetto popolare, concorrenziale alla sinistra ma alternativo alla destra, come diceva De Gasperi». Al solito, too late, too little. Non ci resta, allora, che la strada di «di modernizzare il partito più rappresentativo a sinistra per cambiare l’Italia», come scrive Guido Ferradini? Sbaglierò, ma non credo che il Pd sia davvero riformabile, con o senza Renzi. Per due solide ragioni contro le quali abbiamo sbattuto molte volte la testa: la cultura del gruppo dirigente e  gli interessi materiali di una vasta parte del partito e dei gruppi sociali che ad esso fanno riferimento.

Messe così le cose, la teoria dell’«o di qua o di là», la scelta di restare imperniati sul discrimine tra destra e sinistra tradizionali rischia, come si affanna a ripetere Pietro Ichino, di condannare la politica italiana all’inconcludenza. E contraddice quella che è stata la ragion d’essere di Scelta Civica. Nei mesi scorsi abbiamo sostenuto che oggi la scelta che il Paese deve compiere è quella pro o contro la profonda trasformazione dell’Italia e il vero discrimine della politica italiana non è quello tra la sinistra di Bersani-Vendola e la destra di Berlusconi-Maroni. Il vero discrimine è tra chi vuole cogliere l’occasione offerta dalla crisi per innescare un processo di allineamento dell’Italia ai migliori standard europei e chi pensa che questo progetto sia irrealizzabile. Perché «l’Italia è diversa», perché «in Italia queste cose non si possono fare», ecc.  Mi spiego con un esempio (sul quale si sono soffermati anche Giorgio Tonini ed Enrico Morando nel loro libro L’Italia dei democratici): nei paesi dell’Unione e dell’Ocse c’è una forza di polizia per il controllo capillare del territorio e una forza di polizia per il contrasto della grande criminalità. In Italia ci sono sei diverse e autonome forza di polizia, senza contare la polizia municipale, spesso in competizione l’una con l’altra e ciascuna incaricata di occuparsi di tutto, ben al di la della propria specializzazione. E potrei continuare: a parità di grado e di anzianità, lo stipendio, inclusi gli straordinari, di un addetto alla mensa oggi è uguale a quello di un agente della squadra mobile. La conseguenza è che otteniamo, spendendo tre punti di Pil (il 30% in più della Germania), risultati decisamente inferiori a quelli degli altri. E vale per difetti della nostra giustizia civile o per il distacco del sistema educativo italiano dalle migliori pratiche mondiali, che ci costano un punto di Pil ciascuno. Certo che, come in ogni battaglia riformista, ci vuole coraggio, bisogna superare una montagna di egoismi, pigrizie e cattive abitudini, rimuovere diffidenze e ostilità, fare i conti con robusti e consolidati «muri  mentali».  Ma si passa da qui.

Per questo ha ancora senso l’esistenza di una formazione ispirata agli ideali liberal-democratici e impegnata a  sostenere la «riforma europea» di cui il nostro Paese ha bisogno. E più forte sarà questa formazione politica, più grande sarà la sua capacità di influenzare entrambe le formazioni principali sui punti cruciali della strategia europea dell’Italia. Di questo c’è ancora bisogno. Forse Scelta Civica è uscita dalle elezioni ridimensionata rispetto alle aspettative, ma di sicuro non l’esigenza di porre l’agenda Monti – cioè le riforme necessarie per la piena integrazione dell’Italia nella nuova Europa – al centro della legislatura.

Aggiungo che, come ha sottolineato nel suo articolo Enrico Morando, la definizione delle forze politiche, della loro identità, e la messa a punto degli assetti costituzionali, del funzionamento delle istituzioni, sono ambiti inscindibilmente connessi. Non è possibile procedere in una direzione senza farlo anche nell’altra. Lo ha ricordato, di recente, Claudio Petruccioli con un esempio storico efficace: «Prendiamo pure Togliatti, la stella polare di Reichlin (e di tanti epigoni, giù giù fino a Prospero). Dopo il ritorno in Italia il capo del Pci fece una scelta fondamentale che riguardava la nazione (unità contro tedeschi e fascisti, liberazione nazionale, rinvio a dopo della “questione monarchica”) avviò la costruzione di una inedita forza politica (il “partito di tipo nuovo”) ma chiuse poi il cerchio partecipando da protagonista alla definizione dell’assetto costituzionale avendo in mente idee precise e fondamentali parametri per la regolamentazione della Repubblica. Senza quest’ultimo elemento, anche gli altri due sarebbero restati aleatori, confusi, non sarebbe stato possibile dare loro respiro e prospettiva. Tanto per dirne una, non sarebbe stato possibile costruire nei fatti un partito come il Pci se non ci fosse stata quella Costituzione».

Nutro da tempo una convinta preferenza per il semi-presidenzialismo francese perché le sue regole e le sue istituzioni contribuiscono in maniera molto significativa alla ristrutturazione dei partiti e delle loro modalità di competizione, alla eventuale formazione delle coalizioni di governo, a dare potere ai cittadini elettori. In Francia la ristrutturazione dei partiti, basti pensare all’UMP, ha avuto come principale volano la competizione per la presidenza della Repubblica. E i partiti sono sopravvissuti. Del resto, dal crollo della Prima repubblica, consentire ai cittadini di scegliere col voto un leader e una maggioranza, è stata la fonte principale di forza e di legittimazione di tutta la strategia riformista sul tema della forma di governo e delle leggi elettorali: l’elezione diretta del sindaco, la prima e finora la più felice delle riforme, è del 1993. Oggi, invece, il bipolarismo, il maggioritario, la personalizzazione, l’elezione diretta (tutti, indistintamente, accomunati sotto l’etichetta del populismo personalistico) sono diventati, nella narrazione che ha preso piede, il segno della fine della democrazia, della abdicazione della politica e di altre terribili catastrofi. Ma bisognerà farsene una ragione: oggi solo la leadership può essere una risposta alla crisi di legittimazione.

So bene che ogni ipotesi di riforma istituzionale che evochi il «presidenzialismo» è motivo di sospetto prima ancora che di ragionata opposizione. Ma quello che sta accadendo da anni è la prova evidente della necessità di dotare il nostro sistema politico di competenze di governo che abbiano la legittimità e la forza di aggregare decidendo. Oggi in molti prendono atto che non è possibile praticare la vecchia forma della partecipazione alla politica, ma continuano a ritenere che quella forma e quel sistema politico siano i migliori; e dunque cercano di avvicinarsi a quel modello e di salvare più elementi possibili di quella esperienza. Questo atteggiamento nasce da una visione statica e conservatrice. Ma come si fa a pensare di poter ripristinare il vecchio sistema con un semplice intervento di restauro? Quel che è avvenuto in questi anni (a partire dalla dissoluzione del vecchio sistema dei partiti) non è un incidente di percorso. Nel vecchio sistema ci si faceva cittadini nel partito e del partito, perché non si riusciva ad esserlo interamente nello stato e dello stato. Adesso che l’identificazione e l’appartenenza (all’ideologia, all’utopia, alla morale del partito) non ci sono più, l’unica strada praticabile è quella di esaltare la possibilità della scelta, la responsabilità della scelta, l’esercizio della cittadinanza nello stato. Non si tratta di una questione tecnico-istituzionale, ma di una questione etico-politica. Caduti gli stimoli del passato, come si riattiva la partecipazione alla politica? Le primarie non servono a questo? Il rispetto della competenza decisionale degli individui non è forse l’unica risposta possibile a una crisi di fiducia ormai incontenibile? Anche su questo terreno, Scelta Civica dovrebbe stare un passo avanti. Di questo infatti c’è ancora bisogno: che i liberali facciano i liberali.

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