GIORNALI2013

qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 127 del 12 novembre 2013 – L’Olanda tra stato sociale e società partecipativa

La cerimonia di apertura ufficiale dell’anno parlamentare in Olanda è stata lo sfondo prescelto dall’attuale governo di centrosinistra per annunciate la sostituzione del «classico Stato del benessere del XX secolo con una società partecipativa». Un modo distaccato per annunciare alla cittadinanza che la crisi continua a farsi sentire e che «ogni olandese deve adattarsi ai cambiamenti che si avvicinano». Le parole chiuse tra virgolette provengono dal Discorso della Corona (scritto dall’Esecutivo) che per la prima volta il nuovo Re d’Olanda, Guglielmo Alessandro, ha rivolto al Parlamento.

«The classic welfare state has become untenable», ha detto il Re. «In addition, that is no longer in line with the expectations of the people. People want to make their own choices. We ask everyone to take responsibility. We will change from a welfare state to a participatory society». E, come ha spiegato il Re, «il passo verso una società partecipativa è particolarmente importante nella sicurezza sociale e in tutto quel che richiede assistenza di lunga durata. È proprio in questi settori che il classico Stato del benessere della seconda metà del XX secolo ha prodotto sistemi che nella loro forma attuale non sono né sostenibili né conformi alle aspettative dei cittadini». In altre parole, «a causa di cambiamenti sociali come la globalizzazione o l’invecchiamento della popolazione, il nostro mercato del lavoro ed i servizi pubblici non sono più adeguati alle domande del presente. Il classico stato sociale sta lentamente evolvendo verso una società partecipativa, dove i cittadini dovranno prendersi cura di sé, e creare soluzioni condivise per problemi quali il welfare pensionistico». Ed è il centrosinistra a dirlo, mica la Fornero.

Va da sé che secondo l’inchiesta più recente commissionata dalla televisione nazionale (NOS), i programmi della coalizione di liberali e socialdemocratici, sono considerati deleteri dall’80% della popolazione; e, manco a dirlo, dallo stesso sondaggio si ricava che gli olandesi, per uscire dalla crisi, confidano più nel mondo imprenditoriale e nella ripresa dell’economia mondiale che nella capacità dei propri politici. Senza contare che, immancabilmente, il leader della destra populista anti immigrazione, Geert Wilders, uscito piuttosto malconcio dalle elezioni dell’anno scorso, ora sembra riprendersi nettamente.

Negli ultimi anni il governo olandese ha introdotto una lunga serie di riduzioni del generoso welfare dei Paesi Bassi e ora si aggiungono l’annuncio di una nuova manovra di 6000 milioni di euro e le amare previsioni economiche del dicastero della Pianificazione per il 2014: la disoccupazione raggiungerà il 7,5%, il deficit totalizzerà un 3,3% (superando il limite del 3% fissato da Bruxelles) e il potere di acquisto scenderà dello 0,5%. Certo, Mark Rutte, primo ministro liberale, e Diderik Samsom, leader socialdemocratico, hanno potuto aggrapparsi a un dato importante: la crescita economica dello 0,5%; il che ha permesso al Re Guglielmo di lanciare un timido messaggio di speranza:«Sebbene la crisi continui a farsi sentire, ci sono segnali positivi che fanno pensare che stia per finire e ci sono prospettive di miglioramento per l’Olanda». Ma che nessuno si inganni. Il Re ha ricordato l’indebitamento delle famiglie, la delicata situazione delle banche e la necessità di ridurre il deficit ed ha sottolineato come l’austerità non sia un passaggio temporaneo, ma la nuova regola alla quale la cittadinanza si dovrà abituare. Non per caso, il Re ha invocato «riforme che richiedono tempo» e ha rimarcato che gli olandesi devono essere «un popolo forte e cosciente, capace di adattare la propria vita ai cambiamenti».

Potremmo ovviamente ironizzare a lungo. La prospera e calvinista Olanda, solido alleato di Berlino e di Bruxelles nell’imporre politiche di austerità a tutto il continente, è caduta nella sua stessa trappola. «L’unica via affinchè Spagna e Italia possano uscire dalla crisi è che facciamo cambiamenti nel mercato del lavoro e proseguano approvando riforme e tagli», diceva un impetuoso Mark Rutte (il primo ministro olandese) nel giugno dell’anno scorso. Ora tocca a lui: il suo governo ha ritardato alcune riforme per non aggravare la recessione ma ora deve fare i conti con la necessità di ottemperare alle richieste di Bruxelles.

Ma c’è di più. Non per caso, Olaf Cramme, direttore di Policy Network, in un suo paper recente (Politics in the Austerity State – Policy Straitjackets, Electoral Promises & Ideological Space in Crisis Europe) parla di «New Realism». I principali partiti politici europei stanno combattendo una battaglia ideologica tra crescita e austerità che, a sentir loro, definirà l’era politica post-crisi. Ma gli elettori rifiutano largamente queste nuove linee divisorie che i partiti di sinistra e di destra stanno cercando di tracciare e non fanno molto assegnamento sull’influenza che i politici pensano di avere sugli esiti economici in un contesto globalmente interdipendente come quello delle economie avanzate d’Europa. Anzi, secondo Cramme, «con gradazioni diverse da paese a paese, la sinistra europea è accomunata da un problema di scarsa comprensione della crisi finanziaria. La crisi è stata letta come il fallimento del mercato e del capitalismo, e invece è stata una crisi di deficit e debito pubblici. I cittadini hanno opinioni contrastanti, ma in generale percepiscono che la soluzione non può essere un ritorno del ‘tassa e spendi’.

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