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Il Piccolo, 9 luglio 2015 – Maran vicepresidente dei senatori Pd

Dal Pd a Scelta Civica e poi di nuovo nel Pd. Ora anche da vicepresidente dei senatori. Alessandro Maran non si stupisce di aver ottenuto un incarico di vertice dopo il rientro nei dem. «È il riconoscimento esplicito del contributo dato dai senatori di Sc in questa legislatura e della assunzione del relativo patrimonio politico culturale da parte del Pd di Renzi – dice il parlamentare isontino -. Non è un mistero, e vale per me, Ichino, Susta, Lanzillotta e altri, che nel partito che abbiamo contribuito a fondare abbiamo anticipato le riforme del governo Renzi quand’eravamo tra i pochi “renziani”». In agenda «riforme, riforme, riforme» contro i «vincoli» che legano il Paese. Ma anche occhio attento al Fvg, assieme a Ettore Rosato, numero uno dei deputati Pd alla Camera: «In alcuni “snodi” meglio esserci. Ma la sfida per la regione resta quella prefigurata, da autonomista convinto, da De Gasperi: “Le autonomie si salveranno, matureranno, resisteranno solo a una condizione: che dimostrino di essere migliori della burocrazia statale…”». Il resto è un panorama nazionale in cui «si deve mantenere il bilancio pubblico su una dinamica sostenibile e rianimare la capacità di crescita dell’economia» con «incisive riforme strutturali. Il governo ha aperto un vasto cantiere», avanti dunque «con energia accresciuta e visione ampia». Ma è anche un quadro europeo in cui quella greca è una tragedia «divenuta partita di poker con aperture, bluff e controbluff».

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MessaggeroVeneto, 8 luglio 2015 – Il senatore Maran vicecapogruppo a palazzo Madama

Il parlamentare di Grado eletto nel 2013 con Scelta Civica, poi il ritorno «Regione Fvg mai stata rappresentata ai vertici della politica come oggi»

 

di Mattia Pertoldi

Il Friuli Venezia Giulia pone un altro tassello importante a livello parlamentare e all’interno del Partito democratico nazionale. Dopo la nomina alla vice segreteria di Debora Serracchiani, e la recente elezione di Ettore Rosato a capogruppo della Camera, da ieri è infatti ufficiale anche quella di Alessandro Maran come vicecapogruppo dei senatori “dem” a palazzo Madama. Un’elezione che, di fatto, chiude il cerchio della carriera politica, almeno di quella più recente, di Maran. Ex segretario dei Ds, ideatore del referendum regionale del 2003 sull’elezione diretta del presidente della Regione che portò Riccardo Illy a sedersi sulla poltrona di governatore della regione, dopo lo strappo con il Pd di Pierluigi Bersani che perse le politiche del 2013 e la candidatura con i centristi di Mario Monti ha fatto ritorno a febbraio nelle fila democratiche guidate da Matteo Renzi assieme a un’altra pattuglia di ex di Scelta Civica. Maran, infatti, è stato il primo renziano del Friuli Venezia Giulia, schierato da sempre con l’attuale segretario del Pd, sin dal momento in cui l’ex sindaco di Firenze rappresentava soltanto una corrente minoritaria nel partito. Fino allo strappo successivo alla vittoria di Bersani alle primarie che lo avevano portato a scegliere Scelta Civica per continuare la propria attività politica. Ma proprio le posizioni, forti, sulle politiche del lavoro che lo avevano avvicinato a Pietro Ichino hanno permesso prima un riavvicinamento a Renzi e poi il ritorno nel Pd. «Con una battuta potremmo dire che ricominciamo da dove eravamo rimasti – commenta soddisfatto il neo vicecapogruppo -. Al di là delle frasi di circostanza, però, credo che la mia elezione spieghi meglio di ogni parola come le cose siano davvero cambiate all’interno del Pd rispetto al momento in cui mi ero allontanato dalle posizioni ufficiali del partito. È il partito di Renzi, di un segretario che ha fatto proprie, attraverso i fatti, le idee della sinistra liberal e che vuole anche a rappresentarle nei ruoli chiave. Un segretario che cerca anche la massima coesione all’interno dei gruppi parlamentari miscelando sapientemente le conferme, come quella di Luigi Zanda nel ruolo di capogruppo, alle nuove figure, come la mia, per rappresentare anche come il gruppetto di ex senatori di Scelta Civica sia parte integrante, e fondamentale, dell’attuale Pd». Ma anche, come accennato, un altro ruolo di prestigio garantito al Fvg. «E’ vero – conferma Maran –, la Regione non è mai stata rappresentata così tanto come in questo periodo storico. Ma per il Fvg oltre che essere un onore è anche un onere perché il sottoscritto, Serracchiani e Rosato adesso devono dimostrare concretamente di essere sempre un passo avanti rispetto agli altri e non uno indietro». Assieme alla dimostrazione, e il senatore non lo nega, di una vittoria dal sapore politico. «E’ stata una battaglia dura e lunga – conclude – e in cui non ci siamo fatti mancare nulla, ma alla fine conferma la bontà dei principi per cui mi sono sempre battuto e che trovo adesso totalmente rappresentato nel Pd guidato da Matteo Renzi».

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Il Foglio, 2 luglio 2015 – Fincantieri e quel pregiudizio anti industriale della magistratura italiana

Al direttore – Il tribunale penale di Gorizia ha disposto il sequestro su alcune aree dello stabilimento Fincantieri di Monfalcone. Di conseguenza, la prestigiosa azienda italiana ha dovuto bloccare i lavori. Risultato: da martedì, il più grande cantiere navale italiano ha chiuso i cancelli lasciando a casa oltre 4.500 lavoratori e un intero indotto in ginocchio. La questione sembra essere questa: le imprese subappaltatrici non sarebbero state in possesso dei requisiti normativi per eliminare gli scarti delle lavorazioni delle navi, configurando un’ipotesi di reato di gestione di rifiuti non autorizzata. Lo smaltimento dei rifiuti è disciplinato dal dlgs 152 del 2006 che prescrive, infatti,

apposite autorizzazioni. La stessa nozione di rifiuto è sempre molto dibattuta in sede giudiziale, nonostante lo stratificarsi normativo sul tema, ma nel caso specifico, più che di rifiuto vero e proprio (da intendersi come materiale che debba essere prontamente rimosso al fine di non deturpare l’ambiente), il materiale incriminato deriverebbe da semplici “scarti di produzione” come moquette, teli di plastica, tubi di ferro, depositati in stoccaggio in prossimità delle aree di lavorazione in attesa del trasporto in discarica. Insomma, niente di radioattivo, né alcuna fonte di inquinamento atmosferico o delle acque. E il problema sollevato dalla procura, che si era vista più volte bocciare la misura cautelare già nel 2013, prima dal gip e poi dal tribunale, a causa della carenza dei presupposti necessari a giustificare una situazione di pericolo ambientale, non riguarderebbe il mancato smaltimento dei rifiuti stessi (che pare siano stati sempre trattati secondo le disposizioni di legge), ma il soggetto che doveva operare lo smaltimento. Tutte le grandi imprese, infatti, utilizzano una serie di aziende a cui subappaltano singole operazioni del processo di produzione. Sarebbero state queste ultime a non disporre delle autorizzazioni per lo smaltimento, sebbene il materiale sia stato prontamente smaltito dall’azienda appaltante, Fincantieri appunto. Questo il motivo del sequestro delle aree destinate alla cernita e allo stoccaggio di scarti e della conseguente chiusura dello stabilimento di Monfalcone. Ma, se così stanno le cose, mi chiedo: dove sarebbe il danno ambientale se il materiale è stato legittimamente rimosso? E’ possibile bloccare una intera produzione, con tutti i danni che inevitabilmente deriveranno all’azienda per il ritardo (sine die) nei lavori, per un tale “cavillo” interpretativo? E poi perché sequestrare le aree? Non bastano i rilievi dei Carabinieri? Poi si andrà a giudizio e vedremo chi ha ragione. E se, come spesso accade, tra qualche anno dovessimo accertare che non c’erano rischi (come pare già accertato) e non c’erano neppure reati? Chi pagherà il risarcimento del danno che legittimamente Fincantieri potrebbe chiedere? Il magistrato che ha disposto il sequestro? Di una cosa sono certo: che i costi saranno, ancora una volta, a carico della collettività.

 

Alessandro Maran, senatore del Pd

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Il Piccolo, 26 maggio 2015 – Riunire le forze con «Città Comune»

Non deve essere solo l’esigenza di contenere la spesa a muoversi in questa direzione, si deve adattare la dimensione istituzionale ai cambiamenti

Il progetto Città Comune ha il merito di riproporre un problema strategico per il buongoverno locale. Tra le riforme possibili, quella davvero annosa, di un accorpamento (naturalmente democratico, graduale, non autoritativo) dei Comuni di Monfalcone, Ronchi e Staranzano, è ormai giunta a maturazione. Del resto, quello di “unire le forze” attraverso l’integrazione tra più città è più sistemi locali, è un progetto al quale in passato avevamo lavorato in molti, senza esito. Ricordo solo l’idea della Città Mandamento e l’impegno dei compianti Adriano Cragnolin e Enzo Novelli. E’ tempo perciò di imboccare con energia una strada che può portare a gestioni più forti e più attente ai bisogni della gente. Non deve essere solo l’esigenza di contenere la spesa a muovere in questa direzione, c’è il dovere di adattare la dimensione istituzionale ai cambiamenti (economici, demografici, regolamentari, ecc.) e di fornire ai cittadini tutti i servizi di cui godono i cittadini delle città più grandi. Uno sbocco che può rappresentare un esempio per tutti e un riferimento per successive integrazioni. La dimensione territoriale dei comuni italiani è ancora quella del Medioevo: la distanza che si poteva percorrere a piedi sulle strade di allora nelle ore di luce. Ma oggi l’economia del Paese ha bisogno di avviare grandi trasformazioni e il ripensamento di un’organizzazione territoriale finora dispersa costituisce forse il capitolo più importante di questo progetto. Le città, infatti, stanno mutando funzioni, posizione e funzionamento interno in tutta Europa e l’organizzazione della produzione e dei servizi, per tutte le cose di qualità, sta sempre più uscendo dal tradizionale spazio urbano, divenuto troppo limitato, per approdare ad aree più estese. Non per caso, in tutta Europa, negli anni ’90, c’è stato un grande fervore riformatore per definire un nuovo ordine territoriale. In Germania i comuni erano addirittura 24.476 e ogni Land ha usato le ricette più convenienti per gli accorpamenti. Nel Canton Ticino 45 comuni si sono uniti in 15 nuove aggregazioni, in Danimarca hanno ridotto i Comuni da 1388 a 275, in Belgio da oltre 2500 a meno di 600, in Inghilterra da 1830 a 486. E potrei continuare. Non per caso, fin dal 1990, la legge contempla (“in previsione di una loro fusione”) l’unione di comuni “per l’esercizio di una pluralità di funzioni”. Il guaio è che non si è fatto nulla. E’ tempo, perciò, di prendere il toro per le corna. So bene che quello delle cento città è un mito antico della politica italiana, ma questa deve rinnovare le sue parole d’ordine se vuole affrontare le sfide del futuro. E chiamare la gente a decidere è il modo migliore per farlo.

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Il Foglio, 18 aprile 2015 – Troppe e mal gestite, le forze di polizia in Italia vanno riformate. Così.

Più o meno in tutti i paesi dell’Unione europea c’è una forza di polizia per il controllo capillare del territorio e una per il contrasto della grande criminalità. La Germania dispone della Landespolizei nei Lander e della Bundespolizei a livello nazionale; in Francia i compiti di polizia sono svolti dalla Police Nationale cui si affianca la polizia municipale di periferia; in Spagna oltre alla polizia territoriale, esiste il solo Cuerpo Nacional de Policía (sia la Francia che la Spagna vanno verso l’istituzione di un’unica forza di polizia a ordinamento civile) e l’Inghilterra, come forza di polizia dell’enorme area della Contea di Londra, dispone della Metropolitan Police Service e, per il controllo del cuore della city, del corpo (ristretto) della City of London Police.

In Italia ci sono sei diverse e autonome forza di polizia, senza contare la polizia municipale e quella provinciale, spesso in competizione l’una con l’altra e ciascuna incaricata di occuparsi di tutto, ben al di là della propria specializzazione. Col risultato che le forze pubbliche oggi preposte al rispetto della legge in Italia ammontano a oltre 400 mila unità. Un numero che ci pone al primo posto tra i paesi europei in rapporto alla popolazione. La conseguenza è che otteniamo, spendendo 3 punti di pil (il 30 per cento in più della Germania), risultati decisamente inferiori a quelli degli altri. E’ la solita storia, a ben guardare, e vale per difetti della nostra giustizia civile, per il distacco del sistema educativo italiano dalle migliori pratiche mondiali, e potrei continuare. E al solito, la riposta al bisogno di sicurezza dei cittadini ha fin qui privilegiato la quantità sulla qualità. Quel che manca è la volontà di affrontare i nodi che impediscono un utilizzo efficace ed efficiente degli agenti. A cominciare dalla diversificazione dei compiti: il fatto che tutti tendono a occuparsi di tutto, con responsabilità che si intrecciano fino a paralizzarsi, alimenta ovviamente la dispersione delle risorse. Tanto per capirci, la polizia penitenziaria ha una propria flotta e capita che sia il corpo forestale regionale (delle regioni a Statuto speciale), anche questo nella disponibilità delle procure – come del resto la polizia municipale – a fare le indagini, comprese le intercettazioni. Inoltre, la risposta alla richiesta di sicurezza dei cittadini andrebbe ricercata, come ha rimarcato il prof. Gianluigi Galeotti, nei miglioramenti di professionalità, nel proficuo impiego delle tecniche che rendono più produttivo il personale, in remunerazioni che tengano conto della diversità dei compiti svolti (a parità di grado e di anzianità, lo stipendio, inclusi gli straordinari, di un addetto alla mensa oggi è uguale a quello di un addetto alla squadra mobile). E, manco a dirlo, nella razionalizzazione e nella semplificazione.

Ma, al solito, in Italia le riforme sono bloccate da chi ritiene che il modello di sicurezza che abbiamo ereditato dal passato sia intoccabile, uno dei migliori del mondo. E’ una vecchia storia: la nostra Costituzione non è forse la più bella del mondo? Il resto del mondo non ci “invidia” forse l’assetto della nostra giustizia? E poi, vuoi mettere la tradizione? Eppure, il nostro modello di sicurezza non è affatto efficiente (i risultati operativi prodotti non sono proporzionati alla spesa), non è affatto ben coordinato (sono frequenti le duplicazioni e le sovrapposizioni di competenze) e la concorrenza (per nulla sana) si traduce in una spasmodica corsa ad apparire sui giornali e in tv. Siamo in presenza di apparati vecchi, giganteschi e ultra burocratizzati, mal coordinati e in eterna e dannosa competizione tra loro; che reggono ancora solo grazie alla buona volontà di quella parte del personale che ogni giorno fa i salti mortali. Al solito, si tende a far apparire “invidiabile” un modello superato in modo da prevenire l’attenzione (e l’indignazione) dell’opinione pubblica, che porterebbe a una pressante richiesta di riforme, come è accaduto per il resto del pubblico impiego.

Ora il provvedimento sulla “riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”, in discussione al Senato, prevede la “razionalizzazione e potenziamento dell’efficacia delle funzioni di polizia anche in funzione di una migliore cooperazione sul territorio al fine di evitare sovrapposizioni di competenze e di favorire la gestione associata dei servizi strumentali”. E timidamente, si prevede “la riorganizzazione del corpo forestale dello stato” e il suo “eventuale” assorbimento nelle altre forze di polizia. Naturalmente, c’è chi si straccia le vesti. Ma rinviare le riforme è stato un errore del passato. Si deve andare avanti. In sintonia, peraltro, con quel che si sta facendo in tutta Europa. Certo, un passo per volta.

Ma perché aspettare? Ad esempio, il riordino delle funzioni di polizia del mare, può avvenire tramite l’affido esclusivo delle funzioni alla guardia costiera (e non alle otto diverse flotte – comprese le imbarcazioni del corpo forestale o della polizia comunale – che oggi incrociano nei nostri mari). Perché, a proposito del riordino dei corpi di polizia provinciale, escludere in ogni caso la confluenza nelle forze di polizia? Perché, insomma, non cogliere l’occasione per rendere più incisiva la delega? Perché non prevedere, nella fase attuativa, la razionalizzazione delle forze di polizia esistenti individuando, in prospettiva, due forze di polizia: una per il contrasto della grande criminalità e una per il controllo del territorio? Lo sanno anche i sassi: è necessaria una profonda trasformazione dell’Italia e dobbiamo cogliere l’occasione offerta dalla crisi per innescare un processo di allineamento ai migliori standard europei. Non è forse il benchmarking, il confronto sistematico, che permette alle aziende che lo applicano di compararsi con le migliori e soprattutto di apprendere da queste per migliorare? Bisogna cambiare. Ed è lecito aspettarsi che il governo affronti la riforma della Pubblica amministrazione con la stessa determinazione con la quale ha affrontato la riforma del Senato. Il vecchio Senato lo abbiamo chiuso. Per cambiare le vecchie abitudini e “fare come in Europa”. Deve valere per tutti.

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MessaggeroVeneto, 17 marzo 2015 – L’iniziativa di due senatori Fvg «Proibire produce solo danni»

Maran (Pd) e Battista (ex grillino) nel gruppo che avanzerà una proposta di legge
Il parlamentare gradese: va interrotto il legame tra droghe leggere e criminalità.
di Elena Del Giudice  In Colorado è già accaduto, in Germania ci stanno pensando, in Italia si fanno i conti su quanto costosa, e fallimentare, sia stata la politica proibizionista in tema di marïjuana. Ha ingolfato i tribunali e riempito le carceri ma il consumo, anzichè diminuire, è aumentato. Non solo. La contiguità tra mercati potenzialmente diversi, quello delle droghe cosiddette “leggere” e quello delle sostanze “pesanti”, finisce col favorire il passaggio dei consumatori. Dal primo al secondo, ovviamente. Il primo passo è dunque «discuterne» per poi arrivare a definire una proposta nel senso della liberalizzazione del consumo che possa raccogliere il consenso sufficiente a diventare legge. Nasce così l’intergruppo di una sessantina di parlamentari, che lavorerà ad una proposta di legge per regolamentare l’uso della marïjuana anche in Italia. Due i componenti del Fvg: Lorenzo Battista, ex pentastellato oggi aderente al gruppo Autonomie, e Alessandro Maran, già Scelta civica oggi nel Pd. «La proposta mi è arrivata via mail dal senatore Benedetto Della Vedova e ho accettato. Ora attendo che ci sia il primo incontro per capire come si procederà. In Parlamento – spiega Battista – ci sono già delle iniziative di legge, il nostro compito sarà spingere perchè queste vengano calendarizzate in commissione». Non una nuova proposta di legge, dunque? «Non lo so, credo si debba iniziare valutando quel che c’è per poi capire se sia il caso di sostenerle o presentare una proposta nuova. Dopodichè – prosegue il senatore triestino – bisognerà anche capire se ci sia la volontà comune per arrivare ad una conclusione. L’opposizione si è già fatta sentire sia da parte dell’Ndc che di Fi». «Il proibizionismo non ha prodotto alcun risultato, quindi non vedo perchè ingolfare la giustizia con queste cose. Inoltre – conclude Battista – sarebbe un modo per togliere finanziamenti alla criminalità organizzata». «La relazione dell’Antimafia – rileva il senatore Alessandro Maran – ci dice chiaramente che stiamo cercando di svuotare il mare con il cucchiaino. A me pare doveroso riflettere su questo, anche guardando a quel che accade in altri Paesi del mondo. Credo anche – prosegue il parlamentare del Pd – che vada interrotta la contiguità tra la marïjuana e il mercato delle droghe pesanti, evitando che le nostre forze di polizia continuino ad inseguire il nulla». La repressione e il contrasto al consumo di “fumo” impegna forze di polizia e sistema carcerario. «Se funzionasse, ma non funziona. Se il problema se lo pone la Germania o il Colorado, ritengo che possiamo farlo anche noi». Dal lavoro dell’intergruppo «puntiamo ad arrivare ad una ipotesi di progetto di legge. Intanto – anticipa Maran – inizieremo con una ricognizione, una sorta di libro bianco per capire come stanno le cose per poi elaborare una proposta». C’è chi dice, come Gasparri, che fa già muro. «Per me – risponde Maran – è necessario parlarne, affrontare le cose per come sono e vedere se la cosa possa valere la pena. Anch’io ho dei figli e desidero tenerli lontani dai mercati illegali».
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Il Foglio, 14 marzo 2015 – Appunti di un renziano per far cambiare verso alla giustizia (e a Renzi)

Al direttore – Nei giorni scorsi Claudio Cerasa è tornato, giustamente, sulla “battaglia culturale” che si combatte attorno alla giustizia. Una concezione della giustizia premoderna e una casta di magistrati “che si è autocertificata come elemento salvifico di un tessuto sociale in sé corrotto”, da amministrare perciò in nome di superiori valori, é infatti uno degli elementi strutturali dell’odierno paesaggio italiano, del “liberale che non c’è”, per dirla con Corrado Ocone. Senza contare che fra le ragioni della “penalizzazione” crescente della nostra società, c’è anche la richiesta di capri espiatori alimentata continuamente dai mezzi di comunicazione di massa.

Ora, non è un mistero per nessuno che la nostra magistratura ha progressivamente accumulato una notevole dose di poteri. Le sue garanzie di indipendenza sono oggi fra le più elevate nell’ambito dei regimi democratici. Il fatto poi di esercitare anche le funzioni di accusa ne ha accresciuto ulteriormente la capacità di incidere sul sistema politico (specie se si considera che il principio di obbligatorietà rende di fatto irresponsabile il pubblico ministero). Ma nonostante questa posizione di forza, la magistratura presenta anche molti punti deboli. Il primo – quello che interessa più da vicino ai cittadini –  è la cattiva qualità del servizio che rende. Il che si riflette nel basso tasso di fiducia (e di gradimento) degli italiani nei confronti del nostro sistema giudiziario.

Il paradosso è che, stando così le cose, la magistratura richiede di continuo sostegno e legittimazione proprio alla politica. La delibera con la quale il Csm criticava (2003) alcune dichiarazioni roventi del presidente del Consiglio, faceva appello a tutte le istituzioni perché “sia ripristinato il rispetto dei singoli magistrati e dell’intera magistratura”. E ne ha bisogno perché svolge funzioni di forte impatto politico, senza disporre di un adeguato sostengo nella società. Infatti, come ha rilevato il prof. Carlo Guarnieri, “numerose analisi hanno messo in luce che una magistratura può essere realmente indipendente non solo quando dispone di adeguate garanzie ma soprattutto quando gode di un forte sostegno nella società, sia in generale sia presso specifici gruppi di interesse” (il riferimento è all’avvocatura e ai gruppi che, specie negli Stati Uniti, operano a difesa dei diritti civili). Ma “da questo punto di vista la nostra magistratura è ancora un corpo separato, che non ha relazioni istituzionali con la società – né con un corpo così importante come l’avvocatura – e le cui basi di consenso fanno sostanzialmente capo alla classe politica, oltre che ai mezzi di comunicazione di massa”. Per questo è difficile “separare le carriere” tra magistrati e giornalisti. Per questo, secondo Guarnieri, anche in Italia, il punto fondamentale della riforma è il reclutamento dei giudici: “E’ necessario superare progressivamente il reclutamento burocratico e creare canali che siano in grado non solo di selezionare i migliori ma anche di attirare verso la magistratura professionisti di qualità, aprendo così un canale di collegamento con l’avvocatura e l’università”. La magistratura inglese, ad esempio, può essere considerata un’emanazione dell’avvocatura e in particolare dei barristers. In questo modo, i valori predominanti nella magistratura sono sostanzialmente quelli dell’intera professione forense.

Insomma, i limiti dell’assetto che abbiamo ereditato dal passato sono sotto gli occhi di tutti. Perché stupirsi, allora, dei tagli alle ferie, del tetto agli “stipendi d’oro”, e ora, della riforma della responsabilità civile? La magistratura fa inevitabilmente parte del processo politico. E nel paese c’è un clima di diffidenza, quando non di aperta disapprovazione, nei confronti di chiunque occupi un ruolo pubblico. Renzi ha colto l’aria che tira (si pretendono regole e pene più severe per tutti) e vuole “cambiare verso” anche in questo campo. Ma per migliorare il funzionamento della nostra giustizia quel che davvero conta, insiste Guarnieri, è “curare meglio la professionalità – e l’etica – dei magistrati e, soprattutto, dare maggiori poteri e responsabilità ai capi degli uffici”. Di esempi ne potrei fare una montagna. Ne faccio uno solo: è trascorso un anno e mezzo dalla sentenza pronunciata il 15 ottobre 2013 dal tribunale di Gorizia, dopo 3 anni e mezzo e 89 udienze, in ordine alla vicenda dell’ex Italcantieri (ora Fincantieri), che ha inflitto ai vertici aziendali una pena complessiva di oltre 55 anni di reclusione per la morte causata dall’esposizione all’amianto di 85 operai del cantiere di Monfalcone. Ad oggi il giudice non ha ancora depositato la motivazione della sentenza. Il che comporta anche l’allungamento dei termini della presentazione del ricorso in appello da parte degli imputati. E l’imminente prescrizione potrebbe ledere il diritto processuale delle parti, nonché il diritto ad una giusta riparazione.

Che cosa aspetta il ministro ad attivare i poteri di ispezione di cui dispone per accertare per quali ragioni, ad oggi inspiegabili, le motivazioni della sentenza non siano state ancora depositate e, qualora ne ravvisi i presupposti e nei limiti di propria competenza, avviare la richiesta di indagini al procuratore generale?

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Il Piccolo, 9 marzo 2015 – OCCUPAZIONE, LA REGIONE OPERA TROPPO A “TAVOLINO”

Le recenti critiche mosse dagli esponenti di Forza Italia all’amministrazione regionale sulla gestione del Pipol (Piano integrato delle politiche per l’occupazione e il lavoro) offrono l’opportunità di riprendere alcune riflessioni in materia. Dico subito che l’analisi di Novelli e Ziberna appare un po’ ingenua (e persino strumentale) quando avanza una stima dei costi a carico dei cittadini per la creazione di ogni singolo posto di lavoro: il Piano in questione è appena entrato nel vivo e il suo reale livello di efficienza si potrà misurare soltanto al termine dello stesso. Altrettanto debole mi sembra la loro proposta alternativa di impegnare i 38 milioni disponibili in incentivi alle assunzioni: è opinione condivisa che tali strumenti incidono solo marginalmente sulle dinamiche di crescita dell’occupazione, a favore delle quali, peraltro, sono già attivi gli istituti dell’apprendistato e del contratto a tutele crescenti. Ritengo che la vera critica da muovere alla gestione del Pipol sia un’altra: stiamo assistendo all’ennesima occasione persa dall’amministrazione regionale nella costruzione di un sistema di politiche attive del lavoro moderno ed europeo. L’assessore Panariti, nel dibattito politico sulla stampa, enumera esclusivamente la quantità degli interventi realizzati, ma tace sulla loro qualità: quanti degli avviamenti da lei citati sono rappresentati da contratti lavorativi e quanti, invece, da tirocini formativi? E perché l’assessore Panariti, nelle sue risposte sui giornali, non cita il numero di accordi stipulati dai Centri per l’impiego con le singole aziende in periodi antecedenti o contestuali all’avvio dei percorsi formativi finanziati dalla Regione? Semplicemente perché, in concreto, “a monte” non c’è, se non occasionalmente (come nel caso dei tirocini), la condivisione con l’universo produttivo dei suddetti percorsi, gran parte dei quali è pensata a tavolino dai Centri per l’impiego e destinata, di conseguenza, a rimanere scollegata dal mondo reale. Probabilmente l’assessore ritiene che, come all’università, l’importante è imparare qualcosa, ché poi si vedrà. Il mondo del lavoro, però, è un’altra cosa. Lì non possono funzionare i sistemi e i metodi della formazione calata dall’alto e, prima di far partire qualsiasi iniziativa pubblica di aggiornamento e riqualificazione, è indispensabile un preciso accordo con gli operatori economici sugli obiettivi e sui contenuti formativi, altrimenti si buttano soltanto via i soldi per produrre numeri senza senso. Insisto: la parte più innovativa del progetto Pipol non è tuttora avviata. Vedremo tra sei mesi o un anno, al riguardo, quanti soggetti ricollocati potremo ricondurre all’efficacia di quel progetto. Resto tuttavia dell’opinione che la Regione Friuli Venezia Giulia continui a perpetuare un modello inefficace e culturalmente sbagliato di politica attiva del lavoro. Di recente l’assessore Panariti ha inserito, tra i vari numeri che esibisce, le 8.500 persone disoccupate convocate dai Centri per l’impiego per la fase di accoglienza che precede l’elaborazione dei piani personalizzati dei servizi da erogare a ciascuna di loro. Si tratta di dati che non dicono nulla ed eludono il punto di fondo: gli operatori dei Cpi, per quanto volonterosi, svolgono un lavoro essenzialmente impiegatizio, cioè non “esplorano” a sufficienza il territorio regionale con visite costanti presso le sedi delle imprese; non sono perciò in grado di rilevare, in modo capillare e dettagliato, i fabbisogni reali del mondo produttivo. E senza una puntuale analisi di tali fabbisogni – che dovrebbe anticipare l’accordo con le stesse imprese sul percorso di reinserimento lavorativo – non può esistere nessuna valida personalizzazione, se non quella appiattita sul mero ascolto dei desideri della persona senza lavoro. Manca, in altre parole, un forte collegamento con la domanda occupazionale, mentre permane uno sbilanciamento sulla sola offerta. E sarebbe questa la collaborazione sistemica di cui parla l’assessore regionale?

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Messaggero Veneto, 8 febbraio 2015 – «MARAN IL RENZIANO E I ROSICONI DEL PD»

di TOMMASO CERNO

Sono rimasto molto colpito dalle critiche piovute da una parte del Pd al rientro di Alessandro Maran, primo renziano democratico del Friuli Venezia Giulia a essersi manifestato quando dire la parola Renzi era come dire una parolaccia, quando chi lo contesta oggi appellava il futuro segretario del partito democratico – all’epoca sindaco rottamatore di Firenze – con nomignoli tipo “Gianburrasca”. Non è per difendere Maran, ma ci si aspettava da un partito di governo, che ha la presunzione di guidare un processo di riforma della Regione e del Paese, qualcosa in più della classica “rosicata”, per dirla proprio con Renzi. E se c’è un mea culpa che il Pd – all’epoca schierato con Bersani – dovrebbe fare è quello di avere spinto Maran verso l’uscita dal partito che ha contribuito a fondare, con la solita scusa delle primarie che non è certo la ragione per cui le sue posizioni sul sindacato e sul lavoro furono censurate. Qui come a Roma. Bene, chi oggi contesta il suo ritorno parta da un presupposto politico che vale molto più di queste piccole vendette private: se Maran torna nel Pd con il lasciapassare di Matteo Renzi è perché il Pd ha cambiato le sue posizioni proprio sui temi del lavoro e del sindacato. Sarebbe ben strano che il nuovo Pd di Renzi lasciasse oggi fuori dal suo steccato proprio i socialdemocratici naturali, per elevare alla dirigenza i convertiti dell’ultima ora. Il 31 ottobre 2012, quando nel Pd si inneggiava alla Ditta D’Alema-Bersani, quando Rosy Bindi puntava al Quirinale, quando Gianburrasca Renzi era considerato un nemico da abbattere Alessandro Maran scriveva un fondo su questo giornale dal titolo: “Ragioni della scelta di votare Renzi”. Un fondo che fu accolto dalle stesse critiche che oggi i presunti renziani (di corrente governativa, così come di area civatian-orfiniana) rivolgono proprio all’autore del testo. Scriveva Maran: «Voterò per Matteo Renzi. Sono dell’opinione che il centrosinistra abbia bisogno di una rigenerazione, sia pure al prezzo di qualche scossa» E aggiungeva: «Si può pensare quello che si vuole di Matteo Renzi, ma non c’è dubbio che nei suoi discorsi (e nel suo programma) abbia ripreso quasi tutte le idee-chiave della sinistra liberale; e non c’è dubbio che è con queste idee che prova a sfidare la maggioranza del Pd. Diciamoci la verità: il più delle volte, le riforme che sarebbero necessarie (per trasformare un sistema giudiziario bizantino, un governo locale sciupone, un sistema sanitario scricchiolante ecc.) sono impopolari e rischiare l’impopolarità nei punti di forza tradizionali (il pubblico impiego, per esempio), puntando sulla riconoscenza delle generazioni che verranno, esige un coraggio che gli attuali leader del Pd non hanno. Il punto irrisolto è sempre lo stesso». E scriveva infine: «Dovesse prevalere Renzi alle primarie, non finiremmo nell’anarchia, ma il Pd diventerebbe un partito un po’ più simile a quelli (di sinistra) europei. Mentre le sinistre europee rompono anche simbolicamente con il loro passato perché sono obbligate a considerare nuovi problemi e traguardi, il Pd si auto-confina nel recinto della sinistra tradizionale». Tralascio per buon gusto di riportare ciò che in quegli stessi mesi scrivevano di Renzi i dirigenti che oggi contestano Maran chiamandolo «opportunista». A chi segue la politica, viene difficile immaginare che l’ex segretario dei Ds, fra i promotori dell’operazione Illy del 2003, fra gli ideatori del referendum che ha portato anche in Friuli Venezia Giulia l’elezione diretta del governatore, possa essere considerato un “opportunista”, perché dopo avere lavorato per i democratici sulla riforma della giustizia alla Camera, un paio di capibastone friulani con due-tremila voti di tessere Pd hanno scelto i nuovi deputati alle primarie, gridando a un’iniezione di democrazia partecipativa, quando tutti sappiamo che se si volesse un parlamento eletto dai cittadini si farebbe una legge elettorale dove i cittadini possano scegliere chi eleggere. Detto questo, credo che la natura stessa del Pd renziano sia quella di allargarsi. E di crescere dentro una società italiana che finora non aveva votato a sinistra. Sta qui il fulcro della novità dei Dem rispetto al passato. E passa attraverso scontri di idee che possono lasciare anche delle ferite. Quella lasciata da Maran, il giorno del difficile addio, era una ferita politica. Che va sanata con il dibattito, con il confronto sulle idee, con lo scontro anche duro. Ma non con le argomentazioni della “casta” usate contro la “casta” dalla stessa “casta”. Non dicendo, dopo tre legislature nel Palazzo, che gli altri fanno tutto per una poltrona mentre noi che critichiamo siamo la “politica pura”. Dopo avere cambiato magari casacche e correnti di partito a ogni elezione di segretario.

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GIORNALI2015

Il Piccolo, 7 febbraio 2015 – Maran: mi ha convinto il Jobs Act

Il senatore gradese: «Non chiedo poltrone. La mia è una scelta sul programma. Il Pd sul lavoro ha dato ragione a Ichino»

di Marco Ballico – TRIESTE Renziano della prima ora, lui sì. Nel 2012, primarie del Pd, Alessandro Maran affermava: «Voterò per Renzi: il centrosinistra ha bisogno di una rigenerazione». Un anno dopo entrava in rotta di collisione con il Pd e se ne andava un attimo prima della chiusura delle liste per le politiche. Oggi, il ritorno a casa. Il senatore di Grado è uno degli otto parlamentari montiani che lasciano Scelta civica e si siedono nel gruppo dem. Debora Serracchiani, ieri all’inaugurazione dell’anno accademico, ha incrociato Maran e gli ha detto, semplicemente, «bentornato». Anche con la presidente della Regione c’era stato attrito nel gennaio di due anni fa, ma era tutto un altro mondo: Renzi faceva il sindaco di Firenze e l’europarlamentare Serracchiani appoggiava Pier Luigi Bersani. «La politica è lo spazio della scelta», diceva allora.

Ha scelto il dietrofront per una questione politica?

Ho scelto, abbiamo scelto, perché era arrivato il momento di farlo. Convinti soprattutto dal programma, si può finalmente voltare pagina rispetto ai partiti e alle ideologie del passato. Dopo di che, in queste ore, è arrivato anche l’invito, che abbiamo colto, del presidente del Consiglio a un percorso e a un approdo comune.

Improvvisamente comune?

No, già da tempo. Anzi, rivendichiamo di avere anticipato, prima con le nostre battaglie da riformisti nel Pd, poi con il programma elettorale di Scelta civica e con i progetti che ne sono seguiti, la parte più innovativa del programma di riforme del governo: dal lavoro all’amministrazione pubblica, dal sistema elettorale a quelle del Parlamento, fino alla politica industriale.

Il Pd ha copiato l’agenda?

Diciamo che, assieme al governo, l’ha fatta propria. Parlo anche di quell’area del partito che aveva marginalizzato alcuni di noi.

Ma qual è il motivo per cui lasciate Scelta civica?

Posto che le nostre idee sono diventate le idee del Pd, è venuta meno la ragion d’essere del movimento. Continuiamo a essere orgogliosi delle battaglie fatte. L’esempio più eclatante è il Jobs Act. Tutti in Italia sanno che, se si parla di riforma del lavoro, lo si deve a Pietro Ichino. Renzi stesso ci ha dato atto di avere dato un contributo decisivo per avviare il cambiamento. Non si tratta solo di numeri, ma di progettualità, partecipazione, battaglia politica.

Perché non continuare allora con il gruppo in cui siete stati eletti? Perché siamo consapevoli che nessuno dei passi avanti sulla via delle riforme necessarie per l’integrazione dell’Italia in Europa sarebbe stato possibile se non nel quadro dell’iniziativa politica promossa e guidata da Renzi, che ha profondamente modificato la configurazione dell’area di centrosinistra e al tempo stesso dell’intero sistema politico nazionale.

Che ne sarà di Scelta civica?

Corre il rischio di ridursi a piccolo partitino con tutte le ragioni del distinguo. Non è la nostra idea.

Che cosa farete nel gruppo Pd?

Concorreremo allo sforzo per determinare i cambiamenti di cui il Paese ha bisogno.

E come lo spiegherete ai cittadini che hanno votato Scelta civica e non Pd?

I cittadini sono arrivati prima di noi. Quell’elettorato alle scorse europee si è trasferito direzione Pd. Perché il Pd renziano ha di fatto assorbito la basa sociale ed elettorale di Scelta civica.

Che cosa resta del voto 2013?

Il grande merito di avere impedito a Berlusconi di vincere le elezioni. E pure che la sinistra rimanesse imprigionata nella cornice identitaria di Bersani e di Vendola. Grazie a quei due stop imposti anche grazie a Scelta civica, l’Italia ha potuto conoscere il cambiamento di Renzi.

Chiedete poltrone?

Proprio nessuna. Il quadro del governo resta immutato.

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