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Sconto Ue-Cina. Se si tratta di «genocidio», sappiamo con «che cosa» abbiamo a che fare – Il Riformista, 23 marzo 2021

A 32 anni dai fatti di Piazza Tienanmen, l’Unione europea è tornata a sanzionare la Cina. E lo ha fatto in coppia con gli Stati Uniti. Nel mirino dell’inedita risposta coordinata delle democrazie liberali, ci sono le azioni repressive di Pechino, dagli oltre 9.000 arresti durante le proteste di Hong Kong del biennio 2019-2020 alla continua violazione dei diritti umani e civili della minoranza islamica e turcofona degli uiguri, nella regione autonoma di Xinjiang.

La Cina ha fato immediatamente sapere che «si oppone e condanna con forza le sanzioni unilaterali decise dall’Ue a carico di persone ed entità cinesi rilevanti, citando le cosiddette questioni relative ai diritti umani nello Xinjiang». Inoltre, solo pochi istanti dopo l’annuncio delle sanzioni della UE, Pechino ha varato a sua volta sanzioni contro cinque eurodeputati di spicco

(Reinhard Butikofer, Michael Gahler, Raphaël Glucksmann, Ilhan Kyuchyuk e Miriam Lexmann), la sottocommissione parlamentare per i diritti umani e i massimi accademici europei che si occupano della Cina. In aggiunta, la Cina ha dichiarato di aver sanzionato anche il Comitato politico e di sicurezza del Consiglio della UE, composto da 27 ambasciatori con sede a Bruxelles (ma non è ancora chiaro se gli stessi diplomatici siano stati colpiti) e perfino i think tank consultati di funzionari europei.

Dopo la reazione cinese anche l’accordo commerciale Pechino-Bruxelles, come ha scritto Stuart Lau su Politico Europe, è ora attaccato al «supporto vitale». I parlamentari europei presi di mira dalle sanzioni cinesi minacciano ora di non ratificare il super accordo sugli investimenti tra UE-Cina siglato a dicembre. «Che differenza fanno tre mesi», ha scritto Lau. Alla fine dello scorso anno, infatti, i leader europei come la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Emmanuel Macron «hanno fatto a gara per assicurarsi un accordo con il presidente cinese Xi Jinping, sperando di rendere la vita più facile ai principali investitori UE in Cina, come le case automobilistiche». Non per caso, «mentre gli U.S.A. hanno descritto gli abusi di Pechino contro gli uiguri come un genocidio e hanno imposto un embargo commerciale, l’UE ha assunto una posizione molto meno conflittuale. L’elenco di sanzioni accuratamente calibrato annunciato dall’UE lunedì ha preso di mira quattro funzionari cinesi nello Xinjiang e l’ufficio di pubblica sicurezza della regione».

Dato l’approccio prudente (e molto limitato), l’immediato contrattacco di Pechino è giunto perciò inatteso. Con l’escalation, «gli intransigenti Wolf Warriors cinesi hanno fatto sapere di essere disposti a sacrificare l’accordo commerciale con Bruxelles, prendendo di mira direttamente il Parlamento, piuttosto che ricevere lezioni dall’Europa su ciò che considerano una questione di sicurezza interna».

Va da sè che, per molti parlamentari europei, ciò rappresenta un buon motivo per mandare tutto all’aria.

A dire il vero, negli ultimi tempi, ogni giorno che passa sembra assestare un nuovo colpo alle relazioni con la Cina. Dopo il primo astioso colloquio tra la nuova amministrazione americana e quella di Xi Jinping la settimana scorsa in Alaska, Washington ha tolto il sigillo alle sanzioni con una mossa, coordinata con l’Unione europea e la Gran Bretagna, che rappresenta l’atto finora più deciso del suo sforzo di costruire un ampio fronte contro Pechino.

Alle sanzioni ha fatto seguito una dichiarazione congiunta da parte della «Five Eyes» (l’alleanza di intelligence che comprende gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, l’Australia, la Nuova Zelanda e il Canada) che sostiene gravi violazioni dei diritti umani nella provincia dello Xinjiang. Il segretario di stato americano Antony Blinken ha accusato inoltre Pechino di commettere «genocidio» contro gli uiguri detenuti nei campi di prigionia.

La notizia, riferisce la CNN, ha entusiasmato i dimostranti radunati fuori dal quartier generale delle Nazioni Unite a New York lunedì mattina. «Passi come questo ci danno speranza. Ma è stato tutto estremamente lento», ha detto Rushan Abbas, una attivista uiguro-americana di primo piano, che racconta che sua sorella è detenuta nello Xinjiang e non ha sue notizie da due anni e mezzo.

Abbas vuole che venga fatto qualcosa non soltanto contro alcuni funzionari cinesi isolati ma anche nei confronti di chiunque nel Politburo del Partito comunista cinese o tra i funzionari sia coinvolto nella gestione dei campi di internamento e sostiene il boicottaggio globale dei prodotti che provengono della regione nord-occidentale della Cina. Ma mentre il destino degli uiguri finalmente comincia a suscitare una reazione internazionale, la dimensione modesta della manifestazione (che ha richiamato poche decine di persone) sottolinea l’enorme squilibrio di potere tra la Cina e chiunque faccia pressioni per chiamarla a rendere conto. «È davvero frustrante. Il regime cinese spende milioni e milioni di dollari per diffondere disinformazione e propaganda raccontando che quel che accade non è mai successo», ha detto Abbas alla CNN.

La copertina dell’Economist di questa settimana, intitolata «The brutal reality of dealing with China», ha posto, non a caso, una domanda epocale: di fronte all’ascesa della Cina, come deve fare il mondo libero per garantire la prosperità, ridurre il rischio di una guerra e proteggere la libertà? Secondo il settimanale inglese, la parabola di Hong Kong rappresenta una sfida per chiunque cerchi una risposta semplice. Anche se la Cina ha dato un colpo alla democrazia, il territorio sta vivendo un boom finanziario. Lo stesso accade nella terraferma: la repressione nella regione occidentale dello Xinjiang lo scorso anno va di pari passo con 163 miliardi di dollari di nuovi investimenti multinazionali e 900 miliardi di dollari di flussi cumulativi esteri verso i mercati dei capitali cinesi. Alcuni consigliano un completo ritiro occidentale dalla Cina, nel tentativo di isolarla e costringerla a cambiare. Si tratta di un prezzo che varrebbe la pena di pagare se l’embargo avesse qualche chance di successo. Ma ci sono molte ragioni per ritenere che, sostiene con prudenza e realismo il magazine inglese, l’Occidente non sia in grado di penalizzare il Partito comunista cinese e privarlo del potere e che, in un modo o nell’altro, bisognerà trovare il modo per far funzionare la «relazione».

Resta il fatto, tuttavia, che se si tratta davvero di «genocidio», cioè di crimini violenti commessi (come recita la Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Crimine di Genocidio) «con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale», sappiamo con «chi» e con «che cosa» abbiamo a che fare. Sappiamo anche che cosa dobbiamo fare.

Nel suo recente intervento alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, Joe Biden l’aveva detto chiaro e tondo: «Siamo ad un punto di svolta tra quanti sostengono che, date tutte le sfide che dobbiamo affrontare – dalla quarta rivoluzione industriale alla pandemia globale – l’autocrazia sia il miglior modo di procedere, e quelli che comprendono che la democrazia è essenziale; essenziale per far fronte a tali sfide». «E credo – con tutto me stesso – che la democrazia prevarrà e dovrà prevalere (…) Dobbiamo difenderla, combattere per essa, rafforzarla, rinnovarla».

Gli europei sono pronti a prendere parte alla battaglia?

Alessandro Maran

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