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Il campanello d’allarme del Myanmar – Il Riformista, 5 febbraio 2021

In molti, anche tra gli analisti, hanno appreso con meraviglia del colpo di Stato che ha riconsegnato il Myanmar ai militari, dieci anni dopo che il paese, liberandosi della dittatura militare, era diventato un beniamino dei democratici. Incluso Carlos Sardiña Galache, il giornalista freelance autore di «The Burmese Labyrinth: A History of the Rohingya Tragedy», il ritratto di una nazione in perenne conflitto con se stessa, che lunedì ha twittato che il colpo di Stato non aveva molto senso, «dato che il sistema concepito dai militari ha funzionato benissimo per loro» anche dopo la transizione.

Altri osservatori sono molto meno scioccati. Secondo Le Monde, la riconquista del potere da parte delle forze armate birmane, «si inscrive nella logica di una dottrina ideologico-militare ancorata nella storia dei conflitti interni permanenti che hanno forgiato il presente post coloniale della Birmania. Da questa visione emerge, per i militari birmani di ieri e di oggi, la convinzione di avere un ruolo centrale da giocare: quello di essere i garanti di una unità nazionale fantasma». Infatti, l’esercito non ha mai cessato, dopo l’indipendenza del 1948, di essere «uno Stato nello Stato, nazionalista e razzista»; e il Tatmadaw (il nome ufficiale delle forze armate birmane) è rimasto un’istituzione parallela dominata da una casta di ufficiali «bramosi del potere civile» e imperniata «sul dovere della difesa della nazione, della Śāsana (la religione buddista), delle tradizioni, dei costumi e della cultura».

«Il racconto della democratizzazione del Myanmar non ha mai corrisposto alla realtà delle cose», ha scritto anche Sebastian Strangio su Foreign Affairs. «Mentre molti osservatori occidentali hanno visto il paese balzare finalmente dalla parte giusta della storia, i leader del Myanmar erano ancora alle prese con le conseguenze di più di un secolo di dominio coloniale inglese e sei decenni successivi di guerra civile e dittatura militare (…) Le riforme cominciate nel 2011 hanno deliberatamente schivato le tensioni di vecchia data tra il NDL (il partito del premio Nobel Aung San Suu Kyi) e le forze armate». E lo stesso Strangio, recensendo su Foreign Affairs il libro del famoso storico birmano Thant Myint-Un «The Hidden History of Burma», si è soffermato sulla parabola di Aung San Suu Kyi, la celebre attivista che, venuta fuori dagli arresti domiciliari, ha incontrato il presidente americano Barack Obama e nel 2011 ha visto realizzarsi il sogno di un Myanmar democratico solo per poi doverlo difendere all’Aja dalle accuse di genocidio dei musulmani Rohingya.

Hannah Beech ha scritto sul New York Times che Suu Kyi non è riuscita a mantenere un equilibrio molto delicato: «Lasciando sfiorire le trattative con il generale Ming Aung Hlaing (il generale, osserva Beech, doveva lasciare il posto di capo dell’esercito quest’estate), Aung San Suu Kyi ha perso il favore dei militari». E difendendo i generali dalle accuse di aver applicato, nel corso delle operazioni militari, i principi della pulizia etnica contro i musulmani Rohingya, «ha perso la fiducia della comunità internazionale che l’aveva sostenuta per decenni». Strangio, invece, vede le cose in modo un po’ diverso:«Sottratti alla vista c’erano i pregiudizi e le tendenze che Aung San Suu Kyi condivideva con molti dei suoi compatrioti (etnicamente) birmani, nonché una personalità tendente all’intransigenza e all’insofferenza verso le critiche», scrive, osservando che dal «2018 era chiaro che gli osservatori occidentali non conoscevano Aung San Suu Kyi così bene come avevano creduto».

Resta il fatto che golpe è una tragedia per la gente che ha goduto di una libertà effimera dopo decenni di tenebre sotto la dittatura; e segna anche il fallimento degli sforzi compiuti dagli Stati Uniti e dai loro alleati per inculcare la democrazia e accompagnare la vecchia Birmania fuori dall’orbita cinese.

Indubbiamente i generali birmani hanno approfittato della reputazione macchiata di Aung San Suu Kyi a livello globale. Il suo fermo rifiuto ad ammettere che le forze armate birmane fossero colpevoli di genocidio nei confronti dei musulmani Rohingya hanno rivelato una vena nazionalista che, preso dall’entusiasmo nell’imporre la storia di un’eroina sulla vicenda politica complessa del Myanmar, l’Occidente aveva ignorato.

Tuttavia, «the Lady», resta molto amata in Myanmar. E la sua condizione attuale è un promemoria che ci ricorda le democrazie alle prime armi hanno bisogno di sostegno. Washington ha smesso di concentrasi sul Myanmar dopo la visita del presidente Barack Obama a Yangon nel 2012, che ha visto centinaia di migliaia di persone riversarsi nelle strade. Dal canto suo, l’amministrazione Trump era priva di una politica coerente nei confronti dell’Asia sudorientale e, a ben guardare, non le è mai importato molto della democrazia in nessun luogo. Senza contare che gli Stati Uniti sono rimasti a guardare mentre i militari liquidavano la democrazia in Thailandia, il vicino della Birmania.

Ora il presidente Biden affronta un test importante per la sua influenza in Asia. Sta già minacciando sanzioni, ma strangolare l’economia nel mezzo della pandemia provocherebbe maggiori sofferenze alla popolazione birmana. E resta da vedere se, mentre i militari spengono Internet e le reti di comunicazione, chiudono le banche e pattugliano le strade delle città, Biden sarà in grado di mettere alle strette l’India, il Giappone, l’Australia gli altri nove membri dell’Asean per allentare la repressione.

Infine, la risposta americana mostrerà anche quanto in là il presidente americano è disposto a spingersi per mantenere la promessa di restaurare la democrazia globale o se, invece, manterrà aperti i canali di collegamento con i generali come parte del «grande gioco» geopolitico per contenere l’influenza cinese.

Proprio lo storico birmano Thant Myint-U, dopo l’annuncio del colpo di Stato, ha twittato: «Ho il brutto presentimento che nessuno riuscirà davvero a controllare quel che succederà. E si ricordi che Myanmar è un paese letteralmente inondato dalle armi, con divisioni profonde lungo linee etniche e religiose, nel quale milioni di persone riescono a malapena a nutrirsi».

Alessandro Maran

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