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How to get away with murder: Biden, l’Iran, l’Arabia Saudita (e Renzi) – Il Riformista, 1 marzo 2021

Dopo una serie di attacchi in Iraq, rivendicati da un gruppo poco conosciuto che si ritiene sia agli ordini di Tehran (l’Iran ha tuttavia negato ogni ruolo nell’attacco di Ebril che è costato la vita ad un contractor americano e in cui sono rimasti feriti militari statunitensi e della coalizione), il presidente Joe Biden, messo alle strette, ha risposto a tono e giovedì scorso gli Stati Uniti hanno bombardato postazioni di milizie sciite filo-iraniane nella zona orientale della Siria, al confine con l’Iraq. Il presidente del Council on Foreign Relations, Richard Haass, ha scritto su Twitter che la rappresaglia americana indica che Biden «non si tirerà indietro dall’uso della forza militare ove giustificato» e che non cercherà di schivare lo scontro in nome del desiderio di raggiungere un accordo sul nucleare con l’Iran.

L’amministrazione Biden ha pubblicato anche l’atteso rapporto dell’intelligence americana secondo il quale il principe reale saudita Mohammed bin Salman «ha approvato un’operazione ad Istanbul, in Turchia, per catturare o uccidere il giornalista saudita Jamal Khashoggi» – una valutazione interna a cui si è ampiamente accennato, ma che l’amministrazione Trump, notoriamente vicina a MBS, aveva deciso di minimizzare. Il Dipartimento di Stato ha inoltre deciso di vietare il rilascio del visto a 76 sauditi che ritiene siano coinvolti nell’omicidio o erano «impegnati nel minacciare i dissidenti all’estero».

Per quel che riguarda le conseguenze, la redazione del Washington Post, l’ultimo datore di lavoro di Khashoggi, riconosce che gli Stati Uniti devono mantenere una qualche relazione con MBS («gli Stati Uniti dipendono ancora dall’Arabia Saudita per la stabilità del mercato globale del petrolio e per il suo contributo nella lotta contro il terrorismo», scrive il quotidiano statunitense), ma pretende che in qualche modo sia chiamato a rispondere delle sue azioni: che, per esempio,  Saud al-Qahtani, l’artefice dell’assassinio del giornalista saudita, uno stretto collaboratore di MBS nominato nel rapporto della CIA, sia consegnato alla giustizia, e che il principe smantelli parte del proprio apparato di sicurezza («altrimenti ci saranno ulteriori vittime»).

Su Foreign Policy, Stephen A. Cook scrive che tuttavia l’accountability è difficile da ottenere. L’élite del mondo degli affari continua ad accorrere a frotte nel regno del deserto, «scommettendo che l’impegno dichiarato delle organizzazioni per i diritti umani, dei giornalisti e di un gruppo di legislatori americani relativamente bipartisan per mettere l’Arabia Saudita di fronte alle proprie responsabilità non sia poi così consistente – e potrebbero aver ragione». L’amministrazione Biden può decidere di limitare la vendita di armi a Riyadh o rivedere il modo in cui l’Arabia Saudita usa le armi americane, ma Washington ha ancora bisogno del suo «principale interlocutore nella regione». «Mi sembra che finora in pochi nella capitale abbiano elaborato in modo rigoroso cosa implica l’accountability», conclude Cook. «Il che è un peccato perché la politica estera per mezzo delle prediche è destinata a fallire».

Secondo Annalisa Perteghella, dell’ISPI, «i segnali lanciati finora dall’amministrazione Biden indicano la volontà di segnare un certo cambiamento rispetto alla linea impressa dall’amministrazione Trump: non più carta bianca e sostegno incondizionato, bensì pressioni e azioni mirate a far sì che il Regno, e il giovane MBS, moderino il proprio operato. Non dimentichiamo poi che Biden, come già Obama, dovrà far digerire ai Saud l’amaro calice di una nuova intesa con l’Iran. Le azioni di questo primo mese servono quindi anche a creare leverage nei confronti di Riad. Non è però in discussione la tenuta dell’alleanza: obiettivo di Biden è semmai quello di riportare gli Usa alla guida, e soprattutto poter continuare a sostenere l’alleato senza dover pagare un prezzo politico interno – ricordiamo l’opposizione del Congresso alla guerra in Yemen – o internazionale, come l’indignazione suscitata proprio dal caso Khashoggi». La pensa così anche la redazione di Le Monde, per la quale «la pubblicazione del rapporto ‘Khashoggi’ non è certo sinonimo di rottura tra i due alleati». «Joe Biden si aspetta dall’Arabia Saudia una governance meno brutale», scrive il quotidiano francese. «Il presidente democratico sa che non trasformerà MBS in modello di virtù. Ha semplicemente bisogno che il suo principale partner arabo sia più presentabile e stia al gioco del multilateralismo. Mentre si appresta a negoziare con l’Iran il ritorno all’accordo sul programma nucleare, Joe Biden cerca così di premunirsi contro le cattive sorprese. Il colpo inflitto a MBS potrebbe dissuaderlo, se ne avesse avuto l’intenzione, dall’ostacolare i suoi sforzi in quella che sarà, senza dubbio, una partita diplomatica molto delicata. Il principe ereditario farebbe bene ad intendere il messaggio. In parallelo ai suoi attacchi di autoritarismo, ha lanciato un ambizioso programma di modernizzazione economica e sociale del suo paese. Questa iniziativa ha bisogno di un livello di investimento straniero e di adesione popolare che in Arabia Saudita è oggi molto lontano. Se vuole dare al suo plano una possibilità di successo, MBS deve trasformare il suo regno della paura in uno stato di diritto».

Ovviamente, l’Arabia Saudita è un alleato irrinunciabile anche per l’Europa. Per diversi fattori – da quello culturale e religioso a quello economico, fino a quello più prettamente geo-strategico (grazie anche alla partecipazione al G20 e al ruolo preponderante nell’ambito dell’Opec) – il paese continua a rappresentare uno dei punti di riferimento nell’area mediorientale. Come scriveva l’ISPI in tempi non sospetti, «nella misura in cui la politica estera europea ha come prima direttrice quella rivolta verso il Mediterraneo sud-orientale e il Medio Oriente, il mantenimento di buone relazioni con i sauditi è un elemento imprescindibile nella speranza di giungere a risultati apprezzabili nella risoluzione di controversie come quella israelo-palestinese e, più  in generale, quella arabo-israeliana (…) Al contrario, un’instabilità diffusa anche nel regno saudita costituirebbe un ostacolo in più per la politica estera europea nell’area, ancora in cerca di una posizione comune e di una maggiore efficacia, come hanno dimostrato le crisi maghrebine, che hanno colto Bruxelles impreparata e ne hanno nuovamente messo in evidenza le lacune strutturali in materia di proiezione esterna». 

Vale, naturalmente, anche per l’Italia. Non c’è dubbio che, per dirla con Joseph Fouché (o forse Talleyrand), quello di Matteo Renzi «è peggio di un crimine, è un errore». La sua conferenza con il principe bin Salman è un errore che, come ha scritto Giuliano Ferrara, «gli sarà rimproverato finché campa per un gesto troppo disinvolto e immoralistico»; ed «è difficile scampare ad un errore politico in un ambiente di finti moralisti» come il nostro. Eppure le cose stanno come ha detto Renzi al Corriere: «soltanto chi non conosce la politica estera ignora il fatto che stiamo parlando di uno dei nostri alleati più importanti. Il regime saudita è un baluardo contro l’estremismo islamico, la forza politica ed economica più importante dell’area. Il programma Vision2030 è la più importante iniziativa di riforma mai tentata nella storia della regione». Senza contare che, da sempre, l’Italia fa affari con l’Arabia Saudita (e forse, grazie a Renzi, ne farà più di prima).

Stando ai dati della Farnesina (infomercatiesteri.it), l’Arabia Saudita si colloca al secondo posto tra i partner commerciali dell’Italia nell’area MENA (seconda solo all’Algeria). In Arabia Saudita esportiamo macchinari meccanici, apparati elettrici, mobili, lavori di ghisa, strumenti di misura, controllo e precisione, ecc. Importiamo soprattutto petrolio, ma anche materie plastiche e prodotti chimici inorganici. In Arabia Saudita operano circa una cinquantina di aziende italiane, specialmente nel settore energia, infrastrutture & costruzioni, trasporti. I principali gruppi italiani presenti sono Salini Impregilo, Maire Tecnimont, Ansaldo STS, Gruppo FSI, Tenaris, Carlo Gavazzi, CESI, Leonardo, Elettronica SpA, oltre a varie società di ingegneria (Proger, Manens-Tifs, Italconsult) e studi di architettura (Studio 65, Schiattarella Associati, AR&P Architecture). L’Italia, si sa, è molto forte anche nel settore del lusso, dalla moda alla gioielleria, dai mobili & design alle autovetture e i  principali marchi italiani presenti in Arabia Saudita sono Aurora, Bulgari, Roberto Cavalli, Armani, Versace, Fendi, Prada, Ferrari, Lamborghini, Pagani, Maserati, Poltrona Frau e Minotti. Sono inoltre presenti numerosi ristoranti italiani e prodotti agroalimentari nei supermercati. Nel settore oil & gas vi è la presenza storica di SAIPEM, che si è aggiudicata negli ultimi anni svariati contratti dal committente Saudi Aramco, nel quadro di un Long Term Agreement. E tanto per fare un esempio, nel 2013 un consorzio guidato da Salini-Impregilo e Ansaldo STS si è aggiudicato il contatto per la realizzazione di una delle 6 linee della metropolitana di Riad (41 km e 22 stazioni) e nel 2018 Ansaldo STS, in qualità di leader del consorzio FLOW (composto da: Ansaldo STS, Ferrovie dello Stato Italiane, Alstom Transport S.A), ha ricevuto l’assegnazione del contratto di operation & maintenance delle linee 3, 4, 5 e 6 della metropolitana di Riad. Tutte cose che dalle nostre parti è impossibile realizzare. E potrei continuare.

Detto questo, rimarrebbe da chiedersi: l’Italia può avere una politica estera più «esigente», con al centro magari il rispetto dei diritti umani? Probabilmente no. Il mondo è sempre stato un posto pericoloso (che pullula di tiranni) e la condizione di vulnerabilità dell’Italia (verso l’esterno, a causa della continua instabilità dei due versanti obbligati della politica estera italiana, i Balcani e la sponda Sud del Mediterraneo, e verso l’interno, a causa delle nostre debolezze politiche e istituzionali) è una costante storica. Infatti, l’ancoraggio a sistemi di alleanza con attori più forti, in grado di colmare il deficit di sicurezza internazionale ed interno del paese, è stata la risposta a questa condizione. Oggi però l’America non ha più la scala, la forza e neppure il consenso interno per agire come Atlante che regge sulle spalle il mondo, fungendo contemporaneamente da locomotiva economica e da garante della sicurezza militare. Inoltre, una preoccupante crisi di coesione continua a gravare sull’Europa, l’architrave stessa dell’opzione multilaterale dell’Italia.

Senza contare che per avere una politica estera all’altezza dei nostri proclami, bisognerebbe avere i conti pubblici a posto, una situazione finanziaria solida e un paio di centrali nucleari (e magari anche diverse trivelle attive in Adriatico e parecchi rigassificatori): tutte cose che non abbiamo e non vogliamo avere. Poi bisognerebbe avere un atteggiamento meno strumentale, meno incline all’indignazione selettiva. Ma, si sa, ogni scarrafone è bello a mamma soja. Così finisce che non tutti i despoti sono uguali. Ci sono quelli che, a seconda dei gusti, ci stanno simpatici perché, come Chavez e Maduro sono a capo di un governo anti-americano e anti-capitalista, o perché, come Putin (che difende la tradizione, vuole limitare l’immigrazione, avversa istituzioni sovranazionali e si oppone all’Islam, al liberalismo culturale e alla secolarizzazione) sono un baluardo dei valori conservatori; oppure come Xi Jinping, perché la Cina dominerà il mondo. Inoltre, dovremmo assumere rischi e investire (energia, uomini, risorse). Di nuovo, tutte cose che non vogliamo fare. Ma se non siamo disposti a investire e ad assumere rischi la nostra politica estera non può essere molto diversa da com’è.

Oltretutto, non vogliamo la pace (e neppure difendere l’ordine liberale internazionale). Vogliamo essere lasciati in pace (che, tanto per fare un esempio, proprio in Algeria, uno dei nostri principali fornitori di gas, la democrazia sia sospesa e la violazione dei diritti umani costante, non ce ne importa nulla). E pretendiamo che qualcuno (gli americani, di norma) ci porti la colazione a letto. Pensiamo sia un nostro diritto. Ovviamente, non durerà ancora a lungo. Ma cambiare abitudini, per noi non sarà facile. Possiamo sempre, in compenso, prendercela con Renzi. Ci farà sentire meglio.

Alessandro Maran

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