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Ma quale magico Donald, la ripresa fu con Obama – Il Riformista, 3 novembre 2020

Il presidente Trump ripone gran parte delle speranze di rielezione nella sua gestione dell’economia, una delle poche aree nelle quali, stando ai sondaggi, gli elettori preferisco il presidente uscente allo sfidante democratico, l’ex vicepresidente Joe Biden.

Tuttavia, nonostante si vanti di avere dato vita ad un «rinascimento economico» e vada dicendo che, sotto la sua guida, l’America, ha goduto dell’economia più florida «della storia», i dati mostrano che l’economia pre-pandemia è cresciuta lungo le linee di tendenza del secondo mandato dell’ex presidente Barack Obama.

Ora, però, il coronavirus ha interrotto questo andamento e si discute non soltanto su chi abbia il merito del boom precedente, ma anche su come rispondere alle difficoltà (senza precedenti) create dalla pandemia e gestire una ripresa che si annuncia lunga e difficile.

I tre anni di prosperità precedenti al Covid-19 sono l’argomento principale della campagna elettorale di Trump. Ma perfino il mercato azionario, l’indicatore prediletto del presidente americano, mostra che l’andamento dell’economia durante l’amministrazione Trump è molto simile a quello del secondo mandato di Obama: l’indice industriale Dow Jones ha guadagnato il 45% nel corso degli ultimi quattro anni di Obama rispetto al picco del 50% del mese di febbraio e al 44% della settimana scorsa.

Senza contare che, con altri parametri, l’economia di Obama è andata meglio dell’economia di Trump, anche prima della botta del coronavirus. Il tasso di disoccupazione, per esempio, è sceso di più di tre punti percentuali durante il secondo mandato di Obama rispetto all’1% circa registrato da Trump prima della pandemia. L’occupazione è cresciuta di 10 milioni di posti di lavoro (il 7,4%) negli ultimi quattro anni dell’amministrazione Obama rispetto ai circa 7 milioni (il 4,7%) registrati fino a febbraio, prima della diffusione del coronavirus. In media, i posti lavoro sono cresciuti al ritmo di circa 210.000 al mese nel corso del secondo mandato di Obama rispetto ai 185.000 (fino a febbraio) del mandato di Trump.

Secondo Dietrich Vollrath, presidente del Dipartimento economico dell’Università di Houston, le statistiche mostrano che la traiettoria economica è stata sostanzialmente la stessa con entrambi i presidenti. In generale, sostiene Vollrath, i presidenti hanno un’influenza sull’economia minore di quel che si pensa, con una eccezione rilevante: i periodi di crisi. «È qui che le amministrazioni e i governi sono più importanti e fanno la differenza».

Ora la pandemia ha «apparecchiato» la crisi. Le chiusure aziendali e le disposizioni che impongono di restare a casa hanno causato perdite record di posti di lavoro, cancellando un decennio di guadagni; il paese ha perso quasi 21 milioni di posti di lavoro in marzo e aprile e ne ha recuperati solo la metà; l’economia, dopo una contrazione record nel secondo trimestre, è in procinto di ridursi per la prima volta dal 2009, l’ultimo anno della «Grande recessione». E il guaio è che, stando agli economisti, i politici americani sembrano ripetere gli errori di allora. Al tempo della «Grande recessione», dopo un raffica di misure finalizzate a garantire uno stimolo economico, il governo federale non ha dato seguito allo sforzo iniziale per sostenere l’economia con ulteriori provvedimenti. Allora, ciò ha comportato crescita debole e alta disoccupazione. E la storia sembra ripetersi.

All’epoca, come racconta Rebecca Carballo, gli ulteriori interventi di stimolo per supportare la ripresa economica furono bloccati dai repubblicani (che si assicurarono il controllo della Camera del Rappresentanti nel 2010) preoccupati dal deficit crescente. Ora i repubblicani controllano il Senato e, tirando ancora in ballo il deficit pubblico, stanno di nuovo resistendo ad un altro round di stimoli indirizzati ad aiutare in particolare gli Stati ed i governi locali che, alle prese con il calo delle entrate fiscali e la crescente domanda di servizi, nel mese di settembre hanno tagliato più di 180.000 posti di lavoro. Eppure, per dirla con le parole di Vollrath, «il debito in questo caso importa poco, per la stessa ragione per cui, se la tua casa sta andando a fuoco, non perdi tempo a discutere con il vicino per usare il suo idrante».

L’opinione prevalente tra gli economisti è che l’economia potrà ripartire solo se si riuscirà a tenere la pandemia sotto controllo. Joe Biden ha presentato un piano di sette punti che comprende l’obbligo nazionale di indossare la mascherina, più test, l’aumento della produzione di attrezzature per la protezione personale, finanziamenti per gli Stati ed i governi locali e 25 miliardi di dollari per la produzione del vaccino. Biden propone inoltre di incrementare il prossimo pacchetto di incentivi e di aiuti del governo di 2000 miliardi di dollari; ed ha proposto anche un programma infrastrutturale di 13 trilioni di dollari per riparare autostrade e ponti, modernizzare la rete elettrica e promuovere nuove tecnologie. Per risollevare l’economia, Trump ha proposto un nuovo round di tagli fiscali e un piano infrastrutturale «davvero grande e coraggioso», per il quale non ha fornito dettagli. Inoltre, ha riposto le sue speranze di una rapida ripresa sul vaccino contro il coronavirus. Nel frattempo, ha esortato gli Stati e le amministrazioni locali a consentire una maggiore attività economica eliminando le restrizioni e le misure di distanziamento sociale anche se i casi di Covid-19 stanno crescendo di nuovo. Il mese scorso, ad una manifestazione nel Michigan, dove la governatrice Gretchen Whitmer, una democratica, ha mantenuto le restrizioni, ha esortato la folla: «Dite al vostro governatore di aprire il vostro Stato!».

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Meno migranti, meno produttività”, lanalisi di Mark Zandi

“Meno migranti, meno produttività”, l’analisi di Mark Zandi

Sullo Houston Chronicle, Rebecca Carballo riporta l’opinione di Mark Zandi, capo economista di Moody Analytics, l’unità di ricerca dell’agenzia di rating. Secondo Zandi, le politiche di Trump sono state al massimo «una verniciata alla bell’e meglio». Perché? Trump, sostiene il chief economist di Moody Analytics, è stato senz’altro capace di «pompare» un’economia in crescita con i tagli fiscali del 2017. I tagli fiscali hanno rappresentato la più grande riduzione della tasse alle imprese nella storia degli Stati Uniti (dal 35% al 21%) e hanno abbassato le tasse per la maggior parte degli americani (in particolare per i ricchi).

L’impatto dei tagli fiscali, è stato tuttavia controbilanciato (e minato) dalla politica commerciale e dalle politiche migratorie di Trump, dice Zandi. Moody Analytics stima che la guerra commerciale con la Cina sia costata agli Stati Uniti circa 300.000 posti di lavoro e abbia tagliato lo 0,3% del tasso di crescita economica. In aggiunta, mentre il deficit commerciale degli Stati Uniti con la Cina si è ridotto, è cresciuto con quasi tutti gli altri principali partner commerciali, crescendo perciò complessivamente. Le politiche migratorie restrittive, che hanno limitato l’immigrazione illegale e anche quella legale, hanno indebolito la forza lavoro e la crescita della produttività, afferma Zandi.

Per esempio, circa un anno fa è esploso un boom delle costruzioni del Sud, ma diversi Stati hanno patito una carenza di lavoratori in un’industria che si fonda ampiamente sul lavoro degli immigrati. Se fosse stato disponibile un maggior numero di lavoratori, dice Zandi, il settore edile, i posti di lavoro e l’economia sarebbero cresciuti molto più rapidamente. Nel frattempo, la lotta per il primato tecnologico è diventata l’elemento centrale della relazione tra Pechino e Washington. Ma questa, come si dice, è un’altra storia.

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