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La nuova campagna di “epurazione e rettifica” in Cina – Il Riformista, 27 agosto 2020

La Cina ha lanciato una nuova campagna di “epurazione e rettifica” contro la corruzione. Come ha riportato di recente il South Morning Post, le forze dell’ordine hanno annunciato una campagna per epurare dalle proprie fila gli “elementi corrotti” e creare un esercito inattaccabile.

La campagna avrà inizio quest’anno con una serie di progetti pilota in cinque città e quattro contee per poi proseguire a livello nazionale nel 2021. Mentre la testata francese RFI paragona l’iniziativa ad una purga stalinista nel partito, altri analisti avvertono l’eco del “Movimento di rettifica” Yan’an, che 78 anni fa servì al consolidamento della posizione di Mao Zedong (il primo febbraio 1942, nella famosa base rossa di Yan’an, fu ufficialmente inaugurato il “zheng-feng”, traducibile come “movimento per il raddrizzamento delle tendenze” o “campagna di rettificazione”, che durò per due anni) e della lotta contro la corruzione (ed il repulisti) che ha aiutato il presidente Xi Jinping a neutralizzare le minacce e a consolidare il suo potere all’inizio del mandato.

La pratica della rieducazione e del controllo sistematico del comportamento segnano, si sa, tutta la storia della Cina comunista. Su China Story, Ling Li ha scritto tuttavia che “l’ultima volta che una campagna di rettificazione è stata organizzata dal vertice del partito, prendendo di mira istituzioni giudiziarie (corti e procuratori, in particolare), fu la campagna per la ‘riforma della giustizia’ dal 1952 al 1953 (che è durata per sette mesi). Quella campagna fu lanciata per sradicare il ‘veleno’ della prassi giudiziaria vigente sotto il governo nazionalista” che ha preceduto il regime comunista cinese. Il nuovo sforzo, invece, “sembra focalizzarsi maggiormente sulla cattiva condotta della polizia”. Del resto, “la polizia è considerata l’apparato coercitivo più importante tra tutte le istituzioni politiche e giudiziarie” e, perciò, la sua lealtà è cruciale per i leader del partito.

Sullo stesso sito, Adam Ni osserva che l’iniziativa la dice lunga sulla concezione che Xi ha della leadership e su come pensa di evitare il destino delle passate dinastie. In altre parole, Xi sembra pensare che, per mantenersi in sella, il Partito comunista cinese abbia bisogno “di una vigilanza e di un adattamento costanti”. Sebbene, come scrive Ni, la retorica totalitaria del partito, il tentativo di controllare capillarmente la società in tutti gli ambiti di vita, rischi di “portare la Cina in una direzione preoccupante”.  Fatto sta che Xi Jinping torna ad issare la bandiera della “questione morale”, che resta il principale mezzo per legittimare e consolidare il suo potere. Del resto, tutto il mondo è paese.

Alessandro Maran

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