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Il Partito comunista cinese festeggia un secolo di vita. La ricetta? Crescita economica, adattabilità e repressione – Il Riformista, 29 giugno 2021

Il primo luglio prossimo, il Partito comunista cinese celebrerà in pompa magna il centenario della fondazione con una «grande cerimonia» e con festeggiamenti, manifestazioni e rassegne che metteranno in mostra, come ha scritto il quotidiano del partito Global Times, «il corso glorioso, i grandi risultati e la preziosa esperienza del PCC negli ultimi 100 anni». 

Non c’è dubbio che, all’inizio del suo secondo secolo di vita, il partito ha buoni motivi per vantarsi. Nessun’altra dittatura è stata in grado di realizzare una simile metamorfosi trasformando un paese preda della carestia (com’era la Cina ai tempi di Mao Zedong) nella seconda economia del mondo, le cui tecnologie e le cui infrastrutture all’avanguardia fanno vergognare le strade dissestate e le ferrovie americane (e, ovviamente, anche quelle di casa nostra). Grazie al pugno di ferro, alla flessibilità ideologica e alla disponibilità a condividere i frutti della modernizzazione, i comunisti cinesi sono diventati i despoti di maggior successo al mondo.

Naturalmente, in vista delle celebrazioni, stanno arrivando in grande quantità indagini retrospettive e vaticini.

L’Economist, che ha dedicato la copertina di questa settimana ad uno speciale sul Partito comunista cinese intitolato «Power and Paranoia», scrive che tra gli ingredienti fondamentali della ricetta segreta del partito ci sono «l’elasticità ideologica» (che ha permesso una svolta radicale dalla linea intransigente di Mao Zedong alla strategia paziente dei leader successivi) e, oggi in modo particolare, la sollecita e risoluta (e potenziata dalla tecnologia) repressione del dissenso.

Insomma, la violenza, l’adattabilità ideologica e la crescita economica condivisa hanno mantenuto il Partito comunista cinese al potere. Ma quanto può restare ancora in sella?

La rivista inglese scrive che anche se agli estranei il partito appare monolitico, in realtà «soffre di settarismo, slealtà e lassismo ideologico… Il momento di maggiore instabilità sarà probabilmente la successione» dopo il presidente Xi Jinping. «Nessuno sa chi verrà dopo Xi, né quali regole governeranno la transizione. Quando, nel 2018, ha abolito i limiti al mandato presidenziale, ha annunciato che vuole  rimanere aggrappato al potere a tempo indeterminato. Ma questo potrebbe rendere solo più instabile il passaggio di potere finale. Sebbene le insidie per il partito non portino necessariamente quel governo illuminato che bramano gli amanti della libertà, prima o poi anche questa dinastia cinese finirà», osserva impassibile l’Economist.

Inoltre, nonostante la rapida ascesa della Cina negli ultimi decenni, le analisi esterne evidenziano le nubi che si addensano all’orizzonte.

Anche Foreign Affairs, l’autorevole rivista statunitense che si occupa di relazioni internazionali, dedica il suo ultimo numero al futuro della Cina e si chiede se possa «continuare a crescere» («Can China Keep Rising?»). Jude Blanchette scrive che proprio l’ambizioso presidente Xi Jinping potrebbe rivelarsi un ostacolo al successo futuro del paese, dato che abbandonando la strategia misurata e concentrata sul fonte interno dei suoi predecessori, si è assunto parecchi rischi. La Cina ha moltiplicato la sua quota del Pil globale diverse volte dal 1990, ma Dabiel H. Rosen e Matthew Boswell, nello stesso numero, sostengono che la crescita dell’economia cinese potrebbe aver raggiunto un limite invalicabile stante l’attuale modello regolato fortemente dallo Stato e che la liberalizzazione necessaria ad una ulteriore espansione potrebbe comportare parecchi problemi.

Nel numero in edicola di Washington Quarterly, anche Scott Rozelle e Matthew Boswell scrivono, infatti, che la Cina ha per le mani un problema economico molto serio: centinaia di milioni di cinesi delle regioni rurali (che costituiscono circa il 7% dell’umanità) sono alle prese con la sottoccupazione, la mancanza di istruzione e scarsissime possibilità di partecipare o di contribuire al boom che interessa la classe media del paese. Il problema – ritengono – potrebbe essere così intricato da impedire alla Cina di entrare nei ranghi dei paesi ad alto reddito in tempi brevi.

Insomma, sebbene il partito continui a stupire politici e studiosi con il suo crescente illiberalismo accompagnato da una incessante capacità di adattamento e di tenuta, e contini a sfidare tutte le aspettative (di chi ritiene una maggiore moderazione o il collasso inevitabili), in molti vedono arrivare la tempesta. La serie di tensioni e di contraddizioni accumulate nel modo in cui Xi governa il paese, stanno creando dilemmi ai quadri e ai politici cinesi impegnati nello sforzo per risolvere le enormi sfide (economiche, sociali e politiche) che la Cina deve ancora affrontare.

Resta il fatto che le celebrazioni del 4 di luglio in America e del centenario del Partito comunista cinese non faranno che intensificare la «guerra delle narrazioni» in corso tra le due potenze. Per gli Stati Uniti, il 4 luglio sarà l’occasione per celebrare la vittoria sulla pandemia, la rinascita delle alleanze e il rinnovato impegno nella leadership globale. Per la Cina, il primo luglio segna i cento anni al potere di un partito che governa uno dei miracoli economici più spettacolari della storia. «Washington rinnoverà la fiducia nei suoi valori democratici, Pechino festeggerà le realizzazione del suo modello economico e di governo», ha scritto Lucio Blanco Pitlo III sul South China Morning Post. Ma, aggiunge il ricercatore, per l’Asia sudorientale, la guerra delle narrazioni rappresenta il fossato sempre più ampio che divide due partner fondamentali per la regione e richiede «more astute hedging». Richiede, in altre parole, di pararsi, in modo più accorto, il sedere.

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