Se l’Italia riformista non si decide a battere un colpo, il paese rischia in un modo o nell’altro la deriva sudamericana
Racconta Mario Vargas Llosa che il secondo uomo forte del Venezuela, Diosado Cabello, imbestialito poiché, a causa della vertiginosa inflazione che colpisce il paese, la moneta venezuelana (il Bolívar) è scomparsa dalla circolazione e i venezuelani comprano e vendono soltanto in dollari, ha chiesto ai suoi compatrioti di ricorrere al «baratto» per bandire dal paese, una volta per tutte, la moneta imperialista. Naturalmente, gli sfortunati venezuelani non gli hanno dato retta, perché la dollarizzazione del commercio non è una loro libera scelta come pensa il leader chavista, ma è l’unico modo per i venezuelani di sapere il valore reale delle cose in un paese dove la moneta nazionale si svaluta in ogni istante a causa di una inflazione spaventosa (la più alta del mondo) provocata, moltiplicando il debito pubblico e stampando moneta senza sosta, da governanti irresponsabili.
Secondo il premio Nobel, il richiamo di Cabello al baratto (il primo passo degli uomini delle caverne verso la civiltà) è una chiara indicazione del «ritorno alla barbarie» che sperimenta il Venezuela da quando, in un atto di cecità collettiva, il popolo venezuelano ha consegnato il potere al comandante Chavez. «La demagogia, il populismo e il socialismo, parenti molto prossimi, hanno retrocesso il paese ad una forma di barbarie che non ha precedenti nella storia dell’America Latina e forse del mondo. Quel che ha fatto con il Venezuela ‘il Socialismo del XXI secolo’ è uno dei cataclismi peggiori della storia», ha scritto Vargas Llosa. «E non mi riferisco soltanto ai più di quattro milioni di venezuelani che sono fuggiti dal paese per non morire di fame; ma anche alle ruberie con le quali la presunta rivoluzione ha arricchito un pugno di militari e di dirigenti chavisti le cui gigantesche fortune sono espatriate e si rifugiano ora in quei paesi capitalisti contro i quali protestano tutti i giorni Maduro, Cabello e compagnia».
Sfortunatamente, non è solo il Venezuela a tornare alla barbarie. La barbarie si è insediata anche in Nicaragua, dove il comandante Daniel Ortega e sua moglie, la vicepresidente Rosario Murillo, hanno ricominciato a reprimere la popolazione e ad assassinare gli oppositori grazie a quelle bande armate «sandiniste» che già somigliano come una goccia d’acqua proprio a quei gruppi armati che in passato hanno permesso a Somoza di rubare e saccheggiare il paese. Ma potrebbe capitare anche in Argentina, in Bolivia, in Messico, in Cile, avverte Vargas Llosa. Oltretutto, fatte le debite proporzioni, l’America latina non è così lontana. Con la nascita del governo giallorosso, ci siamo liberati (per il momento) di Salvini, ma diciamoci la verità: il tentativo di «romanizzare i barbari» (e probabilmente anche quello di dare una svolta alla traiettoria dell’Italia) è destinato al fallimento. Le catene che oggi tengono bloccata l’Italia e che Claudio Cerasa ha riassunto di recente in un decalogo (un ambientalismo giacobino che tende a bloccare tutto e che considera ogni forma di progresso come una minaccia per l’ambiente, una cultura politica che tende ad affrontare i problemi dell’Italia creando ripetutamente capri espiatori utili a spostare l’attenzione dai veri guai del paese, una cultura che diffida dell’impresa e tende a scaricare regolarmente sulle casse dello stato l’incapacità molto diffusa della classe politica italiana di rendere il nostro paese un luogo più accogliente per gli investitori stranieri, ecc.) hanno la stessa radice culturale. Non è un mistero per nessuno che il M5s abbia molti tratti in comune (l’anticapitalismo, l’ostilità verso il mercato e la democrazia parlamentare, ecc.) con i movimenti populisti latinoamericani (peronisti argentini, chavisti venezuelani, ecc.). Il guaio è che, come ha scritto Vittorio Ferla, «sia il M5s che la parte vincente dell’attuale Pd hanno in comune – almeno in parte – questi meccanismi perversi del populismo.Troppo forte nella loro storia, infatti, il peso di sedimenti culturali – quello religioso cattolico e quello politico comunista, a loro modo organicistici, escatologici e redentivi – che hanno forgiato la mentalità del nostro paese».
A questa sinistra tre saggisti liberali, Alvaro Vargas Llosa, Plinio Apuleio Mendoza e Carlos Alberto Montaner, dedicarono anni fa un libro arguto, «Manuale del perfetto idiota latinoamericano», edito in Italia da Bietti, che ne demoliva pregiudizi e leggende (uno degli autori, Alvaro Vargas Llosa, è il figlio di Mario). Il libro (che fu un caso editoriale) elencava il «repertorio di tutte le idee sbagliate di un’ideologia che, seppur fallita, rimangono, come illusioni nello spirito della gente». Imbevuto di marxismo, indigenismo e terzomondismo, il perfetto idiota aveva, manco a dirlo, come patria elettiva la Cuba di Castro e ha parteggiato per l’ultima chimera: «il Socialismo del XXI secolo» del Venezuela. Ripudiata la rivoluzione, l’idiota si è fatto populista e detesta in blocco i politici, coltiva l’idea (e la mania) complottistica di un mondo dominato dai banchieri e dalle multinazionali e ripone le speranze in un leader che, come Perón, sappia rappresentare «todos los humildes de la patria». Niente che non ci suoni familiare. Infatti, Bietti ha pubblicato la bella edizione italiana del bestseller del trio con il titolo «Manuale del perfetto idiota italo-latinoamericano», con un saggio di Valerio Riva e le vignette di Vincino.
La diversa base sociale e le differenze ideologiche della Lega (di partiti espressione della «rivolta dei disagiati» in Italia ce ne sono due perché, si sa, ci sono due Italie) spiegano, perciò, i maggiori margini di manovra di cui dispone Salvini e che egli sfrutta con una certa abilità. Del fascismo, ad esempio, Salvini sfrutta l’iconografia, i simboli, i gesti. Ottenendo così, come ha osservato Stefano Feltri, due effetti: con una divisa evoca immagini semplici ed efficaci di autorità (e di capacità di decisione, quella capacità di decisione che i riformisti avevamo promesso di realizzare con le mancate riforme costituzionali) «che sono impresse in modo indelebile nell’immaginario diffuso degli italiani». Inoltre, scatena una reazione pavloviana dei suoi avversari che finiscono per assomigliare davvero alla macchietta del radical chic evocata dalla propaganda leghista. Si tratta di differenze di un certo peso, che fanno della Lega una sorta di grande partito trumpiano italiano. Ma, come ammoniva Massimo D’Alema, in Italia tutte le cose americane diventano rapidamente (e fatalmente) sudamericane.
Prendiamo l’esempio dell’Argentina che ha riabbracciato il peronismo ed è stata un paese «con dos presidentes», Perón e Eva. Semplificando, il populismo di Conte (ma anche della sinistra radicale e dell’attuale Pd) è il peronismo di Perón: la coerenza non è il suo forte, ma non disdegna la politica e i suoi compromessi; detesta il capitalismo, ma sa perfettamente che con esso bisogna fare i conti; maledice la globalizzazione, ma è cosciente che l’autarchia è controproducente: è un peronismo cinico, ma pragmatico.
Il populismo di Di Maio (ma anche quello di Salvini) è il peronismo di Eva: millenaristico, manicheo, redentore; è una comunità di fedeli ansiosa di lanciare una nuova crociata; vede (perfino inconsapevolmente) la politica come un campo di battaglia e la cultura come arma di conversione; è un peronismo ideologico che considera leciti tutti i mezzi poiché ha fede nei suoi fini supremi.
Ovviamente, entrambi i populismi vogliono governare (ciascuno a modo suo). Ed entrambi offrono beni preziosi di cui i loro seguaci sono insieme avidi e bisognosi: protezione, senso di appartenenza e capri espiatori. Hanno cominciato disputandosi spazio e potere e proseguiranno – come ha spiegato Loris Zanatta, autore di una bella biografia politica di Eva Perón – lottando per la preda più ambita: la fede, l’eredità del «vero» peronismo (del populismo autentico, della «vera» sinistra, dell’italiano «vero», ecc.). Certo, come osservava Angelo Panebianco, la Lega (geograficamente e sociologicamente, molto più presente fra i ceti produttivi) pur mantenendo l’ostilità per il grande Capitale, non può permettersi di essere davvero anticapitalista (e forse «davvero» contro l’Europa, l’euro e la democrazia liberale). Il che ha obbligato (e obbligherà) Salvini a molte contorsioni. Ma anche se Salvini (come Perón o Chavez) porta volentieri la divisa (e oggi il «maglioncino»), non può fare a meno di indossare i panni di Evita, la «primera dama».
Se l’Italia riformista non si decide a battere un colpo, sarà come scegliere tra la padella e la brace.