Per uno che ha fatto campagna elettorale su una piattaforma che voleva evitare coinvolgimenti e conflitti all’estero e che ha ripetutamente messo in guardia il suo predecessore contro qualunque azione militare in Siria, Trump ha fatto una capriola mozzafiato nello spazio di appena 63 ore dopo l’attacco chimico.
Serve un’alleanza culturale e trasversale contro i professionisti della fuffa
Lasciate perdere il bipolarismo, mettete da parte le differenze tra destra e sinistra, ignorate per un momento i nomi dei partiti e andate diritti al punto della questione, al vero spartiacque della politica di oggi perfettamente sintetizzato dal titolo di un libro pubblicato qualche mese fa in Francia scritto da Daniel Cohn-Bendit con Hervé Algalarrondo: “Et si on arrêtait les conneries” (Fayard). Che tradotto in italiano suona più o meno così: quando la finiamo di sparare cazzate? La lettera consegnata al Foglio da Alessandro Maran dimostra che nel nostro paese si stanno consolidando due fronti politici trasversali formati da due movimenti d’opinione che superano gli attuali partiti.
MARAN (PD). Signor Presidente, signor Ministro, per uno che ha fatto campagna elettorale su una piattaforma che voleva evitare coinvolgimenti e conflitti all’estero e che ha ripetutamente messo in guardia il suo predecessore contro le azioni militari in Siria, Trump ha fatto una capriola mozzafiato nello spazio di appena 63 ore dopo l’attacco chimico. Giorno dopo giorno, il nuovo presidente americano sta scoprendo quel che ogni populista anti establishment è destinato prima o poi a scoprire: che i problemi di solito sono spinosi e incredibilmente complessi; che, se ci fosse stata una soluzione facile e appropriata, l’avremmo già trovata; che spesso anche le soluzioni meno soddisfacenti costano di più di quanto siamo disposti a pagare o a tollerare.
«Sebbene le elezioni olandesi siano state un vero sollievo per le malconce élite europee – ha scritto il New York Times all’indomani del voto – la situazione non è ancora cambiata». L’immigrazione e la sfiducia nei confronti dell’Unione europea, divenuta il simbolo dell’austerità, continuano ad alimentare il populismo. E Charles Grant, direttore del Center for European Reform, ha messo in evidenza che, in prospettiva, il pericolo più grande per l’Unione europea non viene dalla Francia o dalla Germania, ma dall’Italia: «Se i populisti del M5s dovessero vincere in Italia, ciò avrebbe serie conseguenze, poiché potrebbero condurre il paese a lasciare l’euro e destabilizzare l’Eurozona».
Messe così le cose, allora diciamolo: meno male che c’è Berlusconi. Perché il futuro dell’Italia potrebbe dipendere (ancora) dalle scelte e dalla leadership dell’ex Caimano. A ben guardare, non è una novità. Proprio il New York Times, nel gennaio del 2014 scriveva: «Il patto tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi offre all’Italia una nuova speranza. L’accordo sulla riforma costituzionale tra il leader del più grande partito italiano e il leader dell’opposizione affronta uno dei principali problemi del paese: la sua ingovernabilità. E ora che Renzi è a capo del Partito Democratico, deve mettere la sua energia al servizio di riforme economiche chiave, a partire da quelle del mercato del lavoro e della spesa pubblica». C’era ancora il governo Letta. Sappiamo come sono andate poi le cose. Proprio per questo andrebbe ribadito (lo ha fatto di recente il politologo Paolo Feltrin) che il momento in cui la parabola di Renzi è cominciata a declinare è stato quando ha deciso, senza alcuna visione strategica, «di rompere con Berlusconi, scegliendo di candidare Mattarella senza concordare con lui la candidatura». Forse lo ha fatto «per riappacificarsi con la sinistra interna» (che tuttavia «ha continuato ad attaccarlo»), ma in quel modo ha «perso l’appoggio del centrodestra, che ha iniziato a fargli la guerra su tutto, in particolare sull’Italicum e sulla riforma costituzionale». Forse pensava di essere «sufficientemente forte», ma ha sbagliato a pensarlo.
Fatto sta, da allora tutto è andato storto, la spinta riformista si è indebolita e hanno vinto i Tar d’Italia, i «moderni Samurai» (come li hanno chiamati Francesco Giavazzi e Giorgio Barbieri) che si oppongono al cambiamento.
Del resto, i fatti si sono incaricati di dimostrare che il problema fondamentale dell’Italia non è la mancata moralizzazione del paese, ma la sua mancata modernizzazione (del resto, meno corruzione presuppone meno burocrati) e che nel ’94 non si è prodotto un vulnus che attende di essere sanato, ma sono saltate gerarchie culturali che non è più possibile ristabilire. Tolto di mezzo Berlusconi, non è tornata l’eta dell’oro e la politica non è tornata «normale». Anzi, in questo ventennio, il rancore fazioso, la sfiducia reciproca e la conseguente paralisi sulle questioni più importanti per il futuro del paese hanno fatto perdere credibilità a tutti i leader politici. Ovviamente, la polarizzazione del sistema politico, lo scontro permanete, non sono un’esclusiva dell’Italia (la hyper-partisanship, si sa, ha paralizzato Washington e polarizzato l’America) e sono anche il prodotto di forze profonde (economiche, sociali, tecnologiche) che stanno rimodellando le nostre società. Ma un sistema così conflittuale non può fornire le risposte di cui il paese ha bisogno. Diversi anni fa, Mike Murphy, un veterano delle campagne repubblicane, osservava:«se non salviamo il negozio, le dispute tra destra e sinistra, tra mele e arance, saranno presto irrilevanti. Lavoreremo tutti al TGI Friday’s a Pechino». La pubblicità negativa funziona, si sa, ma bisogna fare attenzione. Non per caso, Mc Donald non ha mai condotto una pubblicità negativa contro Burger King, dicendo che, ad esempio, i loro burger sono pieni di vermi. Avrebbe potuto funzionare per un po’, ma poi nessuno avrebbe più voluto mangiare un altro hamburger. «Mai distruggere la categoria», dicono in America. Ora invece, proprio nel momento in cui avremmo bisogno di una politica credibile e costruttiva, abbiamo «distrutto la categoria».
Anche se molti di quelli che hanno alimentato lo spirito demagogico anti-casta e ci hanno poi condotto nel pantano del proporzionale, ora fischiettano allegramente facendo finta di niente, per il futuro prevedibile, il risultato del referendum e le sue conseguenze definiranno la politica italiana. Come, del resto, accade in Inghilterra dopo il voto sulla Brexit. E come nel Regno Unito, dovremo fare i conti con alcune domande fondamentali: qual è il peso che ora l’Italia può avere in Europa e nel mondo? Che società emergerà da questo sconquasso? E, ancora, davvero un paese sempre più fragile può stare insieme?
Per il nostro paese questo è probabilmente il periodo più importante dalla fine della guerra. Il che ci riporta al Pd. E al suo ruolo. Specie se lo si confronta con la sorprendente irrilevanza del Labour Party: stando ai sondaggi, ormai buona parte delle persone che hanno votato per il Labour nel 2015, a James Corbyn preferisce di gran lunga Theresa May. E non bisogna sottovalutare l’affermazione di Matteo Renzi tra gli iscritti: il popolo del Pd non considera Renzi un usurpatore che si è appropriato con la frode del partito, ha capito che la «mutazione genetica» della sinistra è necessaria per cambiare il Paese e che è tempo perso inseguire il partito delle scie chimiche sui vitalizi e le auto blu. Insomma, la cultura politica del partito sta cambiando e bisogna approfittarne.
Si è detto che il 4 dicembre molte persone hanno votato come hanno votato per mandare un segnale alla politica su problemi che per troppo tempo sono stati ignorati: le gravi disparità regionali, un’economia che offre a tanta gente solo gli avanzi del banchetto, ecc. Ora tutto questo deve tornare al centro del dibattito. Che paese vogliamo creare? Al paese servono più liberalizzazioni, più concorrenza, meno leggi e regole. Per crescere bisogna aumentare la produttività del lavoro e scommettere sulla globalizzazione. E servono soluzioni concrete per i losers. Attorno a questo progetto, all’indomani delle elezioni (è il proporzionale, bellezza) si dovrà costruire una maggioranza di governo. Dovunque lo scontro è quello tra «Wall people» e «Web people», tra costruttori di muri e costruttori di legami, tra apertura e chiusura. Una frattura (ed un «perimetro») che il voto al parlamento europeo sul Ceta, l’accordo commerciale tra Ue e Canada, ha fotografato in modo esemplare: da un lato, buona parte del Ppe, quasi tutti i liberali e una parte di socialisti e democratici; dall’altro, un pezzo di centrodestra, lepenisti, grillini, l’Ukip, e un bel pezzo di (vecchia) sinistra francese e italiana. C’è una parte maggioritaria dell’Italia che vuole liberarsi dalla dittatura dei Tar e non si è ancora rassegnata a Casaleggio. Cogliere questa opportunità richiede, come hanno capito gli iscritti al Pd, quel genere di urgenza, chiarezza ed energia che i Corbyn, i Bersani e i loro alleati non possiedono (quella che Martin Luther King ha chiamato «the fierce urgency of Now», l’urgenza appassionata dell’adesso). Serve, tuttavia, anche la consapevolezza che di fronte alle prove che l’Italia dovrà affrontare, c’è bisogno di una coesione sociale e nazionale straordinaria, senza la quale non possiamo sistemare quel che (da tempo) ha bisogno di essere sistemato. Come ha spesso ripetuto Giorgio Napolitano, «è indispensabile un riavvicinamento tra i campi politici contrapposti, il che non significa confondersi, non significa rinunciare alle rispettive identità, ma significa condividere gli sforzi che sono indispensabili per riaprire all’Italia una prospettiva di sviluppo». E il fatto che il leader di Forza Italia cerchi di ritagliarsi un (nuovo) ruolo alternativo al grillismo, è una buona notizia.
«Sebbene le elezioni olandesi siano state un vero sollievo per le malconce élite europee – ha scritto il New York Times all’indomani del voto – la situazione non è ancora cambiata». L’immigrazione e la sfiducia nei confronti dell’Unione europea, divenuta il simbolo dell’austerità, continuano ad alimentare il populismo. E Charles Grant, direttore del Center for European Reform, ha messo in evidenza che, in prospettiva, il pericolo più grande per l’Unione europea non viene dalla Francia o dalla Germania, ma dall’Italia: «Se i populisti del M5s dovessero vincere in Italia, ciò avrebbe serie conseguenze, poiché potrebbero condurre il paese a lasciare l’euro e destabilizzare l’Eurozona».
Per completare il ritiro del Regno Unito dall’Unione europea ci vorranno due anni. Ma è cominciato il conto alla rovescia. Ora che il governo inglese ha notificato formalmente al Consiglio europeo la sua intenzione di lasciare l’Unione Europea, il Regno Unito ha superato il punto di non ritorno.
Potrebbe rivelarsi il più grande atto di autolesionismo nella storia politica moderna. Contrariamente a quel che il Ministro degli esteri inglese Boris Johnson ha promesso, il Regno Unito non potrà, infatti, avere la botte piena e la moglie ubriaca. Stando a Dalibor Rohac dell’American Enterprise Institute “il 96 per cento degli economisti è d’accordo sul fatto che la Brexit avrà un costo significativo per l’economia del Regno Unito“.
Senza contare che il resto dell’Unione è deciso a far capire chiaramente a tutti che lasciare il club ha delle ovvie ripercussioni negative.
In questo senso, attivando l’articolo 50 del trattato di Lisbona, il Regno Unito ha scelto di rinunciare a buona parte del controllo sul suo futuro economico. I nuovi accordi commerciali sono di là da venire (ed incerti) ed inoltre le forze centrifughe di un rinvigorito sciovinismo stanno cominciando a sfidare la storica unione tra Inghilterra, Galles, Scozia e Irlanda del Nord.
Il Regno Unito è destinato a perdere influenza
Insomma, il risultato è che il Regno Unito è destinato a perdere influenza sulla scena mondiale; e così, anziché “riprendere il controllo”, come hanno garantito i sostenitori della Brexit, il Regno Unito perderà buona parte della sua autonomia nelle questioni finanziarie ed economiche. Dopo tutto, i maggiori ostacoli ad una vera “global Britannia” non sono le tariffe commerciali ma le barriere e le regole non tariffarie, che richiedono l’armonizzazione con i partner commerciali oppure il mutuo riconoscimento. Da questo punto di vista, il mercato unico europeo è stato l’esperimento più ambizioso della storia economica.
Lasciandolo, il Regno Unito sta rinunciando al suo posto alla tavola europea e perciò non potrà più influenzare il processo decisionale futuro nel suo più importante mercato di sbocco; e ovviamente, non potrà plasmare i futuri standard regolatori globali. Inoltre, voltando le spalle all’unione doganale, sarà destinato ad un introdurre nuove barriere al commercio.
In aggiunta, lasciando l‘Unione europea, il Regno Unito perderà anche influenza sulla politica estera europea e perciò vedrà il suo peso globale declinare ulteriormente.
Anche la sua cosiddetta “relazione speciale” con gli Stati Uniti si reggeva sulla speranza che il paese servisse come un ponte tra Washington e il resto dell’Europa. Ora, perfino quell’illusione è andata in pezzi. Il sogno dei Brexiteers di un Regno Unito che reclama il suo posto di leader del Commonwealth delle nazioni di lingua inglese – quello che i funzionari del nuovo Dipartimento del Commercio internazionale del paese chiamano, senza nessuna traccia di ironia, “Empire 2.0” – è assurdo per la semplice ragione che nessuno lo vuole.
Un’ombra sul futuro del Regno Unito
È probabile che il cerchi di ingigantire il suo peso negli affari internazionali attraverso il suo ruolo nella Nato, ma l’aperta ostilità del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e della sua amministrazione nei confronti dell’Alleanza atlantica, rende ancora più fragile questo disegno già poco credibile.
Infine, optando per una Brexit “dura” – che significa lasciare sia l’unione doganale che il mercato unico -, contro i desideri espliciti delle popolazioni della Scozia e dell’Irlanda del Nord, gli elettori inglesi hanno gettato un’ombra sul futuro prossimo dello stesso Regno Unito.
L’indipendenza della Scozia è ora più verosimile
Oggi, l’indipendenza della Scozia è più verosimile che nel 2014, ed il possibile ritorno di un confine rigido tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda ha reso il sogno di una Irlanda unita – come immaginato dal Partito repubblicano irlandese Sinn Fein -, molto meno implausibile di quel che sembrava una volta.
Secondo Matthias Matthijs, che insegna politica economica alla School of Advanced International Studies della Johns Hopkins, il Regno Unito tra pochi anni potrebbe esistere solo come “il vecchio Regno Unito di Inghilterra e Galles” con lo sfortunato acronimo di FUKEW.
Il primo ministro Theresa May ha ora davanti a se un compito difficile: rimarginare le ferite di una nazione divisa cercando al tempo stesso di condurre il paese fuori dall’Unione europea in maniera indolore. Ma non sarà facile.
A quanto pare, a meno di una settimana dal summit con il presidente cinese Xi Jinping, il presidente Trump ha deciso di dar seguito alle sue bellicose promesse elettorali e passare alle maniere forti (sul commercio) con la Cina.
Il presidente americano ha firmato due decreti esecutivi per una revisione della politica commerciale americana. Con il primo provvedimento ha chiesto alle agenzie competenti di analizzare con attenzione i disavanzi commerciali, paese per paese (a cominciare, ovviamente, dalla Cina, ma vale anche per la Germania e per altri Paesi europei e del G7, tra i quali l’Italia), per comprendere dove nasce e come curare il deficit commerciale Usa (di 500 miliardi di dollari); con il secondo ha chiesto alle agenzie di inasprire il controllo sul dumping (dalla vendita sotto-costo agli aiuti di Stato e alla svalutazione monetaria competitiva).
Si tratta, naturalmente, di misure che riflettono le tensioni economiche americane con la Cina, ma che potrebbero preludere a decisioni (in materia di tariffe ed accordi commerciali) che potrebbero portare molto indietro le lancette dalla globalizzazione.
Nei giorni scorsi, con un paio di tweet presidenziali, Trump è andato giù pesante, anticipando che l’incontro con la Cina sarà «molto difficile» posto «l’enorme deficit commerciale» e «i posti lavoro andati in fumo».
Ma, come ha scritto il New York Times, «si tratta di mosse che, sotto la superficie, tradiscono una politica commerciale in rovina, con l’amministrazione inguaiata da carenze nello staff e dalla mancanza di consenso sulla direzione da prendere. Con più parole che fatti, gli ordini finora sembrano una tattica dilatoria per dare ai funzionari dell’amministratore il tempo di mettere insieme quella politica commerciale coerente che manca ancora».
L’incontro con la Cina e la questione della Corea del Nord
I ritardi nel definire una politica commerciale complessiva (ci vorranno 90 giorni per «identificare tutte le forme di abusi commerciali e ogni pratica non reciproca che contribuisce al deficit commerciale Usa») possono però determinare un vantaggio geopolitico. Accantonando le questioni di politica economica, nei colloqui con Xi, Trump si potrà concentrare sulla Corea del Nord.
Resta il fatto che, dopo 75 anni di leadership americana sulla scena mondiale, il summit di Mar-a-Lago in Florida, può segnare l’inizio del passaggio di testimone dagli Stati Uniti alla Cina. Trump ha infatti abbracciato una politica di ritiro dal mondo, che apre uno spazio che il Partito comunista cinese non vede l’ora di riempire.
Per Trump la Cina è “manipolatrice di valuta”
Trump si è scagliato contro la Cina nella sua campagna elettorale, accusandola di «stuprare» gli Stati Uniti. Appena messo piede alla Casa Bianca, l’ha bollata come una «manipolatrice di valuta». Eppure, al primo contatto con Pechino, ha mollato subito.
Qualche settimana dopo la sua elezione, Trump ha pensato bene di aggiornare le relazioni con Taiwan. In risposta, Xi ha congelato tutti contatti tra Pechino e Washington su tutte le questioni, chiedendo a Trump di fare retromarcia. Cosa che, appunto, è avvenuta rapidamente. Può darsi sia solo una coincidenza, ma un paio di settimane più tardi, il governo cinese ha garantito alla Trump Organization dozzine di diritti commerciali in Cina, con una velocità e con una ampiezza che ha sorpreso molti esperti.
Il disimpegno americano
Manco a dirlo, la scelta dell’amministrazione Trump di un disimpegno americano dal mondo è una manna per la Cina. Il bilancio proposto da Trump taglierebbe la spesa dedicata ad alimentare il «soft power» (diplomazia, cooperazione internazionale, organizzazioni internazionali) del 28%. Pechino, invece, negli ultimi dieci anni ha quadruplicato il budget del Ministero per gli Affari esteri. L’amministrazione Trump vuole, inoltre, risparmiare sugli stanziamenti americani per le Nazioni Unite. Anche questa è musica per le orecchie cinesi.
Da anni Pechino sta cercando di guadagnare influenza all’interno dell’organizzazione. Ha aumentato gli stanziamenti per le Nazioni Unite e non vede l’ora di sostituire gli Stati Uniti in ritirata. Specie se si considera che la Cina è già diventata il secondo più grande finanziatore delle missioni di peacekeeping ed ha più peacekeeper di tutti gli altri quattro membri permanenti del Consiglio di sicurezza messi insieme.
Senza contare che il primo e più importante atto dell’amministrazione Trump è stato quello di ritirare gli Stati Uniti dalla Trans-Pacific Partnership, un trattato che avrebbe aperto economie a lungo chiuse come il Giappone ed il Vietnam, ma avrebbe anche creato un’alleanza che avrebbe potuto fronteggiare il crescente dominio del commercio della Cina in Asia.
Il ruolo globale degli Stati Uniti ha sempre voluto dire essere all’avanguardia nella scienza, nell’istruzione e nella cultura. E anche in questo campo Washington si sta ridimensionando mentre Pechino sta dilagando
La potenza americana e l’esercito
L’amministrazione Trump ora sembra volere un esercito più grande. Ma questo non è mai stato il modo in cui la Cina ha cercato di competere con la potenza americana.
I leader cinesi hanno sottolineato che questo è stata, piuttosto, la strategia sovietica durante la Guerra fredda: una strategia che è fallita miseramente. Come a dire, lasciamo pure che Washington sprechi le propri risorse sul Pentagono, meglio concentrarsi sull’economia, sulla tecnologia e badare al «soft power». Il nuovo consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, H.R. McMaster, una volta sottolineato che era «stupido» cercare di combattere gli Stati Uniti simmetricamente, carro armato per carro armato. La strategia più intelligente sarebbe stata quella asimmetrica. I cinesi sembrano averlo compreso benissimo.
A quanto pare, a meno di una settimana dal summit con il presidente cinese Xi Jinping, il presidente Trump ha deciso di dar seguito alle sue bellicose promesse elettorali e passare alle maniere forti (sul commercio) con la Cina.
Il presidente americano ha firmato due decreti esecutivi per una revisione della politica commerciale americana. Con il primo provvedimento ha chiesto alle agenzie competenti di analizzare con attenzione i disavanzi commerciali, paese per paese (a cominciare, ovviamente, dalla Cina, ma vale anche per la Germania e per altri Paesi europei e del G7, tra i quali l’Italia), per comprendere dove nasce e come curare il deficit commerciale Usa (di 500 miliardi di dollari); con il secondo ha chiesto alle agenzie di inasprire il controllo sul dumping (dalla vendita sotto-costo agli aiuti di Stato e alla svalutazione monetaria competitiva).