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La capriola di Trump sulla Siria – www.italiaincammino.it, 13 aprile 2017

Per uno che ha fatto campagna elettorale su una piattaforma che voleva evitare coinvolgimenti e conflitti all’estero e che ha ripetutamente messo in guardia il suo predecessore contro qualunque azione militare in Siria, Trump ha fatto una capriola mozzafiato nello spazio di appena 63 ore dopo l’attacco chimico.

Giorno dopo giorno, il nuovo presidente americano sta scoprendo quel che ha già scoperto con l’Obamacare e che ogni populista anti-establishment è destinato prima o poi a scoprire: che i problemi sono spinosi e incredibilmente complessi; che, se ci fosse stata una soluzione facile e appropriata, l’avremmo già trovata; che spesso anche le soluzioni meno soddisfacenti costano di più di quanto siamo disposti a pagare o a tollerare.

L’attacco di Trump alla Siria

La sua lezione di politica estera, Trump l’ha avuta, in modo tragico, attraverso un attacco ignobile sui civili siriani, molti dei quali bambini, perpetrato, stando a quel che è stato riportato, con le armi chimiche dal regime criminale filorusso e filoiraniano di Bashar al-Assad.

Il presidente Trump è entrato in carica con la convinzione un po’ ingenua che avrebbe potuto fare della lotta all’ISIS il pezzo forte della sua politica in Medio Oriente, e che bastasse sganciare qualche bomba in più e mandare più forze speciali del suo predecessore per mostrare la sua determinazione.

Era ingenua, come capita a molti demagoghi, perché l’ISIS non cresce nel vuoto e non è neppure l’unico cattivo soggetto della Regione; l’ISIS, dopo i fallimenti di George Bush (in Iraq e in Afghanistan), è stato creato come una reazione alle incredibili forzature dell’Iran in Iraq, dove le milizie sostenute dall’Iran e le forze di governo di al-Maliki hanno cercato di distruggere ogni traccia del potere sunnita in quel Paese e di farne un vassallo dell’Iran.

E basta fare una ricerca su Internet sulle milizie sciite in Iraq per scoprire che non è l’ISIS che ha inventato la crudeltà e il fanatismo in quella parte del mondo. L’assalto furibondo degli sciiti iraniani contro i sunniti è andato di pari passo con quello del regime sciita-alawita di Assad in Siria, che ha trasformato, a forza di uccisioni e di massacri, i sogni democratici di quello che era cominciato come un movimento democratico, composto da diverse componenti della società siriana, in una guerra settaria tra sciiti e sunniti (e in una guerra per procura) che ormai coinvolgere tutta la regione.

Il regime di Assad e la Russia

Il regime di Assad ora si regge soltanto con l’aiuto della Russia, dell’Iran e della milizia iraniana degli hezbollah, complici delle sue efferatezze, ma fatica a mantenere il controllo del Paese, perché non può uccidere tutti i sunniti che costituiscono la maggioranza della popolazione. Il che rende anche per la Russia molto difficile vincere la pace, oltre che la guerra.

Per un pezzo Trump ha sostenuto che la sua priorità fosse combattere lo Stato islamico e non costringere Assad ad andarsene. Il segretario di Stato, Rex Tillerson, ha dichiarato che “lo status di lungo periodo del presidente Assad verrà deciso dal popolo siriano”. Come se il popolo siriano potesse tenere su questo tema, e presto, le primarie come in Iowa o nelle piazze italiane. E non c’è da stupirsi che Assad non si sia fatto troppi scrupoli a sferrare un attacco letale.

Lo strike missilistico

Lo strike missilistico ora sembra aver ribaltato la posizione americana. Certo, uno strike non rappresenta una strategia, anche perché sembra un intervento più politico che strategico (mirato, oltretutto, a spostare l’attenzione del pubblico e dei media dalla controversia relativa ai legami di Trump con la Russia). Ma non fare nulla sarebbe stato un errore. Lasciare semplicemente che Assad continui a cercare di ripristinare il controllo su tutta la Siria significa accettare massacri senza fine. Una soluzione basata sulla spartizione e sulla condivisione del potere è impossibile, perché non c’è la minima fiducia tra le parti. Il male minore sarà, probabilmente, la divisione della Siria e la creazione di un’area protetta da una forza internazionale, in primis per i sunniti. Ciò dovrebbe almeno fermare le uccisioni e i flussi di rifugiati che stanno alimentando, come sappiamo, un contraccolpo nazionalista e populista in tutta Europa e che la Russia utilizza come armi per destabilizzare l’Europa.

Spetta, ovviamente, all’Europa (che della crisi siriana è la prima a farne le spese) il compito di fare tutto il possibile per rilanciare le trattative. L’Italia può avere un ruolo molto importante in omaggio alle sue tradizioni e alla sua capacità di mediazione, anche con la Russia. Le occasioni non mancano, a partire dalla Presidenza del G7. Solo così l’intervento militare di Trump avrà avuto un senso.

Va da sè che sarebbe ora che gli europei smettessero di eludere il problema delle politiche di difesa e che provassero ad affrontare finalmente la transizione verso una unità regionale, verso una unificazione significativa. È ormai urgente.

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