Monthly Archives: Set 2015

GIORNALI2006

Il Piccolo, 18 settembre 2006 – Le province non siano dei confini

Desiderare di trovarsi “in una diversa Regione” non sottintende il nation building e l’indipendenza del Friuli, ma implica “rifare” la Pubblica Amministrazione.

Di recente, Sergio Baraldi ha osservato opportunamente che oggi il conflitto che attraversa la politica, la gara tra innovatori e conservatori, riguarda anzitutto il ruolo che deve avere lo Stato. Vengo a un esempio di questi giorni: l’Assemblea delle province friulane. In tutta Europa sono in corso esperimenti per definire un nuovo ordine territoriale. A Rotterdam un network amministrativo che include anche altre municipalità è stato tentato per definire la “Cittaregione”; a Stoccarda una conferenza regionale è stata creata per coordinare la città, il Land Baden Württemberg e le città minori; a Lione si è creata una “regione urbana” con le città vicine e così via. Le città, infatti, stanno mutando funzioni, posizione e funzionamento interno in tutta Europa e l’organizzazione della produzione e dei servizi, per tutte le cose di qualità, sta sempre più uscendo dal tradizionale spazio urbano, divenuto troppo limitato, per approdare ad aree più estese.

Ovviamente, anche un sistema molto frammentato come il nostro (l’80% dei comuni ha meno di 5000 abitanti) si deve organizzare in direzione dell’integrazione fra più città e più sistemi locali, perché solo questa soluzione permette di sostenere i costi e i rischi necessari a sviluppare i servizi di qualità (università, ricerca, sanità, terziario avanzato, ecc.) indispensabili alla produzione e a una vita sociale ricca e solidale. Ma immaginare uno spazio metropolitano (cioè un unico bacino di domanda e offerta per questo tipo di servizi) integrato fra le diverse città della nostra regione e le diverse province non significa progettarne la fusione. Significa al contrario, come scrive, da almeno dieci anni, il prof. Enzo Rullani, «lavorare per la messa in sistema delle conoscenze, delle competenze e delle risorse che sono complessivamente presenti in un’area estesa, in cui i singoli centri urbani possono mantenere e anche rafforzare la propria individualità, divenendo parti specializzate di un sistema più vasto».

Gli esperimenti in corso in tutta Europa ci dicono infatti che per organizzare questo spazio non si deve costruire una qualche “gerarchia” o istituire in modo formale un’autorità istituzionale demandata a governarlo (come l’Assemblea), bisogna invece mettere mano a qualcosa di più flessibile e di più importante: un insieme di “reti” relazionali e di alleanze territoriali (fra enti locali e fra imprese, fra imprese e finanza, fra soggetti economici e centri di formazione e ricerca, ecc.); e nel momento in cui le relazioni gerarchiche sono sostituite dalle reti, i confini diventano permeabili, perdono di importanza e anche i conflitti tradizionali perdono di consistenza. Il progetto, affossato da tanti amministratori friulani, di costruire una società multiservizi (la Nes), che mirava a mettere assieme 133 comuni e circa 1 milione e 300mila utenti, era, a esempio, un passo in questa direzione. Perché allora si continua a invocare l’Assemblea delle province friulane? Per via di un equivoco di fondo che segna la discussione in corso: la questione del «riconoscimento del Friuli». C’è chi pensa che la stessa revisione dello Statuto debba essere il pretesto e l’occasione per riconoscere costituzionalmente la nazione del Friuli che, come la Scozia, sarebbe un caso di Staleless nation, cioè un territorio che pur privo di sovranità statuale ne ricopre i presupposti sostanziali, essendo dotato di una propria riconoscibile identità. Come ha sostenuto il sindaco di Udine Sergio Cecotti nel corso del dibattito in seno alla Convenzione, si tratterebbe dunque di riconoscere un «piccolo Stato» (per Cecotti la specialità sarebbe «una forma attenuata di statualità») nel quale «una comunità compatta parla una lingua localmente maggioritaria»: il friulano.

Anche Marzio Strassoldo ritiene che, superata la questione internazionale, la specialità si legittimi solo con la presenza della minoranza linguistica friulana e l’autonomia debba potersi leggere come «autogoverno della minoranza». Il modello, in altre parole, è quello dell’Alto Adige nel quale l’autonomia è funzionale alla tutela minoritaria e la tutela delle minoranze è il fine dell’autonomia. Da qui le ricorrenti proposte di autonomia “separata” per il Friuli (proposto come luogo mitico d’origine) e per Trieste. L’Assemblea delle province friulane non serve dunque a migliorare la qualità del governo locale (e dunque la qualità della vita dei cittadini): per far questo basterebbe darsi da fare. La sua ragion d’essere sta proprio nel tracciare, irrigidire e sorvegliare il confine tra il “dentro” di quel territorio e il “fuori”. Messe così le cose, è così strano che un tale proposito, che ricorda l’esperimento negativo della Provincia del Friuli (1923-1927), non sia condiviso dalla Provincia di Gorizia? Allora la soppressione della Provincia di Gorizia (assorbita da Udine, Trieste e, in piccola parte, dalla Provincia dell’Istria, dopo che nelle elezioni del 1921 aveva eletto al Parlamento quattro “slavi” e un comunista) fu dovuta alla “necessità” di annullare la prevalenza slovena nel suo territorio e di riaffermare l’italianità della zona, mentre oggi il suo assorbimento verrebbe giustificato invece con la «necessità» di riconoscere una «comunità compatta» (quella friulana) che «parla una lingua localmente maggioritaria» (il friulano). Non funzionò col fascismo e non si vede come possa funzionare oggi. Ma tradisce un’idea di Stato molto discutibile.

L’etnicità è un concetto esclusivista ed è difficile da conciliare con i principi di tolleranza e diversità da cui dipende una vera società civile. Ed è alla “società civile” e non alla “comunità” che ci dobbiamo rivolgere. La cittadinanza è infatti una forma di integrazione basata sulla condivisione di diritti civili e non sull’appartenenza a determinati gruppi vincolati da legami di sangue, tradizioni culturali o gerarchie ereditarie. In questo risiede la novità radicale della “società di cittadini” e la sua superiorità etico-politica rispetto ad altre forme di convivenza del passato. È così bizzarro che Enrico Gherghetta la rivendichi?

E che si rivendichi la persistenza di una “società plurale” che è sopravvissuta ai tentativi di semplificazione culturale e nazionale messi in atto dai totalitarismi e dai nazionalismi del secolo scorso? Che si voglia riportare l’attenzione sul federalismo non come ideologia ma come “progetto riformista”, uno strumento per affrontare i problemi dello sviluppo e le domande di cambiamento e non per delineare una patria e un popolo?

Il passaggio attraverso lo Stato sociale non è avvenuto invano: esso ha profondamente modificato il rapporto tra cittadini e sfera pubblica mettendo in primo piano la dimensione dei servizi ed il problema dell’efficacia, cioè i problemi dell’amministrazione. È questa la ragione per la quale desiderare di trovarsi «in una diversa Regione» non sottintende l’indipendenza del Friuli, ma implica anzitutto “rifare” la pubblica amministrazione.

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Il Piccolo, 9 ottobre 2006 – La sfida della Sinistra

Sergio Baraldi ha scritto, a proposito del recente congresso dei Ds, «non si vive di solo leader» e ha invitato il centrosinistra che vuole vincere (e convincere) «a non sottovalutare l’importanza di un profondo mutamento culturale». È, in fondo, il tema del seminario di Orvieto sul Partito democratico. La relazione di Bruno Zvech testimonia del lavoro per trovare, nella dimensione locale, risposte efficaci, ispirate ai nostri valori e compatibili in un contesto di risorse scarse. Ma il compito mancato, tra il 1989 e il 1994, della costruzione di un grande partito riformista a sinistra (e di un grande partito moderato a destra) è sempre di fronte a noi. Secondo Andrea Romano, nel corso degli anni Novanta, «l’endiadi “socialismo europeo-Paese normale” presentava in realtà un programma ambizioso e fortemente discontinuo rispetto a quanto era accaduto sino ad allora nella sinistra postcomunista (…) Si trattava, né più né meno, di inserire stabilmente la componente maggioritaria della sinistra nell’alveo della socialdemocrazia europea (per la prima volta in termini realmente politico-culturali, al di là dei formalismi associativi già risolti) e di porsi l’obiettivo politico di superare alcuni dei limiti di sviluppo più consolidati della nazione italiana sulla base di un nuovo equilibrio tra coesione sociale e innovazione economica». Ma il governo di allora scontò le sue difficoltà principali proprio sul piano della trasformazione degli slogan della “rivoluzione liberale” in un programma di governo che fosse capace di tradurli in realtà.

Quella vicenda mise in luce l’incapacità della sinistra riformista di promuovere un’aperta battaglia culturale all’interno del proprio “mondo di riferimento” in difesa di quelle idee che aveva annunciato come l’orizzonte della propria azione politica. «Quella battaglia – scrive infatti Romano – non ci fu mai davvero, a differenza di quanto era accaduto pochi anni prima in Gran Bretagna».

E non per un pavidità, ma perché bisognava crederci davvero. «Prevalsero in quel momento – insiste Romano – tutti i limiti di una cultura politica tardoberlingueriana incardinata sull’orizzonte della diversità e su una rappresentazione compattamente unitaria e indivisibile della propria identità e del proprio elettorato. Di tale cultura erano figli legittimi tutti i principali esponenti di quel gruppo dirigente, per i quali ogni rischio di frattura culturale era percepito come l’annuncio di un trauma». Da qui una sorta di strategia dei due tempi: prima bisognava risolvere il problema della guida politica del partito (e del Paese) e «solo successivamente l’effetto carismatico di quella guida avrebbe dovuto trascinare il partito su nuove coordinate di cultura politica. Una strategia che implicava un giudizio di non riformabilità della sinistra e la necessità di una sorta di by-pass con cui superare gli snodi più problematici di quel passaggio storico».

Il fatto è che nessuna delle tradizioni del riformismo italiano può considerasi autosufficiente ad animare un soggetto politico capace di svolgere quella stessa funzione politica che nei grandi Paesi europei svolgono i grandi partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti. In Italia, un partito del genere può nascere solo dal concorso e dalla fusione delle tradizioni, delle esperienze, delle culture politiche di cui sono espressione oggi i partiti dell’Ulivo.

Non mancheranno i problemi: dalla collocazione internazionale del partito ai temi eticamente sensibili. Per non parlare della vita interna dei due partiti che ne dovrebbero costituire l’asse portante: oggi l’assenza di un confronto e di una lotta politica spegne tutto e fa prevalere la normale amministrazione nei centri in cui si amministra il potere. Ma dovunque, nella sinistra europea, socialismo, liberalismo, personalismo cristiano stanno convergendo nella costruzione di una nuova politica dello sviluppo e dell’inclusione. E solo con molta fantasia si possono ricondurre le profonde specificità nazionali all’ortodossia di un “unico” socialismo europeo. Al contrario, i partiti socialisti europei sono dei veri e propri “crocevia culturali” che sono stati capaci di metabolizzare e addirittura egemonizzare le tendenze innovative sorte su altri terreni. Oggi la socialdemocrazia è già un compromesso liberal-socialista. E, anche in Italia, c’è l’esigenza di costruire la sinistra come crogiolo dei diversi filoni che si sono variamente intrecciati nella sinistra europea, quale condizione del suo radicamento, che ci porti all’altezza politica, elettorale, culturale della sinistra europea.

È proprio l’incontro tra socialismo e liberalismo che ha consentito ai grandi partiti del socialismo europeo di ridefinire la propria funzione, i tratti essenziali del proprio programma: il rapporto tra Stato e mercato, l’organizzazione dello Stato sociale, le relazioni con i sindacati. E più in generale: il rapporto tra politica, singoli cittadini e società civile. Non bisogna confondere il Partito democratico con un sogno a lungo inconsciamente coltivato, quello cioè dell’incontro tra cattolici e comunisti, come se si trattasse del tardivo inveramento di un compromesso storico inscritto nel Dna della Repubblica. Perché il Partito democratico si possa realizzare occorre infatti una cultura politica del primato dell’individuo, delle libertà, della cittadinanza e un programma fondamentalmente liberale.

Vale sia per la riforma del welfare (e il motivo per cui in Italia il modello di Stato sociale universalista socialdemocratico non si è sviluppato ha a che fare ovviamente con la natura familistica democristiana di quello che è stato costruito – con i suoi pregi e i suoi molti difetti – ma anche con il modo sempre assai incerto con cui la sinistra ha coltivato il suo rapporto col riformismo europeo) sia per l’identità (poiché si tratta di riconoscere che le identità sono in larga misura plurali e tali pluralità rappresentano un antidoto a una separazione netta lungo una linea divisoria fortificata e impenetrabile). L’adesione del nuovo partito all’area socialista è (a mio avviso) naturale e può essere uno stimolo per l’allargamento di quel perimetro. Ma il riferimento al socialismo europeo vale non per ciò che è stato in passato, ma per quel che fa oggi nell’economia, nel welfare, nella società civile.

La sinistra oggi riconosce che il mercato è il contesto migliore per giungere a una economia efficace e razionale e che il nodo da sciogliere è piuttosto quello per conciliare, nella realtà della globalizzazione, un’economia competitiva con una società equa. Ma se c’è ancora un problema permanente di redistribuzione del reddito secondo equità e se questo problema può essere affrontato solo mediante un’azione organizzata socialmente e politicamente, allora bisogna continuare a “tenere la sinistra”. E dopo Orvieto possiamo chiederci se c’è davvero differenza tra socialisti e kennediani o se non vogliamo tutti la stessa cosa.

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Il Piccolo, 20 dicembre 2006 – Riagganciare la crescita

Il Piccolo, 20 dicembre 2006 Della Finanziaria si è detto tutto il male possibile. Ma la Finanziaria, come la città di Calvino, «riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone». Insomma, a quale deserto ci vogliamo opporre per costruire la città di oggi? Qual è il destino al quale vogliamo sottrarci?

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Messaggero Veneto, 30 dicembre 2006 – Il coraggio di cambiare

Messaggero Veneto, 30 dicembre 2006 Dovunque, in Europa, socialismo, liberalismo, personalismo cristiano stanno convergendo nella costruzione di una nuova politica dello sviluppo e dell’inclusione. E il Partito democratico deve servire al pieno “ricongiungimento” dell’Italia all’Europa.

IL CORAGGIO DI CAMBIARE

L’ultima volta che mi è capitato di partecipare al Parteitag della Spö, a Klagenfurt, il Congresso si aprì con le ballerine. A Brighton, invece, Gordon Brown ha introdotto il congresso del Labour leggendo i salmi. E non deve stupire, anche se a loro capita raramente di fare confusione tra Stato e Chiesa.
E a nessuno passa per la testa di sostituire l’Internazionale con ‘Ma il cielo è sempre più blu” di Rino Gaetano. Infatti nel Nord protestante la vicinanza tra Chiesa e partiti laburisti è un dato storico. Insomma, non c’è modo di trovare nella socialdemocrazia di oggi il vecchio Pci o qualcosa che gli somigli. Certo che in tutti i paesi europei c’è la sinistra, ci mancherebbe altro. Ma è un’altra sinistra. E finché non lo diremo chiaro e tondo sembrerà che, con il Partito democratico, ci vogliamo soltanto spostare a destra in un mondo in cui le distinzioni tra destra e sinistra sono immutabili. È chiaro che poi stentiamo a comprendere come mai, subito dopo le elezioni in Germania, Gerhard Schröder, «da uomo di sinistra», si sia affrettato a dichiarare «non sarò mai così irresponsabile da riportare i comunisti nei palazzi del potere» e abbia rinunciato alla cancelleria pur avendo la possibilità di restare a capo del governo con i voti del Linke. Tanto qualcuno pronto a sostenere che quella non è ‘vera” sinistra (che il Labour di Tony Blair, sarebbe, di fatto, un partito di destra e che, in fondo, nemmeno Schröder o, adesso, Ségolène Royal c’entrano con la sinistra) lo si trova sempre.
Il fatto è che l’alternativa tra socialisti e kennediani non è così netta come si vuol far credere. Da un pezzo i partiti socialisti europei sono diventati, come li ha definiti Gino Giugni, dei veri e propri «crocevia culturali» e sono stati capaci di metabolizzare e addirittura egemonizzare le tendenze innovative sorte su altri terreni. Va da sé che anche in Italia (e in Friuli, che partecipa in tutto e per tutto alle grandi questioni che la collettività nazionale si trova a fronteggiare) c’è l’esigenza di costruire la sinistra come crogiuolo dei diversi filoni che si sono variamente intrecciati nella sinistra europea, quale condizione del suo radicamento, che ci porti all’altezza politica, elettorale, culturale della sinistra europea. Ma il compito (mancato tra il 1989 e il 1994) della formazione di un grande partito pienamente europeo è sempre di fronte a noi. Certo, il passaggio dal Pci al Pds e poi ai Ds ha segnato un’accelerazione dei rapporti politici con la sinistra europea, già iniziatisi nel corso degli anni 80 e sanciti nelle tesi del Congresso del Pci del 1986, ma l’elaborazione di una cultura politica adeguata a quel confronto si è mossa con grande ritardo e si è cercato di superare l’impasse teorica e culturale e di bypassare le resistenze al cambiamento con l’indicazione dell’Ulivo come la nostra Bad Godesberg come luogo di incontro dei riformismi e delle tradizioni politiche comuniste, socialiste e cattoliche.
Il vero problema, allora, non è quello di prestabilire le forme di organizzazione politica che oggi si possono ipotizzare per il partito che verrà, ma quello di identificare il modello di cultura politica da cui questo nuovo soggetto dovrà trarre ispirazione. Tanto per fare un esempio, il motivo per cui in Italia il modello di Stato sociale universalista socialdemocratico non si è sviluppato ha ovviamente a che fare con la natura familistica democristiana di quello che è stato costruito (con i suoi pregi e i suoi molti difetti), ma, come ha osservato Paolo Borioni, «ha anche a che fare con il modo sempre assai incerto con cui la sinistra italiana ha coltivato il suo rapporto con il riformismo europeo». Per quanto si vogliano attribuire al Pci dei grandi meriti nell’aver disciplinato alla condotta democratico-costituzionale una sinistra italiana da sempre massimalista e al Psi di aver comunque garantito a tutto il mondo progressista lontano dal comunismo luoghi di dibattito e di rappresentanza, non ci sono dubbi che essi sono rimasti troppo a lungo estranei alla cultura riformista europea. E ora che abbiamo deciso di fare come in Europa, come può la maggioranza della sinistra italiana isolarsi di nuovo e tagliarsi fuori dai processi di rinnovamento che ha vissuto e sta ancora vivendo la socialdemocrazia europea? Può farlo oggi che il problema fondamentale per il socialismo del nuovo secolo è come questo possa svolgere la sua missione di difesa dei ceti più deboli e nello stesso tempo fare propria quella domanda di auto-realizzazione (uno dei valori più enfatizzati nel programma della Spd) e di promozione dello sviluppo che viene da quei ceti che sono i propulsori dello sviluppo? Ovviamente non si può. Perché il riferimento al socialismo europeo non vale per ciò che è stato in passato, ma per quel che fa oggi nell’economia, nel welfare, nella società civile. Il Partito democratico deve dunque servire al pieno ricongiungimento dell’Italia all’Europa. Per questo non possiamo lasciare le cose come sono. Perché nessuna delle tradizioni del riformismo italiano è in grado, da sola, di animare un soggetto politico capace di svolgere in Italia quella stessa funzione politica che nei grandi paesi europei svolgono i grandi partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti e perché occorrono una cultura politica del primato dell’individuo, delle libertà, della cittadinanza e un programma fondamentalmente liberale. È infatti l’incontro tra socialismo e liberalismo che ha consentito ai grandi partiti del socialismo europeo di ridefinire la propria funzione e i tratti essenziali del proprio programma: il rapporto tra Stato e mercato, l’organizzazione dello Stato sociale, le relazioni con i sindacati e il rapporto tra politica, singoli cittadini e società civile. Dovunque, in Europa, socialismo, liberalismo, personalismo cristiano stanno convergendo nella costruzione di una nuova politica dello sviluppo e dell’inclusione e la (naturale) adesione del nuovo partito all’area socialista può essere uno stimolo proprio per l’allargamento di quel perimetro. Senza confondere il partito che verrà con il sogno (a lungo coltivato) dell’incontro tra cattolici e comunisti, come se si trattasse della realizzazione tardiva di un compromesso storico inscritto nel Dna della repubblica: il ricordo di due grandi personaggi politici come Moro e Berlinguer può forse generare orgoglio e militanza, ma non ha niente a che vedere con la cultura politica delle democrazie europee. Piuttosto, se in questi anni il Regno Unito è diventato uno dei paesi europei più dinamici e competitivi, uno dei pochi paesi europei che in questi anni hanno visto ridursi le disuguaglianze e in cui la spesa sociale, in particolare nel campo della scuola e della salute, è aumentata senza precedenti, è perché, ha detto Tony Blair alla Conferenza di Manchester, «abbiamo avuto il coraggio di cambiare; e il nostro coraggio ha dato agli inglesi il coraggio di cambiare».
Deputato dell’Ulivo

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GIORNALI2007

Il Piccolo, 23 gennaio 2007 – Una nuova etica dello sviluppo

È giusto che ci si preoccupi così tanto della crescita economica? Sì perché, come sostiene Benjamin Friedman, lo sviluppo economico rende una società più aperta, tollerante e democratica e anche più riguardosa dell’interesse delle generazioni future.

Il Piccolo_23gen2007.pdf

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Il Piccolo, 28 gennaio 2007 – Maran: Partito democratico, serve più coraggio

IlPiccolo28.01.2007.pdf

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L’Isontino, n. 2 – marzo 2007 – L’evoluzione della nostra identità

Chi ce lo fa fare di imbarcarci nella costruzione di un nuovo soggetto lasciando, ancora una volta, il certo per l’incerto?

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Europa, 6 marzo 2007 – Macaluso non è il socialismo europeo

La sinistra italiana deve uscire dalla rivendicazione identitaria per misurarsi con i programmi che ovunque in Europa impegnano i socialisti.

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Notizie Novice n. 2, 2007 – La debolezza dello Stato italiano nella vicenda del confine orientale

Dalla carente coscienza nazionale nello Stato unitario fin dalla sua costituzione, alla folle politica di aggressione del fascismo, dalla dissoluzione dello Stato nazionale l’8 settembre 1943 alle foibe, dalla sconfitta bellica sancita dal Trattato di pace all’esodo, dal Trattato di Osimo all’illusione del rilancio economico dell’area di confine nel volume di Marina Cattaruzza “L’Italia e il confine orientale”.

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Il Piccolo, 10 aprile 2007 – Gorizia specchio della regione

Il Piccolo, 10 aprile 2007 – Nei giorni in cui il riformismo di matrice cattolica e quello di matrice socialista si preparano a offrire – con il Partito democratico – una prospettiva diversa al Paese, cos’è che ha scatenato nel centrosinistra a Gorizia questa guerra intestina?

ilpiccolo100407.doc

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