Ieri, in occasione del Giorno del Ricordo, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha rilasciato una dichiarazione che vale la pena di segnalare. Specie se si considera che, proprio nel Giorno del Ricordo, a Macerata un gruppo di manifestanti ha intonato cori scioccanti contro le vittime delle foibe: “Ma che belle le foibe da Trieste in giù” (“Cori scandalosi, che calpestano morti innocenti e tradiscono gli ideali della Resistenza”, come ha poi affermato la presidente del Friuli Venezia, Giulia Debora Serracchiani, che ha partecipato alle celebrazioni alla Foiba di Basovizza).
Sui manifesti elettorali di Liberi e uguali, accanto alla foto di Piero Grasso, appare lo slogan del Labour Party di Jeremy Corbyn: «Per i molti, non per i pochi». È una sorta di marchio di fabbrica della sinistra tradizionale: è chiaro, la gente sa cosa significa, emoziona e parla ai valori. Ma era lo slogan di Tony Blair. Infatti, la frase è stata scritta nella famosa Clause IV dello Statuto del Labour proprio da quel Tony «Bliar», com’è stato sbeffeggiato crudelmente, che ha vinto tre elezioni di fila. Blair è riuscito a cambiare radicalmente la sinistra britannica e a influenzare quella di tutta Europa (dopo aver ottenuto alcune delle vittorie elettorali più sonanti nella storia del Regno Unito) ma, si sa, si è lasciato alle spalle un’eredità politica ancora oggi molto discussa. Eppure, il linguaggio di Tony Blair ha identificato realmente il Labour con l’Inghilterra ed essere «for all the people or for the few» era la linea di demarcazione tra il Labour e i Conservatori.
Scrive oggi Giuliano Ferrara: “…se la campagna elettorale italiana è un urlo nel buio affacciato sul vuoto, alle origini c’è la sindrome da paura dell’immigrazione, l’invasione dei poveracci e dei rifugiati, il grande rimpiazzo etnico, la bomba sociale. Dunque un problema esiste. L’immigrazione va controllata, limitata, integrata senza piagnistei e con la presa d’atto di una crisi migratoria di portata biblica e di una rinuncia a politiche nataliste nel nostro mondo, che avrà se non sanata conseguenze disastrose. Va affrontata nel lungo periodo con politiche impegnative di riassetto delle relazioni internazionali e di egemonia economica, politica e militare dei criteri di libertà e di eguaglianza che sono parte del patrimonio politico del mondo occidentale. Però dopo l’esplosione in un gesto omicida del risentimento razzista di Macerata bisogna essere decisamente negazionisti verso l’ideologia dell’odio razziale. Non c’è bisogno di retorica. La caccia armata ai neri è solo e soltanto ributtante, senza se e senza ma. Deve essere repressa con energia” (Senza se e senza ma – Il Foglio).
Il Trump che ieri sera ha annunciato al Congresso «un nuovo momento americano» è parente lontanissimo del Trump di Twitter. Il suo primo discorso sullo Stato dell’Unione è stato, infatti, un discorso “normale”, che può piacere o meno, ma che è privo di trovate incendiarie e non riempie di indignazione i suoi avversari (Transcript: Trump’s First State of the Union Speech, Annotated – The New York Times ).
Anche la settimana scorsa al World Economic Forum, il presidente americano ha fatto un discorso che è stato accolto molto bene dai partecipanti, in larga maggioranza piuttosto scettici sul conto di Trump. Ovviamente, non è detto che il discorso rappresenti davvero un nuovo approccio da parte del presidente (il che sarebbe un enorme passo avanti): Donald Trump potrebbe cambiare idea (e rotta) in ogni momento.
I candidati ai blocchi di partenza della campagna elettorale dovrebbero rileggere John F. Kennedy e ricordare che il coraggio è parte integrante della vita pubblica
La campagna elettorale è cominciata. È arrivato, insomma, quel momento nella vita pubblica in cui, per dirla con il senatore Ashurst dell’Arizona, un uomo “è chiamato ad alzarsi al di sopra dei suoi princìpi”. Procurarsi voti è, d’altra parte, “una questione puramente pratica”, in cui – è la tesi di Frank Kent – non devono entrare scrupoli morali su cosa è giusto o sbagliato: “La cosa più importante non è essere dalla parte giusta ma da quella più popolare, senza guardare alle proprie convinzioni o ai fatti”.
Ieri i socialdemocratici hanno votato a favore dell’avvio del negoziato formale per formare una coalizione con il campo conservatore. Di conseguenza, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha evitato (almeno per ora) una catastrofe politica e ha fatto un piccolo passo avanti in direzione della formazione di un nuovo governo.
Quest’ultimo episodio della tormentata saga tedesca all’insegna dell’incertezza politica, ha alimentato la (cauta) speranza che una nuovo governo si possa insediare entro Pasqua. Ma rimane un’incognita: la base socialdemocratica (messa in agitazione dal fatto che le larghe intese con Angela Merkel hanno condotto il partito al peggior risultato elettorale da ottant’anni a questa parte) deve approvare l’accordo finale. Ieri lo scarto tra i favorevoli e i contrari all’intesa (il mandato a trattare è stato sostenuto dal 56% dei delegati) è stato minimo. Non per caso, lo striscione rosso di un militante all’esterno della sala del congresso (che si è tenuto a Bonn), ammoniva: «La battaglia non è finita».
di Mattia Pertoldi
Udine – Alessandro Maran, il prossimo 4 marzo, terminerà ufficialmente la sua avventura come parlamentare. Il senatore dem non sarà, infatti, inserito nelle liste del Pd alle prossime elezioni. Lascerà palazzo Madama «ma non la politica, se mi vorranno» e lo fa, assicura, «senza rimpianti».
Senatore come mai non si ricandiderà?
«Mi rifaccio alle parole di un antico proverbio buddista che sostiene come, nella vita, alla fine contino soltanto tre cose: quanto hai amato, come gentilmente hai vissuto e con quanta grazia hai lasciato andare cose non destinate a te».