In questi giorni, sui giornali di tutto il mondo, sono in molti a chiedersi se, negli anni che verranno, Stati Uniti e Cina siano davvero destinati a duellare per il dominio planetario. Del resto, mai come adesso la questione Taiwan sembra incombere minacciosa e la tensione tra le due potenze è alta come non mai.
Nel discorso di debutto alle Nazioni Unite, un paio di settimane fa, Joe Biden ha rimarcato quel che ha detto esplicitamente in altri forum (e che, a dire il vero, è un pezzo che si affanna a ripetere): per recuperare il suo ruolo di guida «indispensabile», specie in mondo frammentato come quello del XXI secolo, l’America deve prima risanare e sistemare se stessa.
L’instabilità politica, si sa, è uno dei mali endemici dell’Italia: nei 75 anni di storia repubblicana abbiamo avuto 66 governi e 29 presidenti del Consiglio. La politica in Germania (che oggi andrà alle urne per il rinnovo del Bundestag) è diversa. I tedeschi, è risaputo, preferiscono la stabilità.
Non sono la guerra nucleare o il terrorismo le più grandi minacce per la democrazia americana, scrive Tom Nichols, ma il narcisismo e il nichilismo della gente comune. Insomma, se siamo demoralizzati, preoccupati, o addirittura indignati per lo stato sempre più terribile della nostra democrazia, sgombriamo il campo dai dubbi: il nostro peggior nemico, come dice Nichols, siamo noi.
Dallo “stile paranoide in politica” teorizzato da Richard Hofstadter, ed echeggiato spesso negli ultimi tempi, al “centro vitale” di Arthur Schlesinger Jr. Derive illiberali, populismo ed élite: due libri che parlano anche all’Italia di oggi
Oggi gli Stati Uniti non hanno più la scala, la forza e neppure il consenso interno per reggere il mondo sulle spalle. Biden cerca di riordinare le forze e focalizzarle sulle sfide geopolitiche decisive, in particolare la Cina
Da vent’anni a questa parte, prima o poi, tutti i presidenti americani hanno annunciato che era venuto il momento di andarsene dall’Afghanistan per dedicarsi al «nation building» in patria. Joe Biden lo ha fatto davvero. E una telefonata di qualche tempo fa spiega quel che sta accadendo meglio di mille articoli. L’ha raccontata Emma Hurt su WABE, una stazione radio di Atlanta affiliata a NPR, il 14 aprile 2019 e la riporta anche Giulia Pompili nel suo «Sotto lo stesso cielo», il bel libro che ha dedicato all’«altra» Asia, ovvero a quella che Cina non è e a cui la Cina è legata in modo indissolubile («Non esiste Pechino senza Taipei, non esiste Pechino senza Seul, ma soprattutto non esiste Pechino senza Tokyo», spiega Pompili).
L’Afghanistan è di nuovo sotto il giogo dei talebani e l’odissea ventennale dell’America termina con una fuga precipitosa.
Racconta Samantha Power nel suo memoir, The Education of an Idealist, che quand’era un giovane funzionario del ministero degli esteri in Vietnam, Richard Holbrooke (uno dei più dotati diplomatici americani) aveva ritagliato una vignetta che mostrava un affranto Charlie Brown dopo che la sua squadra di baseball era stata sonoramente battuta per 184 a 0. «Non capisco», dice Charlie Brown. «Come facciamo a perdere se siamo così sinceri?».
Sono passati vent’anni e Joe Biden si è convinto che se gli Stati Uniti non se ne vanno ora dall’Afghanistan non se ne andranno mai più, perché il momento giusto per andarsene non verrà mai. L’ho raccontato nei mesi scorsi proprio su questo blog. Ora gli americani sono accusati di abbandonare l’Afghanistan nelle mani dei talebani, ma sono stati sul banco degli accusati anche quando hanno invaso il paese per rimuovere dal potere i talebani che avevano ospitato e protetto Osama Bin Laden nel suo progetto di guerra santa. Le cose sono andate come sono andate, ma gli obiettivi dell’operazione sono stati raggiunti: annientare le capacità operative di al Qaeda e consegnare Osama bin Laden «alle porte dell’inferno». E ancora una volta, da quelle parti, il «nation building» si è rivelato un’impresa che va al di là delle possibilità degli Stati Uniti (e di chiunque altro).
Il 14 settembre 2001, tre giorni dopo l’attentato dell’11 settembre, dal pulpito della cattedrale di San Pietro e Paolo di Washington, il presidente degli Stati Uniti George W. Bush, annunciò la «guerra al terrorismo» con queste parole: