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Quella telefonata tra Carter e Trump sulla Cina che spiega (anche) la scelta di Biden – Il Riformista, 30 agosto 2021

Da vent’anni a questa parte, prima o poi, tutti i presidenti americani hanno annunciato che era venuto il momento di andarsene dall’Afghanistan per dedicarsi al «nation building» in patria. Joe Biden lo ha fatto davvero. E una telefonata di qualche tempo fa spiega quel che sta accadendo meglio di mille articoli. L’ha raccontata Emma Hurt su WABE, una stazione radio di Atlanta affiliata a NPR, il 14 aprile 2019 e la riporta anche Giulia Pompili nel suo «Sotto lo stesso cielo», il bel libro che ha dedicato all’«altra» Asia, ovvero a quella che Cina non è e a cui la Cina è legata in modo indissolubile («Non esiste Pechino senza Taipei, non esiste Pechino senza Seul, ma soprattutto non esiste Pechino senza Tokyo», spiega Pompili).

La Domenica delle Palme del 2019, dal pulpito della Maranatha Baptist Church, la chiesetta battista della sua città natale di Plains in Georgia dove insegna religione la domenica mattina, l’ex presidente americano Jimmy Carter ha raccontato la conversazione che la sera prima aveva avuto con Donald Trump, il presidente allora in carica

All’inizio dell’anno, Carter aveva inviato una «bellissima lettera» a Trump con alcuni consigli per gestire il rapporto tra Stati Uniti e Cina. Fu infatti Carter a guidare, quarant’anni fa, la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra i due paesi. E la sera del sabato precedente la Domenica delle Palme, Trump chiamò Carter per parlarne.

Era la prima volta che parlavano e Trump, spiega Carter ai parrocchiani, gli dice di essere molto preoccupato del fatto che la «la Cina ci sta superando». «E sai perché?», replica Carter dicendosi d’accordo. «Ho normalizzato le relazioni diplomatiche con la Cina nel 1979. Dal 1979, sai quante volte la Cina è stata in guerra con qualcuno? Nessuna. E noi invece siamo rimasti sempre in guerra».

A dire il vero, Cina e Vietnam hanno combattuto una breve guerra di confine all’inizio del 1979, alcune settimane dopo la normalizzazione delle relazioni con la Cina, ma il succo del discorso non cambia: Pechino, a differenza dell’America, da allora ha inaugurato una politica di apertura e di riforme economiche avviando un inarrestabile processo di trasformazione e si è messa a costruire infrastrutture e non a fare la guerra in giro per il mondo.

Carter si rivolge ai parrocchiani (lo seguono in centinaia, fedeli e meno fedeli, alcuni accampati dalla sera prima per poter ascoltare i sermoni dell’ex presidente americano) e dice loro che gli Stati Uniti sono «la nazione più bellicosa nella storia del mondo», proprio perché vuole imporre i valori americani ad altri paesi, e racconta loro che la Cina ha investito nelle proprie infrastrutture (ricorda che la Cina ha 18.000 miglia di ferrovia ad alta velocità) anziché spendere per la difesa. «Quante miglia di ferrovia ad alta velocità abbiamo in questo paese?». «Zero», risponde la congregazione.

«Abbiamo sprecato, credo, 3000 miliardi di dollari», dice Carter, riferendosi alla spesa militare americana. «La Cina non ha sprecato neanche un centesimo in guerra, ed è per questo che sono davanti a noi. In quasi tutti gli aspetti. E credo che la differenza sia che se si prendono 3 trilioni di dollari e si mettono nelle infrastrutture americane, probabilmente ne avanzano 2 trilioni di dollari. Avremmo la ferrovia ad alta velocità. Avremmo ponti che non stanno per crollare. Avremmo strade mantenute correttamente. Il nostro sistema educativo sarebbe buono come quello della Corea del Sud o di Hong Kong».

«Non sto paragonando il mio paese alla Cina in modo malevolo», puntualizza l’ex presidente americano. «Lo sto solo facendo notare perché ieri sera ho ricevuto una telefonata». Carter dice di comprendere che Trump sia preoccupato del sorpasso della Cina come principale superpotenza economica del mondo. «La circostanza non mi fa paura, ma la cosa infastidisce il presidente Trump, e non so perché. Non lo sto criticando – questa mattina», Carter replica cedendo alle risate del pubblico.

La Casa Bianca ha poi confermato la conversazione. «Il presidente Jimmy Carter ha scritto al presidente Trump una bellissima lettera sulle trattative in corso con la Cina e sabato hanno avuto un’ottima conversazione telefonica sulla posizione del presidente Trump sul commercio con la Cina e su numerosi altri argomenti», si legge nella dichiarazione rilasciata il giorno dopo.

Il sermone della Domenica delle Palme di Carter (l’ex presidente, come ha sempre fatto, continua ad insegnare religione ogni due domeniche nella sua parrocchia) era incentrato, racconta Emma Hurt, sulla pace e la bontà e si è temuto davanti ad un pubblico composto perlopiù da visitatori, molti dei quali avevano fatto la fila durante la notte per poter assistere al servizio religioso.

Certo, come osserva Pompili la «versione di Carter» è a dir poco semplicistica, ma spiega senza tanti fronzoli la strategia di Biden e la decisione di chiudere una stagione, costi quel che costi. Il ritiro è stato disastroso ed il collasso improvviso, i civili in preda al panico che si aggrappano agli aerei, le stragi dello Stato Islamico e la morte dei soldati americani costeranno parecchio all’amministrazione in carica. Ma resta il fatto che gli americani non ne possono più di conflitti che sono costati una quantità mostruosa di risorse e hanno prosciugato le forze del paese in posti sperduti mentre la Cina (ed il suo regime) si rafforzava. La priorità degli Stati Uniti è ora quella di rimettere in sesto il paese, le sue istituzioni e le sue infrastrutture, rimettendo insieme «i frantumi dell’America» descritti da George Packer nel suo celebre libro.

«Non c’è più una linea di demarcazione tra politica estera e politica interna: ogni iniziativa che assumiamo nella nostra condotta allestero, va presa con in mente le famiglie dei lavoratori americani», aveva detto, del resto, Biden nel suo primo significativo discorso dedicato alla politica estera. Sarà bene tenerlo a mente. Anche perché gli Stati Uniti (e qui Trump o Biden non fa molta differenza) hanno ormai rinunciato alla speranza che l’integrazione della Cina nei mercati internazionali e nelle strutture della governance globale trasformi il regime di Pechino aprendo la strada alle richieste di democrazia. Il tempo in cui ci si era illusi che la Cina avrebbe prima o poi accettato i principi dell’ordine liberale è passato e ora si tratta di far convivere potenze con sistemi politici agli antipodi.

Alessandro Maran

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