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www.italiaincammino.it, 25 Aprile 2017 – Elezioni in UK: Labour party nel caos

Questa, come stiamo scoprendo, è una fase contraddistinta da risultati elettorali sorprendenti.

Il risultato del primo turno delle elezioni presidenziali francesi rappresenta una svolta epocale: è la prima volta nei quasi 59 anni della V Repubblica che entrambi i candidati al secondo turno non hanno niente a che vedere con il tradizionale spartiacque politico destra-sinistra.

Le elezioni anticipate in UK

A ben guardare, ha suscitato stupore anche la decisione del Primo ministro inglese, Theresa May, di portare il paese ad elezioni anticipate il prossimo 8 giugno. Ma perfino in un periodo caratterizzato dalle sorprese, è difficile immaginare in Gran Bretagna un risultato diverso da una consistente vittoria del Partito conservatore, destinata a riportare, rafforzata, Theresa May a Downing Street.

Quel che è in ballo, nelle prossime elezioni inglesi, non è, infatti, quale partito formerà il prossimo governo, ma quale partito prenderà la guida dell’opposizione. C’è sicuramente una diffusa disaffezione verso le politiche del governo conservatore, dal suo approccio maldestro alle trattative per la Brexit all’esteso risentimento prodotto dai continui tagli della spesa pubblica. Eppure, l’insoddisfazione nei confronti dell’opposizione e, in particolare, del Labour Party è molto più forte.

Chi prenderà la guida dell’opposizione? La crisi del labour party

Il Partito laburista è nel caos. Recentemente ha perso le elezioni suppletive in un collegio tradizionalmente solidissimo, è precipitato nei sondaggi ed è scosso da lotte fratricide. Un sondaggio realizzato dopo l’annuncio di nuove elezioni da parte di Theresa May, indica che il distacco dei Conservatori sul Labour è addirittura di 21 punti. Tanto per capirci, quando Margaret Thatcher ha travolto Michael Foot nelle elezioni del 1983 (il punto più basso nella storia del Labour) lo ha distanziato di «appena» 15 punti.

Il principale partito della sinistra britannica, a lungo faro d’Europa, ha cercato la salvezza nel modello demagogico-populista incarnato da Jeremy Corbyn (che è diventato il capofila della ribellione contro l’establishment, l’austerità e gli accordi commerciali), ma la radicalizzazione dei toni e dei contenuti voluta da Corbyn si è trasformata in un incubo politico ed elettorale.

Il leader laburista, che ha scelto (non diversamente da Bersani) di sfidare i populisti usando una retorica altrettanto populista, non riesce ormai ad entusiasmare neppure i militanti più affezionati al partito. Secondo un recente sondaggio, meno del 40% degli elettori del Labour ritiene che Corbyn sarebbe un primo ministro migliore della May e perfino una parte dei deputati laburisti non può sopportare il pensiero che il loro leader vesta i panni del primo ministro. Messe così le cose, viene ovviamente da chiedersi perché mai qualcuno dovrebbe votare laburista.

La Brexit e la campagna per il Remain

Il guaio è che il Partito laburista non sa più che tipo di partito è, né chi vuole rappresentare. Per questo non è più capace di prendere posizione sulle questioni che contano davvero, a cominciare dalla Brexit. Temendo di perdere la propria residua base operaia, il partito non ha appoggiato con convinzione la campagna del «Remain» e per non inimicarsi gli elettori della classe media urbana, non ha potuto nemmeno abbracciare fino in fondo la Brexit.

Il risultato è stata una totale incertezza che ha finito per alienargli il favore di entrambi gli elettorati. Le oscillazioni del Labour sulla Brexit hanno condotto molti liberali della classe media a spostarsi sui Liberal Democrats o semplicemente ad allontanarsi. Tony Blair ha già fatto appello agli elettori per sostenere i candidati anti-Brexit, indipendentemente dall’appartenenza di partito. E c’è chi dice che l’ex leader laburista potrebbe fare campagna elettorale su questa piattaforma con il leader liberal-democratico Tim Farron.

Il riposizionamento dei liberal democrats

I Liberal Democrats dal canto loro, decimati nelle elezioni del 2015 dopo una fase infelice come partner di minoranza nella coalizione di governo con i conservatori di David Cameron, si sono ora riposizionati come il partito dell’Europa.

E nel tentativo di conquistare il sostegno degli elettori del «Remain», che non hanno ancora digerito il risultato del referendum dell’anno scorso sulla partecipazione della Gran Bretagna all’Unione europea, stanno invocando un secondo referendum al termine dei negoziati sulla Brexit. Certo, potrebbero recuperare alcuni dei seggi perduti, ma il loro appeal elettorale è troppo limitato per dar vita ad una seria opposizione: sarebbe già un trionfo se riuscissero a recuperare 50 seggi alle prossime elezioni.

 

Per quel che riguarda, invece, l’Uk Indipendence Party, il voto sulla Brexit lo ha privato della sua ragion d’essere. Dal referendum in poi, il partito è dilaniato da una feroce guerra intestina. Oggi non è presente in Parlamento ed è improbabile che riesca a tornarci dopo le elezioni di giugno.

La Scozia e il referendum sull’indipendenza

In Scozia, il partito di governo è lo Scottish National Party. Alle ultime elezioni ha ottenuto un risultato incredibile (56 seggi su 59), lasciando al Labour, ai Liberal Democrats e ai Conservatori, un solo seggio ciascuno. Il leader del partito e primo ministro della Scozia, Nicola Sturgeon, ha cercato di sfruttare il risultato della Brexit per riproporre un nuovo referendum sull’indipendenza scozzese, ricordando che la maggioranza degli scozzesi ha votato per rimanere nell’Unione europea.

Theresa May ha ribadito, tuttavia, che qualunque referendum, se mai ce ne sarà uno, avrà luogo solo dopo la conclusione dei negoziati sulla Brexit e l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione. Questo scontro è destinato a gettare un’ombra sulle prossime elezioni, ma c’è da dubitare che tra gli scozzesi ci sia davvero il desiderio di un nuovo referendum o della stessa indipendenza.

Dato il loro straordinario successo nelle ultime elezioni, non sarebbe sorprendente se i nazionalisti questa volta finissero per perdere un paio di seggi. Insomma, come in Inghilterra e nel Galles, il vero scontro non sarà su chi dovrà governare, ma tra chi, in un’opposizione indebolita, riuscirà ad ottenere la parte più cospicua delle briciole. Ed è probabile che, ancora una volta, sia il Partito laburista ad avere la peggio. Vent’anni fa, il partito sembrava inattaccabile in Scozia. Ancora nel 2010, vantava 41 delle 59 constituency scozzesi nel Parlamento di Westminster. Dopo l’8 giugno il Labour potrebbe non averne nessuna.

Una competizione aspra su austerità e immigrazione

Queste dovrebbero essere comunque elezioni importanti, l’occasione per un grande dibattito su quale genere di paese hanno in mente gli inglesi dopo la Brexit; una competizione aspra sui problemi, dall’austerità all’immigrazione. Ma proprio il «vuoto» lasciato dall’opposizione lascia intendere che di «contenuti» si parlerà pochissimo. Di sicuro, ci saranno litigi e urla sulla Brexit, e molti cercheranno di usare queste elezioni per una replica del referendum dell’anno scorso. Ma resta il fatto che, dopo l’8 giugno, sarà un governo conservatore ad avviare le trattative con l’Unione europea, con una politica e una strategia a malapena discusse in pubblico.

Le inattese elezioni politiche anticipate nel Regno Unito si aggiungono alla serie di voti nazionali imprevedibili e ad alta tensione, dalla Brexit e dalle elezioni americane dello scorso anno fino alle elezioni olandesi e al referendum turco di questa primavera, in attesa del secondo turno delle elezioni presidenziali francesi (prima delle elezioni federali tedesche in settembre e del voto italiano dell’anno prossimo).

E tutte queste consultazioni democratiche forniranno un’occasione importante di discussione pubblica e una misura fondamentale della volontà popolare. Ma saranno proprio le elezioni britanniche a contare meno delle altre. Del resto, «In is in. Out is out». Conviene tenerlo a mente.

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www.italiaincammino, 20 Apr 2017 – Francia: il rischio Le Pen

Quasi tutti i sistemi politici del nostro continente si stanno ridefinendo a partire dalla frattura sull’Europa. Sono anni che Pietro Ichino si affanna a ripeterlo. Ora lo vedono anche i ciechi.

«Rispetto a questa frattura –  come ha scritto Sergio Fabbrini sabato scorso sul Sole 24 Ore – destra e sinistra non sono distinguibili. Sia nell’una che nell’altra c’è chi vuole ritornare alle sovranità nazionali del passato e chi invece vuole difendere l’integrazione sovranazionale».

E se non si riconosce questo dato, non c’è modo di raccapezzarsi di fronte a quel che succede in Europa (e nel mondo) da un po’ di tempo a questa parte.

 

La riorganizzazione del sistema politico francese

Infatti, la frattura sull’Europa (e, come dappertutto, lo scontro tra «Wall people» e «Web People», tra costruttori di muri e costruttori di legami, tra apertura e chiusura) sta, inevitabilmente, riorganizzando anche il sistema politico francese a tal punto che, a pochi giorni dal voto, sono quattro i candidati che possono qualificarsi al ballottaggio.

Nella sua ultima newsletter settimanale sulle presidenziali francesi, Francesco Maselli ha descritto una situazione «inedita e difficilmente prevedibile»: «Il sistema politico che ha retto il Paese dal 1958 ad oggi è completamente saltato.

Tra i quattro candidati che possono aspirare alla qualificazione al ballottaggio solo uno, François Fillon, è il leader di un partito tradizionale, che tra l’altro ha scalato da outsider; Marine Le Pen rappresenta il partito erede del governo collaborazionista di Vichy, quel Front national considerato fino a pochi anni fa una vergogna nazionale; Emmanuel Macron è un giovane funzionario di 39 anni, ex banchiere, che ha fondato un movimento politico un anno fa con l’esplicito proposito di andare oltre le divisioni tradizionali destra-sinistra; Jean-Luc Mélenchon è il candidato della sinistra radicale, un politico di lungo corso che ha lasciato il partito socialista dopo anni di cocenti e umilianti sconfitte ai congressi interni.

Forse non cambierà il sistema istituzionale con cui funziona la Francia, avremo ancora un Presidente della Repubblica eletto a suffragio universale e un Parlamento eletto con un maggioritario a doppio turno, ma il sistema dei partiti che vedremo affermarsi dopo il 7 maggio sarà completamente diverso».

 

A pochi giorni dal voto in Francia

Fatto sta che, a pochi giorni dal voto, non esistono vincitori designati e la vittoria di Marine Le Pen non è da escludere. Roger Cohen ha scritto sul New York Times di ritenerla «verosimile se non probabile». «Ritornando in Francia il mese scorso, alle luci di Parigi e alla malinconia della provincia, – racconta il giornalista – sono stato colpito da quanto il partito di Le Pen, la cui ideologia razzista una volta era un tabù, sia ormai parte del mainstream. Il modello prevalente, l’alternanza tra centrosinistra  e centrodestra, sembra defunto. I francesi sono stufi di presidenti socialisti e repubblicani sempre più indistinguibili».

Certo, Marine Le Pen dice di voler portare la Francia fuori dall’euro e restaurare il franco («L’uscita dall’Unione Europea potrebbe poi seguire. Il che – osserva Cohen – costituirebbe una rottura politica ed economica così violenta che persino la vittoria di Donald Trump ed il voto della Gran Bretagna per lasciare l’Unione impallidirebbero a confronto») ma la sua formula, che mescola sicurezza ed identità, sembra sinistramente efficace.

E, prosegue il columnist del quotidiano newyorkese, «la sua vittoria potrebbe avvenire all’incirca così. Si qualifica per il secondo turno con circa il 24% dei voti. Macron è il suo avversario con più o meno lo stesso punteggio. I sostenitori più di destra di Fillon migrano verso Le Pen. I supporter del candidato dell’estrema sinistra, Mélenchon, si rifiutano di votare per Macron. Non ne vogliono sapere del cosiddetto “voto utile” e ritengono che Macron, che va dicendo di essere un progressista, favorirà il capitalismo globale “neoliberale”. Anche alcuni sostenitori di Hamon si rifiuteranno di sostenere Macron. L’astensionismo cresce. Le Pen riesce a superare il 50% dei voti e a diventare presidente. Potrebbe succedere. Solo un pazzo, dopo Brexit e Trump, potrebbe escluderlo».

 

Il cambiamento della Francia potrebbe favorire Le Pen

Specie se si considera che la Francia è molto cambiata. E l’inchiesta che la giornalista Anne Nivat ha condotto nella Francia “periferica” dove vive la maggioranza dei francesi (il libro “Dans quelle France on vit”, “In che Francia viviamo”, è pubblicato da Fayard), spiega bene com’è cambiato il paese.

Roger Cohen, non per caso, conclude: «I francesi vivono meglio di quanto siano disposti ad ammettere ma in uno stato di ansia crescente alimentato da insuccessi che non sono disposti ad affrontare. Questo è lo sfondo della possibile vittoria di Le Pen. Ed è una prospettiva che fa paura».

Ecco cosa c’è in ballo nel voto per l’Eliseo. E Macron, con un partito creato dal nulla e con un po’ di fortuna, è diventato l’unica alternativa agli anti-liberali, agli antiglobalisti e alla rincorsa al risentimento. Vedremo domenica se i francesi pensano davvero «que l’on peut être libéral, européen, atlantiste, progressiste et de gauche».

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www.italiaincammino.it, 13 aprile 2017 – La capriola di Trump sulla Siria

Per uno che ha fatto campagna elettorale su una piattaforma che voleva evitare coinvolgimenti e conflitti all’estero e che ha ripetutamente messo in guardia il suo predecessore contro qualunque azione militare in Siria, Trump ha fatto una capriola mozzafiato nello spazio di appena 63 ore dopo l’attacco chimico.

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Il Foglio, 11 aprile 2017 – Anche la sinistra lo ammette:«Casaleggio e associati? Meno male che Berlusconi c’è»

«Sebbene le elezioni olandesi siano state un vero sollievo per le malconce élite europee – ha scritto il New York Times all’indomani del voto – la situazione non è ancora cambiata». L’immigrazione e la sfiducia nei confronti dell’Unione europea, divenuta il simbolo dell’austerità, continuano ad alimentare il populismo. E Charles Grant, direttore del Center for European Reform, ha messo in evidenza che, in prospettiva, il pericolo più grande per l’Unione europea non viene dalla Francia o dalla Germania, ma dall’Italia: «Se i populisti del M5s dovessero vincere in Italia, ciò avrebbe serie conseguenze, poiché potrebbero condurre il paese a lasciare l’euro e destabilizzare l’Eurozona».

Messe così le cose, allora diciamolo: meno male che c’è Berlusconi. Perché il futuro dell’Italia potrebbe dipendere (ancora) dalle scelte e dalla leadership dell’ex Caimano. A ben guardare, non è una novità. Proprio il New York Times, nel gennaio del 2014 scriveva: «Il patto tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi offre all’Italia una nuova speranza. L’accordo sulla riforma costituzionale tra il leader del più grande partito italiano e il leader dell’opposizione affronta uno dei principali problemi del paese: la sua ingovernabilità. E ora che Renzi è a capo del Partito Democratico, deve mettere la sua energia al servizio di riforme economiche chiave, a partire da quelle del mercato del lavoro e della spesa pubblica». C’era ancora il governo Letta. Sappiamo come sono andate poi le cose. Proprio per questo andrebbe ribadito (lo ha fatto di recente il politologo Paolo Feltrin) che il momento in cui la parabola di Renzi è cominciata a declinare è stato quando ha deciso, senza alcuna visione strategica, «di rompere con Berlusconi, scegliendo di candidare Mattarella senza concordare con lui la candidatura». Forse lo ha fatto «per riappacificarsi con la sinistra interna» (che tuttavia «ha continuato ad attaccarlo»), ma in quel modo ha «perso l’appoggio del centrodestra, che ha iniziato a fargli la guerra su tutto, in particolare sull’Italicum e sulla riforma costituzionale». Forse pensava di essere «sufficientemente forte», ma ha sbagliato a pensarlo.

Fatto sta, da allora tutto è andato storto, la spinta riformista si è indebolita e hanno vinto i Tar d’Italia, i «moderni Samurai» (come li hanno chiamati Francesco Giavazzi e Giorgio Barbieri) che si oppongono al cambiamento.

Del resto, i fatti si sono incaricati di dimostrare che il problema fondamentale dell’Italia non è la mancata moralizzazione del paese, ma la sua mancata modernizzazione (del resto, meno corruzione presuppone meno burocrati) e che nel ’94 non si è prodotto un vulnus che attende di essere sanato, ma sono saltate gerarchie culturali che non è più possibile ristabilire. Tolto di mezzo Berlusconi, non è tornata l’eta dell’oro e la politica non è tornata «normale». Anzi, in questo ventennio, il rancore fazioso, la sfiducia reciproca e la conseguente paralisi sulle questioni più importanti per il futuro del paese hanno fatto perdere credibilità a tutti i leader politici. Ovviamente, la polarizzazione del sistema politico, lo scontro permanete, non sono un’esclusiva dell’Italia (la hyper-partisanship, si sa, ha paralizzato Washington e polarizzato l’America) e sono anche il prodotto di forze profonde (economiche, sociali, tecnologiche) che stanno rimodellando le nostre società. Ma un sistema così conflittuale non può fornire le risposte di cui il paese ha bisogno. Diversi anni fa, Mike Murphy, un veterano delle campagne repubblicane, osservava:«se non salviamo il negozio, le dispute tra destra e sinistra, tra mele e arance, saranno presto irrilevanti. Lavoreremo tutti al TGI Friday’s a Pechino».  La pubblicità negativa funziona, si  sa, ma bisogna fare attenzione. Non per caso, Mc Donald non ha mai condotto una pubblicità negativa contro Burger King, dicendo che, ad esempio, i loro burger sono pieni di vermi. Avrebbe potuto funzionare per un po’, ma poi nessuno avrebbe più voluto mangiare un altro hamburger. «Mai distruggere la categoria», dicono in America. Ora invece, proprio nel momento in cui avremmo bisogno di una politica credibile e costruttiva, abbiamo «distrutto la categoria».

Anche se molti di quelli che hanno alimentato lo spirito demagogico anti-casta e ci hanno poi condotto nel pantano del proporzionale, ora fischiettano allegramente facendo finta di niente, per il futuro prevedibile, il risultato del referendum e le sue conseguenze definiranno la politica italiana. Come, del resto, accade in Inghilterra dopo il voto sulla Brexit. E come nel Regno Unito, dovremo fare i conti con alcune domande fondamentali: qual è il peso che ora l’Italia può avere in Europa e nel mondo? Che società emergerà da questo sconquasso? E, ancora, davvero un paese sempre più fragile può stare insieme?

Per il nostro paese questo è probabilmente il periodo più importante dalla fine della guerra. Il che ci riporta al Pd. E al suo ruolo. Specie se lo si confronta con la sorprendente irrilevanza del Labour Party: stando ai sondaggi, ormai buona parte delle persone che hanno votato per il Labour nel 2015, a James Corbyn preferisce di gran lunga Theresa May. E non bisogna sottovalutare l’affermazione di Matteo Renzi tra gli iscritti: il popolo del Pd non considera Renzi un usurpatore che si è appropriato con la frode del partito, ha capito che la «mutazione genetica» della sinistra è necessaria per cambiare il Paese e che è tempo perso inseguire il partito delle scie chimiche sui vitalizi e le auto blu. Insomma, la cultura politica del partito sta cambiando e bisogna approfittarne.

Si è detto che il 4 dicembre molte persone hanno votato come hanno votato per mandare un segnale alla politica su problemi che per troppo tempo sono stati ignorati: le gravi disparità regionali, un’economia che offre a tanta gente solo gli avanzi del banchetto, ecc. Ora tutto questo deve tornare al centro del dibattito. Che paese vogliamo creare? Al paese servono più liberalizzazioni, più concorrenza, meno leggi e regole. Per crescere bisogna aumentare la produttività del lavoro e scommettere sulla globalizzazione. E servono soluzioni concrete per i losers. Attorno a questo progetto, all’indomani delle elezioni (è il proporzionale, bellezza) si dovrà costruire una maggioranza di governo. Dovunque lo scontro è quello tra «Wall people» e «Web people», tra costruttori di muri e costruttori di legami, tra apertura e chiusura. Una frattura (ed un «perimetro») che il voto al parlamento europeo sul Ceta, l’accordo commerciale tra Ue e Canada, ha fotografato in modo esemplare: da un lato, buona parte del Ppe, quasi tutti i liberali e una parte di socialisti e democratici; dall’altro, un pezzo di centrodestra, lepenisti, grillini, l’Ukip, e un bel pezzo di (vecchia) sinistra francese e italiana. C’è una parte maggioritaria dell’Italia che vuole liberarsi dalla dittatura dei Tar e non si è ancora rassegnata a Casaleggio. Cogliere questa opportunità richiede, come hanno capito gli iscritti al Pd, quel genere di urgenza, chiarezza ed energia che i Corbyn, i Bersani e i loro alleati non possiedono (quella che Martin Luther King ha chiamato «the fierce urgency of Now», l’urgenza appassionata dell’adesso). Serve, tuttavia, anche la consapevolezza che di fronte alle prove che l’Italia dovrà affrontare, c’è bisogno di una coesione sociale e nazionale straordinaria, senza la quale non possiamo sistemare quel che (da tempo) ha bisogno di essere sistemato. Come ha spesso ripetuto Giorgio Napolitano, «è indispensabile un riavvicinamento tra i campi politici contrapposti, il che non significa confondersi, non significa rinunciare alle rispettive identità, ma significa condividere gli sforzi che sono indispensabili per riaprire all’Italia una prospettiva di sviluppo».  E il fatto che il leader di Forza Italia cerchi di ritagliarsi un (nuovo) ruolo alternativo al grillismo, è una buona notizia.

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www.italiaincammino.it, 6 Aprile 2017 – Brexit, uscire dal club vuol dire perdere influenza

Per completare il ritiro del Regno Unito dall’Unione europea ci vorranno due anni. Ma è cominciato il conto alla rovescia. Ora che il governo inglese ha notificato formalmente al Consiglio europeo la sua intenzione di lasciare l’Unione Europea, il Regno Unito ha superato il punto di non ritorno.

Potrebbe rivelarsi il più grande atto di autolesionismo nella storia politica moderna. Contrariamente a quel che il Ministro degli esteri inglese Boris Johnson ha promesso, il Regno Unito non potrà, infatti, avere la botte piena e la moglie ubriaca. Stando a Dalibor Rohac dell’American Enterprise Institute “il 96 per cento degli economisti è d’accordo sul fatto che la Brexit avrà un costo significativo per l’economia del Regno Unito“.

Senza contare che il resto dell’Unione è deciso a far capire chiaramente a tutti che lasciare il club ha delle ovvie ripercussioni negative.

In questo senso, attivando l’articolo 50 del trattato di Lisbona, il Regno Unito ha scelto di rinunciare a buona parte del controllo sul suo futuro economico. I nuovi accordi commerciali sono di là da venire (ed incerti) ed inoltre le forze centrifughe di un rinvigorito sciovinismo stanno cominciando a sfidare la storica unione tra Inghilterra, Galles, Scozia e Irlanda del Nord.

 

Il Regno Unito è destinato a perdere influenza

Insomma, il risultato è che il Regno Unito è destinato a perdere influenza sulla scena mondiale; e così, anziché “riprendere il controllo”, come hanno garantito i sostenitori della Brexit, il Regno Unito perderà buona parte della sua autonomia nelle questioni finanziarie ed economiche. Dopo tutto, i maggiori ostacoli ad una vera “global Britannia” non sono le tariffe commerciali ma le barriere e le regole non tariffarie, che richiedono l’armonizzazione con i partner commerciali oppure il mutuo riconoscimento. Da questo punto di vista, il mercato unico europeo è stato l’esperimento più ambizioso della storia economica.

Lasciandolo, il Regno Unito sta rinunciando al suo posto alla tavola europea e perciò non potrà più influenzare il processo decisionale futuro nel suo più importante mercato di sbocco; e ovviamente, non potrà plasmare i futuri standard regolatori globali. Inoltre, voltando le spalle all’unione doganale, sarà destinato ad un introdurre nuove barriere al commercio.

In aggiunta, lasciando l‘Unione europea, il Regno Unito perderà anche influenza sulla politica estera europea e perciò vedrà il suo peso globale declinare ulteriormente.

Anche la sua cosiddetta “relazione speciale” con gli Stati Uniti si reggeva sulla speranza che il paese servisse come un ponte tra Washington e il resto dell’Europa. Ora, perfino quell’illusione è andata in pezzi. Il sogno dei Brexiteers di un Regno Unito che reclama il suo posto di leader del Commonwealth delle nazioni di lingua inglese – quello che i funzionari del nuovo Dipartimento del Commercio internazionale del paese chiamano, senza nessuna traccia di ironia, “Empire 2.0” – è assurdo per la semplice ragione che nessuno lo vuole.

 

Un’ombra sul futuro del Regno Unito

È probabile che il  cerchi di ingigantire il suo peso negli affari internazionali attraverso il suo ruolo nella Nato, ma l’aperta ostilità del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e della sua amministrazione nei confronti dell’Alleanza atlantica, rende ancora più fragile questo disegno già poco credibile.

Infine, optando per una Brexit “dura” – che significa lasciare sia l’unione doganale che il mercato unico -, contro i desideri espliciti delle popolazioni della Scozia e dell’Irlanda del Nord, gli elettori inglesi hanno gettato un’ombra sul futuro prossimo dello stesso Regno Unito.

 

L’indipendenza della Scozia è ora più verosimile

Oggi, l’indipendenza della Scozia è più verosimile che nel 2014, ed il possibile ritorno di un confine rigido tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda ha reso il sogno di una Irlanda unita – come immaginato dal Partito repubblicano irlandese Sinn Fein -, molto meno implausibile di quel che sembrava una volta.

Secondo Matthias Matthijs, che insegna politica economica alla School of Advanced International Studies della Johns Hopkins, il Regno Unito tra pochi anni potrebbe esistere solo come “il vecchio Regno Unito di Inghilterra e Galles” con lo sfortunato acronimo di FUKEW.

Il primo ministro Theresa May ha ora davanti a se un compito difficile: rimarginare le ferite di una nazione divisa cercando al tempo stesso di condurre il paese fuori dall’Unione europea in maniera indolore. Ma non sarà facile.

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www.italiaincammino.it, 3 aprile 2017 – Trump: summit con la Cina inizio di un passaggio di testimone?

A quanto pare, a meno di una settimana dal summit con il presidente cinese Xi Jinping, il presidente Trump ha deciso di dar seguito alle sue bellicose promesse elettorali e passare alle maniere forti (sul commercio) con la Cina.

Il presidente americano ha firmato due decreti esecutivi per una revisione della politica commerciale americana. Con il primo provvedimento ha chiesto alle agenzie competenti di analizzare con attenzione i disavanzi commerciali, paese per paese (a cominciare, ovviamente, dalla Cina, ma vale anche per la Germania e per altri Paesi europei e del G7, tra i quali l’Italia), per comprendere dove nasce e come curare il deficit commerciale Usa (di 500 miliardi di dollari); con il secondo ha chiesto alle agenzie di inasprire il controllo sul dumping (dalla vendita sotto-costo agli aiuti di Stato e alla svalutazione monetaria competitiva).

Si tratta, naturalmente, di misure che riflettono le tensioni economiche americane con la Cina, ma che potrebbero preludere a decisioni (in materia di tariffe ed accordi commerciali) che potrebbero portare molto indietro le lancette dalla globalizzazione.

Nei giorni scorsi, con un paio di tweet presidenziali, Trump è andato giù pesante, anticipando che l’incontro con la Cina sarà «molto difficile» posto «l’enorme deficit commerciale» e «i posti lavoro andati in fumo».

Ma, come ha scritto il New York Times, «si tratta di mosse che, sotto la superficie, tradiscono una politica commerciale in rovina, con l’amministrazione inguaiata da carenze nello staff e dalla mancanza di consenso sulla direzione da prendere. Con più parole che fatti, gli ordini finora sembrano una tattica dilatoria per dare ai funzionari dell’amministratore il tempo di mettere insieme quella politica commerciale coerente che manca ancora».

L’incontro con la Cina e la questione della Corea del Nord

I ritardi nel definire una politica commerciale complessiva (ci vorranno 90 giorni per «identificare tutte le forme di abusi commerciali e ogni pratica non reciproca che contribuisce al deficit commerciale Usa») possono però determinare un vantaggio geopolitico. Accantonando le questioni di politica economica, nei colloqui con Xi, Trump si potrà concentrare sulla Corea del Nord.

Resta il fatto che, dopo 75 anni di leadership americana sulla scena mondiale, il summit di Mar-a-Lago in Florida, può segnare l’inizio del passaggio di testimone dagli Stati Uniti alla Cina. Trump ha infatti abbracciato una politica di ritiro dal mondo, che apre uno spazio che il Partito comunista cinese non vede l’ora di riempire.

Per Trump la Cina è “manipolatrice di valuta”

Trump si è scagliato contro la Cina nella sua campagna elettorale, accusandola di  «stuprare» gli Stati Uniti. Appena messo piede alla Casa Bianca, l’ha bollata come una «manipolatrice di valuta». Eppure, al primo contatto con Pechino, ha mollato subito.

Qualche settimana dopo la sua elezione, Trump ha pensato bene di aggiornare le relazioni con Taiwan. In risposta, Xi ha congelato tutti contatti tra Pechino e Washington su tutte le questioni, chiedendo a Trump di fare retromarcia. Cosa che, appunto, è avvenuta rapidamente. Può darsi sia solo una coincidenza, ma un paio di settimane più tardi, il governo cinese ha garantito alla Trump Organization dozzine di diritti commerciali in Cina, con una velocità e con una ampiezza che ha sorpreso molti esperti.

Il disimpegno americano

Manco a dirlo, la scelta dell’amministrazione Trump di un disimpegno americano dal mondo è una manna per la Cina. Il bilancio proposto da Trump taglierebbe la spesa dedicata ad alimentare il «soft power» (diplomazia, cooperazione internazionale, organizzazioni internazionali) del 28%. Pechino, invece, negli ultimi dieci anni ha quadruplicato il budget del Ministero per gli Affari esteri. L’amministrazione Trump vuole, inoltre, risparmiare sugli stanziamenti americani per le Nazioni Unite. Anche questa è musica per le orecchie cinesi.

Da anni Pechino sta cercando di guadagnare influenza all’interno dell’organizzazione. Ha aumentato gli stanziamenti per le Nazioni Unite e non vede l’ora di sostituire gli Stati Uniti in ritirata. Specie se si considera che la Cina è già diventata il secondo più grande finanziatore delle missioni di peacekeeping ed ha più peacekeeper di tutti gli altri quattro membri permanenti del Consiglio di sicurezza messi insieme.

Senza contare che il primo e più importante atto dell’amministrazione Trump è stato quello di ritirare gli Stati Uniti dalla Trans-Pacific Partnership, un trattato che avrebbe aperto economie a lungo chiuse come il Giappone ed il Vietnam, ma avrebbe anche creato un’alleanza che avrebbe potuto fronteggiare il crescente dominio del commercio della Cina in Asia.

Il ruolo globale degli Stati Uniti ha sempre voluto dire essere all’avanguardia nella scienza, nell’istruzione e nella cultura. E anche in questo campo Washington si sta ridimensionando mentre Pechino sta dilagando

La potenza americana e l’esercito

L’amministrazione Trump ora sembra volere un esercito più grande. Ma questo non è mai stato il modo in cui la Cina ha cercato di competere con la potenza americana.

I leader cinesi hanno sottolineato che questo è stata, piuttosto, la strategia sovietica durante la Guerra fredda: una strategia che è fallita miseramente. Come a dire, lasciamo pure che Washington sprechi le propri risorse sul Pentagono, meglio concentrarsi sull’economia, sulla tecnologia e badare al «soft power». Il nuovo consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, H.R. McMaster, una volta sottolineato che era «stupido» cercare di combattere gli Stati Uniti simmetricamente, carro armato per carro armato. La strategia più intelligente sarebbe stata quella asimmetrica. I cinesi sembrano averlo compreso benissimo.

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italiaincammino.it, 24 marzo 2017 – Terrorismo: un problema da risolvere uniti

Dopo l’attentato del 2005 a Londra che ha ucciso 52 pendolari e ne ha feriti altri centinaia, il primo ministro inglese Tony Blair ha rilasciato un dichiarazione dal suo ufficio al numero 10 di Dowing Street nella quale ha reso omaggio a due qualità molto specifiche dei Londoners, «lo stoicismo e la resilienza»,  garantendo che i cittadini «resteranno fedeli allo stile di vita inglese».

«Londra è più forte di qualunque terrorista» un londinese ha scritto in una e-mail alla CNN nei giorni successivi all’attacco: «Un atto di viltà non mi impedirà, né impedirà a qualunque altro londinese, di condurre una vita normale. Ci possono colpire ogni giorno della settimana ma noi continueremo a lavorare e a vivere liberamente».

E ancora una volta, concludendo la breve dichiarazione con la quale ha condannato l’attacco di mercoledì, il Primo Ministro Theresa May ha sottolineato questo credo: «Domani mattina il parlamento si riunirà normalmente. Ci riuniremo come sempre. E i londinesi – e gli altri che da tutto il mondo sono venuti a visitare questa grande città – si alzeranno e continueranno la loro giornata normalmente».

Terrorismo e dinamiche elettorali

L’attacco terroristico di Londra, con la sua combinazione di morti casuali e della forte carica simbolica di un parlamento chiuso, capita in un anno elettorale decisivo in una serie di importanti paesi europei e in un momento di grande incertezza per l’ascesa del populismo, l’immigrazione e l’integrazione dei musulmani. Con la Francia, la Germania e, più in là, l’Italia che stanno per andare al voto, in molti si sono chiesti da tempo se un atto di terrorismo avrebbe potuto condizionare le dinamiche elettorali e assecondare la vasta «narrazione» sulla «Europa in crisi» che ha fin qui imposto i partiti di estrema destra in tutto il continente.

Terrorismo come fattore di unione

C’è chi ritiene che quel che è accaduto avrà una eco in Francia, ma un attacco relativamente limitato, come quello di Londra, è poco probabile che possa sconvolgere il confronto elettorale. Buona parte degli elettori europei, sono certo turbati ma hanno messo nel conto il costo del terrorismo, almeno quando succede lontano dai loro confini e quando il tributo non è così alto.

E questo, come ha osservato il direttore di Chatham House scorrendo rapidamente la lista delle città europee che sono state colpite negli ultimi due anni, unisce Londra, Parigi, Nizza, Berlino e Bruxelles nello stesso spazio politico. Se un attacco terroristico può alimentare la “narrazione” di una minoranza,  può anche unire politicamente gli europei in un momento in cui è costante il rischio di frammentazione.

A Roma per il 60°anniversario dell’Europa

L’unità è quel che, infatti, i leader dell’Unione europea vogliono enfatizzare questo weekend, riunendosi a Roma per celebrare il 60º anniversario dell’Europa. Ma l’attacco di Londra è anche un promemoria di una lunga lista di problemi: l’uscita non ancora definita della Gran Bretagna dall’Unione, le divisioni regionali, le disparità economiche, la disoccupazione, il sentimento anti-europeo e, ovviamente, il terrorismo islamista. Ovviamente, gli effetti di un eventuale ulteriore attacco sul larga scala in uno dei paesi che stanno per votare potrebbero essere ancora drammatici, ma l’abilità degli islamisti radicali di organizzare gli assalti sembra essere nettamente diminuita.

Terrorismo: un problema da risolvere assieme

Tutti i paesi europei  hanno rafforzato il contrasto ed i controlli. Ma l’Occidente sarà sempre vulnerabile a questo tipo di attacchi.  Quelli usati erano mezzi comuni, facilmente  reperibili ovunque; gli obiettivi erano luoghi molto frequentati; le vittime erano civili di dieci nazionalità diverse che vivevano la loro vita di ogni giorno. Per questo, non c’è un rimedio miracoloso che possa venire dall’urna elettorale.

La maggioranza degli europei sa bene che si tratta di un problema comune. C’è chi pensa che sia indispensabile scegliere tra l’interesse nazionale e l’interesse dell’Unione europea nel suo insieme, ma in realtà l’interesse nazionale richiede che la comunità europea lavori tutta insieme per raggiungere gli obiettivi che non possiamo ottenere da soli.

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GIORNALI2017

stradeonline.it, 24 marzo 2017 – IL POPULISMO IN OLANDA HA DAVVERO PERSO LE ELEZIONI?

‘In tempi normali – ha scritto lo storico olandese Ian Buruma sul New York Times pochi giorni prima del voto – in pochissimi fuori dall’Olanda avrebbero prestato attenzione alle elezioni parlamentari olandesi. In tempi normali, anche quei pochi si sarebbero aspettati un altro solido governo centrista formato da una coalizione di partiti (di solito comprendente i cristiano-democratici o i social-democratici, o i conservatori orientati al business) guidati da dirigenti politici seri. Insomma, la politica olandese era noiosa e perbene. Ma questi non sono tempi normali’.

 

Infatti, se diamo retta ai media internazionali, la settimana scorsa l’eroico popolo olandese ha sconfitto il populismo, respingendo il tentativo del Partito per la Libertà (PVV) del “Trump olandese”, Geert Wilders, di diventare il partito di maggioranza relativa. Se la battuta d’arresto sia poi solo un fenomeno olandese (circoscritto) o se invece il populismo, più in generale, abbia raggiunto il suo apice, resta oggetto di speculazione e di ogni sorta di congettura, specie in vista delle prossime elezioni presidenziali francesi.

 

Posata la polvere, però, le cose sono, come sempre, un po’ più complicate. C’è chi ritiene addirittura che le elezioni olandesi c’entrino pochissimo con la sconfitta o la vittoria del populismo. Da anni i sondaggi indicavano che (sia in caso di vittoria del PVV che del VVD, il Partito del Popolo per la Libertà e la Democrazia del Primo Ministro, Mark Rutte), nel migliore dei casi, il più grande partito del paese avrebbe ottenuto appena un quarto dei voti (probabilmente molti meno) e avrebbe comunque dovuto avviare un processo, difficile e faticoso, per formare un governo di coalizione di almeno quattro partiti. E se anche il PVV dovesse far parte di una coalizione di governo (sebbene tutti i partiti più importanti abbiano scartato questa eventualità), sarebbe l’unico partito populista a farne parte. Non propriamente una vittoria del “fenomeno” populista.

 

Insomma, c’è chi sostiene ci siano state due elezioni olandesi: una nei media internazionali, rappresentata come l’ultima versione della lotta globale in corso tra un populismo arrembante e un establishment angosciato, e una nei mezzi di comunicazione e di divulgazione olandesi, che hanno cercato di cogliere l’intera gamma di sviluppi politici, inclusa la comparsa di alcuni nuovi partiti populisti radicali di destra (come il FvD e il VNL), il successo crescente dei partiti cosmopoliti (D66 e GL), l’ascesa di un partito “turco” (DENK) e l’implosione dei socialdemocratici (PvdA).

 

A ben guardare, tuttavia, il “testa a testa” tra Rutte e Wilders ha dominato anche buona parte della “narrazione” dei media olandesi. Il premier Rutte si è sforzato, infatti, di presentarsi come una sorta di “argine”, l’unico politico in grado di tenere Wilders lontano dal potere (benché abbia messo l’accento sulle sue politiche “irresponsabili” e “poco serie”, piuttosto che sul suo populismo), al punto che in molti ritengono che la sconfitta del partito anti-UE, anti-immigrazione, anti-Islam di Wilders non sia che una vittoria di Pirro; e che il prezzo di questa vittoria sia stato la “metamorfosi” del partito di centrodestra, che si è appropriato della retorica di Wilders per batterlo.

 

Mark Rutte, che guida il VVD, il partito conservatore che ha ottenuto il numero più consistente di seggi nelle elezioni, ha parlato di “qualcosa di sbagliato nel paese” e ha affermato che la “maggioranza silenziosa” non avrebbe più tollerato i migranti che arrivano e “abusano della nostra libertà”. Insomma, anziché sfidare i razzisti, Rutte ha lisciato loro il pelo, contribuendo ad avvelenare le falde della politica olandese. Nelle ultime settimane della campagna elettorale, poi, non gli è sembrato vero di potersi calare nella parte del “duro” (Rutte ha infatti messo in mostra, da Primo Ministro, le sue credenziali populiste in una disputa con la Turchia) e la notte delle elezioni, nel suo victory speech, ha detto che fermare Wilders voleva dire ostacolare la “versione sbagliata del populismo”. Il che, ovviamente, presuppone che ci sia una varietà di populismo “giusta”, che si distingue dalle altre, e che Rutte ne sia l’interprete. Ma il rischio è che, come spesso succede, il Primo Ministro olandese venga divorato dalla tigre della retorica populista che crede di poter cavalcare.

 

Tutti sanno in Olanda che Wilders (che è un politico di lungo corso) promuove il nativismo, l’autoritarismo e il populismo. Ed è più o meno la stessa agenda di Marine Le Pen (FN) in Francia, di Frauke Petry (AfD) in Germania e di Donald Trump negli Stati Uniti. Wilders si distingue, anzi, per la sua posizione inflessibile sull’Islam. Metà del suo programma elettorale (che ha un titolo ispirato alla Brexit e a Trump, “l’Olanda nuovamente nostra”) è dedicato alla “de-islamizzazione” del paese e contiene proposte come la chiusura delle moschee e delle scuole islamiche e la messa al bando del Corano.

 

Rutte non è il solo politico tradizionale a ritenere che il “cattivo” populismo possa essere sconfitto soltanto da quello “buono”. È una posizione molto diffusa all’interno dei partiti socialdemocratici europei travolti dalla crisi. Basta ascoltare il leader laburista inglese Corbyn o lo stesso Bersani, che sostiene che per combattere il populismo non serva fare l’opposto dei Trump e delle Le Pen (opporsi, ad esempio, al protezionismo aprendo al mercato il più possibile) ma stare attenti a non farsi rubare da loro temi e argomenti.

 

Il che, in molti casi, sembra alludere solo a una versione un po’ più light di quel mix fatto non soltanto di populismo (che prende di mira principalmente le élite europee), ma anche di autoritarismo e nativismo, che non per caso, in Olanda, ha improntato la campagna elettorale dei due partiti della destra tradizionale (il cristiano democratico CDA ed il conservatore VVD).

 

“I leader di entrambi i partiti – ha scritto, infatti, Cas Mudde, del Center for Research on Extremism dell’Università di Oslo, sul Guardian – fingono di difendere i valori “olandesi” e perfino quelli “cristiani” contro le supposte minacce dell’Islam e dei musulmani, e lo stesso fanno anche i loro compagni di viaggio laici di sinistra. Anche se buona parte degli olandesi è preoccupata per l’assistenza sanitaria e il welfare state, il leader del CDA, Sybrand Buma, e il premier Rutte si sono preoccupati soprattutto di difendere le tradizioni “cristiane” come le uova di Pasqua e gli alberi di Natale e le tradizioni razziste incluso Black Pete (Zwarte Piet). Inoltre, Rutte ha rammentato che ci sono olandesi veri e olandesi “in prova”, cioè quelli che hanno le loro radici nell’immigrazione musulmana, e ha invitato questi ultimi ad agire “normalmente” oppure a “levarsi dalle scatole” (dove debbano andare non si sa)”.

 

Posto che, quasi certamente, la prossima coalizione di governo sarà guidata ancora da Rutte, e che il CDA e il VVD saranno le componenti più importanti della maggioranza, rimarrebbe da chiedersi cosa davvero rappresenti la “sconfitta” elettorale di Wilders. Se perfino un pezzo della sinistra sceglie di giocare sullo stesso campo dei populisti, quel mix fatto di nazionalismo, protezionismo, sovranismo e anti-europeismo è destinato a trovare sempre più legittimazione. Se la differenza tra populismo “cattivo” e populismo “buono” è solo una questione di sfumature – cioè, quanto, in che misura, uno sia autoritario e nativista – alla fine toccherà a Wilders ridere per ultimo.

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Messaggero Veneto, 24 marzo 2017 – LA SINISTRA TRADIZIONALE E IL JOBS ACT

Che in ballo ci siano due visioni opposte della sinistra, dell’Italia e del mondo, lo ha chiarito anche il recente intervento di Franco Belci. Vengo, appunto, al Jobs Act. Attraverso le riforme del Governo Renzi si sono conseguiti risultati importanti. Naturalmente, precarietà e incertezza non si sono dissolte (e “la lotta alla precarietà” resta “la grande frontiera che il Partito Democratico ha davanti a sé”, come sosteneva Veltroni, 10 fa).

Ma tra il 2014 e il 2016, il numero dei posti di lavoro con contratto a tempo indeterminato è aumentato (grazie al combinato disposto di nuove regole del Jobs Act e decontribuzione per i neo assunti) di più di un milione. Proprio il milione di cui parlò Berlusconi e che con noi si è finalmente realizzato. Inoltre, dall’approvazione del Jobs Act il tasso di licenziamento è in costante diminuzione: dal 6,5% del 2014 al 5,9 del 2016. Non solo: col Jobs Act siamo finalmente entrati nel novero dei Paesi civili, dotati di uno strumento universale (e non categoriale) di copertura dal rischio disoccupazione.

Deve invece preoccuparci che l’unica innovazione introdotta dal Jobs Act restata lettera morta sia stata quella relativa all’effettiva possibilità per il lavoratore caduto in disoccupazione di esercitare un diritto soggettivo a ricevere dallo Stato una somma da spendere presso un soggetto (pubblico o privato), in grado di aiutarlo a riqualificarsi e a trovare un nuovo posto di lavoro. La regola del Jobs Act prevede che l’agenzia in questione riceva il pagamento per le sue prestazione solo se la riqualificazione e la ricollocazione al lavoro sono coronati da successo.

Perché questa parte del Jobs Act è l’unica inattuata? Purtroppo, perché è quella davvero innovativa, che si può attuare solo se alla tradizionale assistenza passiva (sostegno al reddito), si accompagnano politiche attive, che implicano un salto di qualità sia nella efficienza del pubblico, sia nella intraprendenza del privato. Insomma, dei tre pilasti del Jobs Act, i primi due (articolo 18 e connessi e indennità di disoccupazione di tipo universalistico) reggono, ma il terzo (l’assegno di ricollocazione in mano al lavoratore), è sostanzialmente bloccato dalla incapacità (dalla non volontà? Dalla pervicace resistenza?) della Pa di settore di riorganizzare se stessa per la gestione di questo nuovo approccio.

Un esito questo, che ovviamente diffonde sfiducia sulla possibilità stessa di mettere in atto politiche davvero innovative. Sul punto sono intervenuto proprio su questo giornale («Debora, ora servono i fatti», 15 novembre 2014); anche perché si tratta di una competenza regionale. Ma la cosa non sembra interessare nessuno. Neanche l’altra sinistra di Belci. E, si sa, non c’è rumore più assordante del silenzio di chi vorresti sentire. Specie se si considera che negli ultimi 40 anni, nei quali le Regioni hanno esercitato la potestà legislativa e amministrativa in materia di formazione professionale, e nel quindicennio nel quale esse hanno esercitato la stessa potestà in riferimento alla generalità dei servizi al mercato del lavoro, se si escludono pochi casi, i risultati prodotti dall’autonomia regionale sono stati insoddisfacenti e in qualche caso disastrosi. Vale anche per la nostra Regione.

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Messaggero Veneto, 12 marzo 2017 – CON RENZI ROTTAMIAMO I TABÙ ITALIANI

Si è detto che chi lascia il Pd lo fa per salvarsi il posto e che D’Alema vuole vendicarsi di Renzi perché non è diventato commissario europeo, ma non é vero. Anche «personalizzare» su Renzi (se dovesse perdere, allora rientrano tutti) non è che un pretesto.

Il vero motivo della scissione sta, in realtà, in un radicale dissenso sulla natura del Pd. Sono sempre esistite due sinistre e tuttora ci sono due punti di vista diversi su cosa sia la sinistra in Italia (e non solo in Italia). Per D’Alema e Bersani, doveva essere l’ennesima metamorfosi del Pci, a cominciare dalla forma-partito, basata sulla mediazione al «centro» piuttosto che sulla competizione tra proposte alternative, e su un gruppo dirigente sostanzialmente inamovibile, che si rinnova lentamente e solo per cooptazione. È, appunto, lo schema sul quale si è sempre retto il Pci: un gruppo dirigente addensato al centro (Berlinguer) e posizioni tollerabilmente eterodosse verso destra (Napolitano) e verso sinistra (Ingrao) che venivano sintetizzate dal gruppo dirigente centrale. Renzi ha avuto il merito storico di prendere sul serio il nuovo modello di partito voluto da Veltroni e di farlo vivere non solo negli statuti, ma nella prassi quotidiana. Un modello aperto e competitivo che si fonda su due principi, vocazione maggioritaria e contendibilità di tutte le cariche, e che D’Alema e soci considerano a tal punto inaccettabile da tentare, con la scissione, di farlo a pezzi.

La scissione ha, dunque, a che fare con l’identità stessa della sinistra italiana. Non c’è dubbio, infatti, che Matteo Renzi abbia ripreso le idee-chiave della sinistra liberale e che con queste idee abbia sfidato la vecchia «ditta». Del resto, se oggi l’Italia cresce meno degli altri paesi non è perché il Pd non è unito, ma perché non è sufficientemente attrezzato per dare all’Italia la spinta che servirebbe sulle riforme pro-mercato per accrescere produttività e concorrenza. Il segretario dimissionario ha trascinato il Pd nel solco della tradizione liberale e ha cercato di raccogliere i voti degli elettori attraverso il superamento di una serie di tabù che per decenni hanno immobilizzato la sinistra italiana. Una parte della sinistra del partito considera, tuttavia, la trasformazione renziana, un tradimento dei valori tradizionali della sinistra «autentica». Insomma, il Pd vuole esprimere la sinistra riformista di governo. Il che significa che il suo obiettivo essenziale è quello di governare e che, in questo modo, vuole rendere efficace e democraticamente verificabile la propria azione. L’obiettivo di quanti dicono di voler cacciare Renzi è invece quello di disfare un partito così combinato e l’idea stessa di una «sinistra di governo» per tornare a una sinistra che mette al di sopra di tutto la propria «integrità»; che si affida, cioè, alla «identità» e rifiuta di assumere il governo come terreno di verifica della propria azione. Il che, ovviamente, nega la possibilità stessa del riformismo.

Non per caso, al contrario di quel che hanno fatto Bill Clinton, Tony Blair e Gerhard Schröder, rompendo tabù e cinghie di trasmissione (a cominciare dal sindacato), rinunciando alla rendita di consolidati bacini elettorali e mettendo in discussione le vecchie identità, nel Pd l’ala veterostatalista ha preso il sopravvento e ha scelto di usare la crisi finanziaria e politica per tornare alle vecchie certezze sul ruolo dello stato in economia, sulle modalità di regolamentazione del mercato del lavoro e su parecchie altre cose. Ed è stato Renzi, in questi anni, a ridare alla sinistra la possibilità di liberarsi dalle catene del post comunismo. Resto convinto che la sinistra (soprattutto in Italia) abbia bisogno di una «rivoluzione riformista» e non di una «rivoluzione socialista». Per questo, ho appoggiato il progetto innovativo di Veltroni, ho sostenuto lo sforzo riformatore di Monti e, per le stesse ragioni, ho visto nell’ascesa di Renzi alla guida del Pd un antidoto all’immobilismo anti-riformista del Pd di Bersani.

Se essere di sinistra significa, come credo, avere a cuore la condizione dei più deboli, allora è di sinistra una politica che aiuti gli ultimi a migliorare la propria situazione, scardini le posizioni di rendita. E la sinistra dovrebbe intestarsi la battaglia per l’inclusione sociale, il progresso e la creatività. Ho preso la tessera del Pd per appoggiare Matteo Renzi. Non per rottamare le persone, ma per rottamare i tabù del paese.

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