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www.huffingtonpost.it, 6 luglio 2017 – Col rischio di tornare al proporzionale, sarebbe meglio dare un’occhiata a quel che succede in Olanda

Ora che con la vittoria del No (dopo un quarto di secolo dedicato al tentativo di dar vita a un sistema di democrazia dell’alternanza), rischiamo di tornare a un sistema politico consociativo fondato su di un sistema elettorale proporzionale, non sarebbe male dare un’occhiata a quel che succede in Olanda.

Ci sono stato qualche giorno fa, al China-Europe Seminar on Human Rights che si è svolto alla Vrije Universiteit di Amsterdam. Il paese dei tulipani, il 15 marzo scorso, ha eletto, con il proporzionale, un parlamento inevitabilmente frammentato fra numerosi partiti, che sono ora obbligati a riunirsi in eterogenee e fragili coalizioni per formare un governo.

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Il Foglio, 6 luglio 2017 – “Il sì di Pd e FI sul Ceta è una scelta comune di politica estera”

La commissione Esteri del Senato, la settimana scorsa, ha approvato il Ceta, il trattato con il Canada sottoscritto dall’Unione europea. E il Presidente Mattarella, in visita di stato in Canada, ha ribadito «il forte favore dell’Italia verso l’attivazione del trattato commerciale» e ha messo l’accento sul suo senso politico più profondo, «e cioè quella capacità, attraverso gli scambi, di creare relazioni pacifiche tra Paesi, di rafforzare legami invece che barriere».

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www.italiaincammino.it, 28 Giugno 2017 – Uk, May firma accordo salato con nord irlandesi

Il primo ministro inglese Theresa May ha indetto le elezioni anticipate con l’obiettivo di consolidare la sua presa sul Parlamento in vista dei negoziati per la Brexit. Le cose però non sono andate come aveva sperato e il suo partito non ha più la maggioranza in Parlamento.

Lo stallo in Parlamento dopo le elezioni

La House of Commons è formata da 650 deputati e la maggioranza necessaria è di 325. I Conservatori di Theresa May non hanno raggiunto la soglia necessaria, ottenendo 318 deputati (13 in meno rispetto alle elezioni del 2015). Il Labour Party ne ha conquistati 262 (+ 30), lo Scottish National Party 35 (- 21), i Liberal Democrats 12 (+ 4) e i Democrats Unionists 10 (+ 2).

L’accordo con gli Unionisti

I Conservatori sono, tuttavia, ancora il primo partito nella House of Commons e ora hanno raggiunto un’intesa con il partito dell’Irlanda del Nord, il  Democratic Unionists Party (DUP), che garantirà loro il sostegno nei “key votes”.

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www.italiaincammino.it, 20 Giugno 2017 – Russiagate: gli hacker e l’”indifferenza” di Trump

Nel corso del weekend trascorso a Camp David, il presidente Donald Trump, con un paio di tweet rabbiosi, è tornato a parlare di “caccia alle streghe”, ha lamentato che le indagini distolgono l’attenzione dalla sua agenda politica e si è descritto più popolare di Barack Obama.

L’inchiesta su Trump rappresenta, tuttavia, un’escalation della crisi. Le indagini si sono allargate dalla presunta collusione tra Mosca e la Casa Bianca, alla possibilità che il presidente abbia ostacolato la giustizia, cioè lo stesso reato che durante il Watergate era costato il posto a Nixon.

Il procuratore speciale sta indagando anche eventuali reati finanziari commessi da persone vicine al capo della Casa Bianca, che potrebbero riguardare l’incontro avuto dal suo genero Kushner con il banchiere russo Sergey Gorkov, legato a Putin. Ed il Senato ha deciso di rafforzare le sanzioni contro Mosca per gli attacchi condotti durante le presidenziali.

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www.italiaincammino.it, 29 Maggio 2017 – G7 e clima: la rottura Merkel-Trump

All’indomani del controverso G7 di Taormina, nel corso del quale i leader di sei paesi non sono riusciti a persuadere il presidente Trump a sostenere gli accordi di Parigi sul clima, Angela Merkel, parlando ad un comizio in Baviera, lo ha detto chiaramente e proprio sulla base della «esperienza degli ultimi giorni»: «I tempi in cui potevamo fare affidamento completamente sugli altri sono finiti».

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www.italiaincammino.it, 23 Maggio 2017 – Trump in Israele, un nuovo capitolo di peacemaking in Medio Oriente?

Dopo aver messo sottosopra, in tempo record, la sua nuova amministrazione con una serie di scandali e disfunzioni, Donald Trump ha intrapreso il suo primo viaggio all’estero come presidente. Si è fermato ieri in Israele, la sua seconda tappa dopo il weekend trascorso in Arabia Saudita.

La destra israeliana, che governa saldamente il paese, ha salutato l’elezione a sorpresa di Trump come l’arrivo di un altro Ciro il Grande, il redentore persiano dei Giudei che consentì agli ebrei di fare ritorno alla loro patria e di porre fine alla cattività babilonese.

Ma il presidente americano a cui gli israeliani hanno dato il benvenuto non è proprio il “liberatore” (dai contrasti dell’era Obama) che molti di loro hanno sognato. A dire il vero, è una speranza che lo stesso Trump aveva incoraggiato quando, un mese dopo la sua elezione e un mese prima del suo insediamento, ha twittato: “Stay strong Israel, January 20th is fast approaching!”.

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www.italiaincammino.it, 18 Maggio 2017 – Cina: 1000 miliardi di dollari per la nuova Via della Seta

Domenica scorsa, il presidente cinese Xi Jinping ha offerto un quadro del nuovo ordine economico globale nel quale il suo paese si pone come alternativa ad un’America, quella di Trump, ripiegata su se stessa.
Il presidente cinese ha usato il Belt and Road Forum for International Cooperation di Pechino (14-15 maggio) per presentare ufficialmente il progetto della «nuova Via della Seta». Durante il suo discorso di apertura, Xi ha definito la Belt and Road Initiative (BRI) – una vota denominata «One Belt, One Road» (OBOR) -, «il progetto del secolo», in grado di produrre benessere e sviluppo in tutto il pianeta.

Il progetto del secolo

«Lo spirito della Via della Seta è un grande patrimonio dell’umanità», ha detto il presidente; e tramite questa iniziativa, Pechino intende recuperare lo spirito della «pace e della cooperazione tra Oriente e Occidente», «dell’apertura e dell’inclusione», «dell’apprendimento reciproco» e del «reciproco vantaggio» incarnati dall’antico network di rotte commerciali che andava dalla Cina al Medio Oriente, all’Africa e all’Europa.

La «nuova Via della Seta» è un ambizioso progetto infrastrutturale lanciato da Xi Jinping più di tre anni fa (la rete di infrastrutture interessa più di 60 paesi su un’area che si estende fra Asia, Europa e Africa), attraverso il quale Pechino vuole creare solidi rapporti industriali con i paesi coinvolti.

1000 miliardi di dollari per porti, ferrovie, aeroporti e centrali energetiche

E la Cina oggi promette di spendere mille miliardi di dollari per costruire porti, ferrovie, aeroporti e centrali energetiche non solo attraverso la regione Euroasiatica, ma in quasi ogni angolo del mondo.

In Laos, lungo le montagne ricoperte dalla giungla, gli ingegneri cinesi stanno scavando centinaia di tunnel e costruendo viadotti per sostenere una ferrovia di 260 miglia, un progetto di 6 miliardi di dollari che collegherà otto paesi asiatici; in Pakistan, il denaro cinese sta costruendo centrali energetiche per fare fronte alla mancanza cronica di elettricità, parte di un investimento del valore previsto di 46 miliardi di dollari; e gli urbanisti cinesi stanno mettendo a punto linee ferroviarie da Budapest a Belgrado, assicurando un’altra arteria per il flusso delle merci cinesi in Europa attraverso il porto greco del Pireo controllato dalla Cina.

Agenda economica e geopolitica della Cina

Questi enormi progetti infrastrutturali, assieme a centinaia di altri in Asia, in Africa e in Europa, formano la spina dorsale dell’ambiziosa agenda economica e geopolitica della Cina. Il presidente Xi Jinping sta costruendo legami, creando nuovi mercati per le imprese del suo paese ed esportando il modello di sviluppo economico cinese guidato dallo Stato allo scopo di generare rapporti solidi e forti relazioni diplomatiche.

L’iniziativa si preannuncia senza precedenti, per ampiezza, nella storia moderna; e per celebrare la nuova influenza globale della Cina, Xi ha radunato domenica scorsa a Pechino, per i due giorni del vertice, decine di capi di Stato e di governo, a partire dal presidente russo Putin.

Va da sé che Xi Jinping sta cercando di usare la ricchezza ed il know how industriale cinesi per creare un tipo di globalizzazione «nuovo» che possa fare a meno delle regole delle «antiquate» istituzioni dominate dall’Occidente.

L’obiettivo è quello di rimodellare l’ordine economico globale ed attrarre paesi ed imprese nell’orbita cinese.

Il progetto, ovviamente, serve gli interessi economici della Cina.

Con una debole crescita interna, la Cina sta producendo più acciaio, cemento e macchine di quanto le occorra. Perciò il presidente cinese guarda al resto del mondo, in particolare ai paesi in via di sviluppo, per far andare a pieno regime il suo motore economico.

A ben guardare però, il progetto è quello di pilotare la nuova «globalizzazione 2.0». Il presidente Xi ha, infatti, delineato una versione più ardita del Piano Marshall, lo sforzo di ricostruzione post bellico dell’America.

Allora, gli Stati Uniti hanno fornito una gamma molto ampia di aiuti per consolidare le alleanze in Europa; e ora la Cina sta impiegando centinaia di miliardi di dollari in prestiti sostenuti dallo Stato con l’obiettivo di guadagnarsi nuovi amici in giro per il mondo, e questa volta senza pretendere impegni militari.

In netto contrasto con il presidente Trump

Il progetto di Xi Jinping si pone in netto contrasto con il presidente Trump ed il suo mantra «America First».

L’amministrazione Trump è uscita dalla Trans-Pacific Partnership, l’intesa commerciale capeggiata dall’America che era stata immaginata proprio come un rimedio alla crescente influenza cinese.

Ma come aveva detto Xi Jinping ai leader del mondo degli affari al World Economic Forum in gennaio, «sostenere il protezionismo è come chiudersi dentro una stanza buia»; e il presidente cinese ora sta incoraggiando una leadership globale ad immagine e somiglianza della Cina, enfatizzando l’efficienza economica e l’intervento statale; e sta affastellando ogni genere di progetti infrastrutturali sotto l’ampio ombrello del piano. Perfino progetti finanziariamente controversi in paesi infestati dalla corruzione come il Pakistan o il Kenya un senso (per ragioni militari e diplomatiche) ce l’hanno.

Il rifiuto dell’ Australia

Gli Stati Uniti, l’India ed altri, hanno dato voce alle preoccupazioni circa le implicazioni geostrategiche della BRI; alcuni, come l’Australia, hanno opposto un secco rifiuto alla richiesta di Pechino di aderire al piano.

Ma è impossibile per qualunque il leader straniero, per qualunque dirigente di una multinazionale o qualunque banchiere internazionale, ignorare la pressione cinese per «rifare» il commercio mondiale.

McKinsey ha osservato che se si dovesse davvero spendere tutto il denaro promesso, lo stesso Piano Marshall al confronto finirebbe per impallidire.  Il ministro tedesco dell’economia, Brigitte Zypries, ha ovviamente partecipato al Forum di Pechino; e hanno fatto lo stesso giganti industriali occidentali come la General Electric o la Siemens, impegnati ad ottenere contratti vantaggiosi e a rimanere nelle grazie cinesi. Anche l’amministrazione Trump ha garantito la presenza di un funzionario di alto livello.

Ma Paolo Gentiloni è stato l’unico leader del G7 a partecipare al vertice. L’Italia è uno di terminali strategici della proiezione cinese nel Mediterraneo; e per il nostro paese è un’occasione straordinaria

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IL Foglio, 18 maggio 2017 – LE VERE RADICI DEL M5S

La politica è in crisi dappertutto in Occidente. E come sempre, l’Italia è un laboratorio delle tendenze in atto a scala europea. Come ha scritto malignamente Max Gallo, l’Italia «è la metafora d’Europa», ovvero la società in cui tutto si manifesta in modo caricaturale, esagerato ed eccessivo; dove le malattie latenti si presentano in modo evidente ed esplodono mentre negli altri paesi moderni sono solo in incubazione. E la vera intuizione del M5s non è la sbandierata democrazia elettronica, ma la politicizzazione della rete, con un formidabile cavallo di battaglia: la critica spietata alla «casta».

Colin Hay ci ha spiegato perché la gente odia la politica («Why we hate politics»), ma che in un paese in cui ogni anno le pensioni baby (tutte persone che nel migliore dei casi hanno lasciato il lavoro a poco più di quarant’anni) costano allo stato oltre 9 miliardi di euro, l’enfasi sui costi della politica (che ha preso il posto dei temi cruciali della produttività, della crescita, della concorrenza, del debito pubblico) non dovrebbe sorprendere: dire è tutta colpa della politica, è come dire è colpa degli «altri», non è colpa mia. E non dovrebbe sorprendere neppure che in seno al rancore contro la casta politica e i suoi privilegi che il M5s ha raccolto nel web e nelle piazze, saldando una valutazione inacidita del presente alla nostalgia per un passato largamente idealizzato, finisca per emergere anche un odio sordo per la democrazia. Niente di nuovo, per chi abbia ancora, per usare l’espressione di Giorgio Amendola, «vivissimo il senso dello spessore reazionario accumulato nei secoli nella società italiana».

Ma i grillini (come un tempo le Br) non vengono dal nulla, non sono delle schegge impazzite. Sono, invece, una pagina dell’«album di famiglia» della sinistra italiana: una pagina obsoleta quanto si vuole, fuori tempo, ferma ad analisi insostenibili quanto si vuole, ma che un tempo facevano parte di un patrimonio comune a moltissime persone. Anche se queste ora preferiscono dimenticarlo.

C’è uno scambio di battute nel film di Gabriele Salvatores, Puerto Escondido, che rende bene l’idea: «Il Messico è una delle pattumiere degli Stati Uniti. Tutti i loro rifiuti, le cose che non gli servono più, vengono a finire qui. Allora… quando anche i messicani non li vogliono più, io li riprendo e li rivendo agli americani (…) E loro non se ne accorgono, questa è la cosa bella. Hai capito? Questi li hanno comprati anni fa, li ricomprano al prezzo triplo, e sono contenti!». Certo, nella pattumiera dei Cinque stelle sono finite le cose più disparate. Ma chiunque in Italia sia stato «di sinistra» riconosce di colpo moltissimi dei materiali che ora i grillini ci vogliono rivendere. Sembra, come direbbe Rossana Rossanda, di sfogliare l’album di famiglia: ci sono ovviamente tutti gli ingredienti che ci sono stati propinati negli anni da Repubblica e dal Corriere e quell’universo di tabù e di bugie, di analisi infondate e di illusioni, di concepimenti velleitari, che così a lungo è sembrato a molti l’unico universo di sinistra possibile.

Nel cocktail populista del M5S non ci sono solo la denuncia dei costi della politica e del malaffare, il pitale lanciato su Montecitorio, il pregiudizio antiscientifico, le sirene e le scie chimiche, il referendum sull’euro, la chiusura delle frontiere, l’odio per le classi dirigenti, i banchieri, gli eurocrati, la retorica del complotto (inevitabilmente «demo-pluto-giudaico-massonico»), ci sono anche il rifiuto della globalizzazione e la battaglia contro l’ordine liberista dell’economia mondiale, l’accusa rivolta al «potere delle multinazionali assassine che stanno distruggendo il pianeta, massacrando i lavoratori (uomini, donne e bambini) per i loro profitti miliardari», l’uscita dell’Italia dalla Nato, la battaglia contro la «deriva autoritaria» e la «legge-truffa», la protesta ecologista, le posizioni di netta chiusura e di condanna del processo di integrazione europea (in sostanza, dietro ogni forma di integrazione europea – euro compreso, ovviamente – non ci sarebbero altro che la volontà e gli interessi degli Stati Uniti e del capitalismo tedesco: ma questa era la riposta dell’URSS ai piani Schuman e Pleven), il terzomondismo (che in modo manicheo divide il mondo in buoni e cattivi e per il quale europei e americani interpretano, manco a dirlo, la parte dei cattivi), lo strabismo sulle vicende che riguardano Israele (di fronte agli orrori degli islamisti si insegue sempre qualche forma di giustificazione, come l’umiliazione, la povertà, lo spossessamento, che naturalmente hanno a monte un’unica causa: la volontà di dominio – economico, finanziario, politico e militare – del malvagio Occidente), l’ostilità per gli scambi commerciali ed il mercato tout court, ecc.

E soprattutto ritroviamo quel quadro della società italiana «da far accapponare la pelle» (sono le parole di Scalfari) che il segretario del Pci Enrico Berlinguer tracciò nella celebre intervista a Repubblica nel luglio 1981. I poveri, gli emarginati, gli svantaggiati sono privi di difesa, non hanno voce e non hanno alcuna possibilità di migliorare le proprie condizioni perché i partiti di governo, privi di moralità, hanno occupato lo Stato e tutte le istituzioni. Gli enti locali, le banche, le aziende pubbliche, gli ospedali, le università, la televisione, la stampa, gli enti previdenziali, tutto è in preda a uomini corrotti e senza scrupoli. Gli italiani – sosteneva il segretario del PCI – possono sperare di salvarsi solo in un modo: affidandosi al Partito comunista, ovvero al Partito degli «onesti», il quale lotta, completamente isolato, contro la corruzione dilagante. Cambiare l’Italia però non è facile, secondo Berlinguer, perché gli italiani non sono liberi di scegliere. Essi «si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (…) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più». Al centro di tutto c’è sempre il «sistema», il quale è responsabile di ogni male. Ovunque si volga lo sguardo è una catastrofe continua.

Ovviamente, grazie alla «questione morale» anche il M5s oggi si chiama fuori dal sistema politico. Non ne è una parte: ne è la coscienza, il giudice. Ma quel che rende i «rivoluzionari» pentastellati figli della stessa tradizione culturale non è la lotta alla corruzione, bensì il catastrofismo radicale, l’idea che il peccato pervada il mondo e che a un gruppo di pochi eletti spetti il compito di purificarlo.

Per questo la «rottura» di Renzi, che si è impadronito della «ditta» togliendo di mezzo il vecchio sindacato di controllo ex comunista ed ex democristiano, non va sottovalutata. Certo, non mancano limiti e contraddizioni. Ma come si fa a non vedere che l’iniziativa avviata da Renzi ha lo scopo di sostituire definitivamente la tradizione liberal-democratica a quella marxista e comunista? Alla base della nuova sinistra renziana c’è infatti la liquidazione definitiva del vecchio mito della «crisi ineluttabile» della società capitalistica. E quel che riesce insopportabile del renzismo (come ha scritto, a proposito del craxismo, Galli della Loggia nel suo recente bel libro) è «la sua istanza realistica»: il suo prendere atto di come stanno realmente le cose e «la sua proclamata rinuncia ad immaginare che il mondo possa essere mutato alla radice». Un realismo «ideologicamente estraneo» non solo alla cultura comunista ma anche a quella cattolica (visto con gli occhi di Papa Francesco il mondo non ha scampo). A Craxi molti italiani, in particolare gli intellettuali (convinti del carattere intrinsecamente «disumano» del capitalismo e di tutto ciò che lo riguarda) non potevano perdonare «di voler distruggere il sogno del comunismo». Vale anche per Renzi. Non è un caso che (solo in Italia) ciò che resta della vecchia sinistra abbia sdoganato l’intesa con i populisti del M5s. Il che rivela le ragioni vere dell’ostilità di una parte della sinistra a Renzi.

Per questo la rottura di Renzi con il passato e la sua battaglia culturale dentro il partito sono così importanti: perché non si può cambiare l’Italia senza prima cambiare il Pd. Va da sé che le alleanze, con il proporzionale, si faranno dopo le elezioni. Ma il piano della cultura politica (cioè quell’insieme di idee, principi, valori, intessi sociali da tutelare, a cui attinge un organismo politico per definire le proprie scelte) è più decisivo che mai. É la base su cui costruire alleanze e progetti di governo per il paese. Specie adesso che la divisione tradizionale (novecentesca) fra destra e sinistra è rimpiazzata da un’altra linea di frattura, che taglia trasversalmente gli schieramenti consolidati e che contrappone i “sovranisti” agli “europeisti”. Ed è solo attraverso una cultura politica buona per l’oggi che si possono rilegittimare la politica e i partiti. Non è forse questa la novità del Macron «et de droite et de gauche»?

Senza contare che la bocciatura della riforma rende più complicata ma più urgente la transizione a una forma di governo efficiente. Anche perché con questo sistema l’Italia prima o poi finirà per sbattere la testa contro il muro. E siamo sempre lì: o si sceglie il modello del «populismo democratico» o quello della «partitocrazia» (inevitabilmente) pervasiva. Resto dell’opinione che il populismo democratico, per dirla con Luciano Cafagna, «avrebbe corrisposto meglio all’animo profondo del Paese» e «avrebbe favorito di più lo sviluppo di una sinistra in sintonia con il suo popolo e autenticamente riformista» e che tocchi al Pd prendere il toro per le corna e chiedere una riforma del governo in senso semipresidenziale, con doppio turno per l’elezione del Parlamento. Prendendo atto fino in fondo che oggi che l’identificazione e l’appartenenza (all’ideologia, all’utopia, alla morale del partito) non ci sono più, l’unica strada praticabile è quella di esaltare la possibilità della scelta, la responsabilità della scelta, l’esercizio della cittadinanza nello Stato. Non è per questo che abbiamo scelto le primarie?

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www.italiaincammino.it, 13 Maggio 2017 – Renzi, Obama e Macron: triumvirato di “potenze progressiste”

Tre giorni prima del ballottaggio, l’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha annunciato il proprio sostegno a Emmanuel Macron nelle elezioni presidenziali francesi, mettendo in evidenza che, sebbene non avesse progettato di farsi coinvolgere in altre elezioni dopo la sua presidenza, «il successo della Francia è importante per il mondo intero». Matteo Renzi, rieletto segretario del Pd, ha incontrato Barack Obama durante la visita dell’ex presidente americano a Milano e nel corso del loro colloquio, i due hanno telefonato al neo eletto presidente francese per congratularsi della vittoria. Lo stesso Macron, su Twitter, aveva rivolto i suoi auguri a Renzi per la vittoria alle primarie: «Bravo a @matteorenzi ‘in cammino/en marche’ funziona. Insieme, cerchiamo di cambiare l’Europa con tutti i progressisti».

Che cosa accomuna profili e storie così diverse?

Cos’è che rende queste storie così simili nel messaggio e perfino nello stile?

Obama ha detto che Macron «rappresenta i valori liberali» e «propone una visione per il ruolo importante che la Francia gioca in Europa e nel mondo» ed ha aggiunto, con una chiara allusione a Le Pen, che Macron, «si rivolge alle speranze della gente e non alle loro paure». E come ha sottolineato The Atlantic nel numero del mese scorso, anche le campagne elettorali di Obama e di Macron si somigliano molto. Come Obama, Macron ha fatto affidamento su un’ampia (e senza precedenti) campagna popolare che ha mobilitato migliaia di volontari in tutto il paese. Le campagne elettorali di entrambi i leader si sono inoltre concentrate su un punto: rimettere in marcia i loro paesi in direzione del progresso. Lo slogan di Macron era En Marche! e anche Obama aveva puntato su slogan simili «Change We Can Belive In» e, per la sua rielezione, «Forward», avanti. È una relazione, questa, che la campagna di Macron ha sottolineato. Il mese scorso, En Marche! ha diffuso un video nel quale l’ex presidente americano augurava al candidato all’Eliseo «buona fortuna» alla vigilia del primo turno e nel quale Macron diceva di attendere con ansia di poter «lavorare insieme» in futuro. E vale anche per Renzi.

Giuliano Ferrara lo ha rimarcato con grande efficacia: «Chi è che ha predicato fino alla noia l’ottimismo e la speranza dell’Italia che riparte? Chi è che aveva 39 anni nel momento dell’accesso al potere esecutivo? Chi è che ha puntato sul partito della nazione, cioè su un accordo trasversale detto Nazareno con la destra berlusconiana, essendo “et de droite et de gauche”? Chi è che è stato accusato dagli ideologi bolsi del novecentismo politico di aver trasformato il Pd in una specie di startup come En Marche!? Chi è che ha fatto della liberalizzazione del mercato del lavoro un’ossessione fattiva, e ha proceduto per ordonnance come sta per fare Emmanuel M. (il voto di fiducia sull’articolo 18)? Chi è che ha preso il 40 per cento alle europee, miglior risultato fra i partiti socialdemocratici, su una linea di opposizione europeista al cialtronismo lepenista-grillozzaro italiano? Chi è che è andato al governo senza essere stato eletto dal popolo (a parte la platea delle primarie del partito di maggioranza), come fece Macron lanciandosi poi come presidente della République? Chi è che ha rotto le palle con le quote femminili al potere, come farà E. M. alle legislative? Chi è che ha avuto più tempo per la finanza e l’impresa che per le corporazioni sindacali? Chi è che ha proposto il ballottaggio, strumento essenziale per l’ascesa di M. e la sconfitta di Marine? Chi è quel Provinciale Collettivo che osa sostenere il contrario, cioè che Renzi, e proprio ora che il sistema lo ha riacciuffato, deve imitare il modello Macron o non può imitare il modello Macron?».

Il sostegno di Obama 

Non è chiaro se il sostegno di Obama a Macron (Obama anche detto che, se potesse, voterebbe per la cancelliera tedesca Angela Merkel che sta correndo per la rielezione in autunno) abbia influenzato gli elettori francesi. Nonostante la sua popolarità in Europa e negli Stati Uniti, il suo evidente sostegno alla campagna del «Remain» nel referendum inglese sulla Brexit, il suo sostegno ad Hillary Clinton nelle elezioni presidenziali americane ed il sostegno alla riforma costituzionale di Renzi, non hanno avuto l’impatto desiderato.

Lo stesso schema di gioco

Una cosa però è chiara. È chiaro che in Francia, in Italia, negli Stati Uniti e dovunque in Occidente, lo schema di gioco è lo stesso. É dal 2012 che Pietro Ichino si affanna a ripetere che il nuovo discrimine fondamentale è tra chi intende contrastare la globalizzazione ripristinando sovranità e frontiere nazionali e chi ne accetta la sfida attrezzando il proprio paese per trarre dalla globalizzazione il massimo beneficio e indennizzando chi nella sfida ci perde qualcosa. Insomma, la scelta fondamentale oggi è quella che si compie rispetto a questo spartiacque, che non è più quello sul quale si è strutturata la politica dal dopoguerra. Questo è il nuovo bipolarismo che è destinato probabilmente a caratterizzare gli anni che verranno.

La conferenza improvvisata sembrava collegare un triunvirato di «potenze progressiste» che però non ci sono ancora. Obama, Renzi e Macron (ci sarebbe anche Trudeau), rappresentano una realtà alternativa (una realtà possibile), per un paesaggio politico transatlantico distrutto dall’elezione di Trump e dall’ascesa delle forze populista. Macron ha sconfitto in modo netto la sfidante dell’estrema destra, ma Renzi ed anche Obama, a casa loro, hanno ancora parecchio lavoro da fare. È chiaro anche questo.

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www.italiaincammino.it, 5 Maggio 2017 – Cara Le Pen, globalizzazione non è una parolaccia

Nel violento duello tv presidenziale di mercoledì sera tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen, la candidata del Front National ha aggredito il rivale etichettandolo come «il candidato della globalizzazione». La globalizzazione, si sa, da tempo è diventata una parolaccia. Secondo la candidata di estrema destra (che Macron ha definito «la sacerdotessa della paura»), la «mondialisation sauvage met en danger notre civilisation» e quasi tutti ora sembrano comunque ritenerla asimmetrica, iniqua e pericolosa. Eppure, la maggior parte dei difetti attribuiti alla globalizzazione sono, in realtà, carenze nelle politiche nazionali (ed europee). Errori che possono essere corretti.

 

Investire meno in guerre e più in infrastrutture

C’è voluto un miliardario cinese per dire, ad esempio, agli americani le cose come stanno. Jack Ma, il fondatore del gigante dell’e-commerce Alibaba Group, ha stimato che negli ultimi trent’anni il governo degli Stati Uniti ha speso 14.2 trilioni di dollari per combattere 13 guerre. Una somma enorme di denaro che poteva essere investita in America per costruire infrastrutture e creare posti di lavoro. «Il denaro dovrebbe venire utilizzato a vantaggio della propria gente», ha detto infatti Ma, evidenziando inoltre che la globalizzazione ha prodotto profitti considerevoli per l’economia degli Stati Uniti, ma che buona parte di quel denaro è finito a Wall Street.

«E cos’è successo? Il 2008. Solo negli Stati Uniti la crisi finanziaria ha spazzato via 19.2 trilioni di dollari. E se quel denaro fosse stato utilizzato invece per sviluppare l’industria nel Midwest?», ha chiesto l’imprenditore cinese. «Non sono gli altri paesi che vi vengono a rubare i posti di lavoro ragazzi, è la vostra strategia che non va», ha concluso. Non serve passare al setaccio i dati statistici di Jack Ma per ammettere che il suo punto di vista un qualche fondamento ce l’ha.

Opportunità per la crescita

La globalizzazione ha creato enormi opportunità per la crescita, molte delle quali sono state colte proprio dalle imprese americane ed europee.

Nella lista dei primi 500 gruppi economici globali, pubblicata ogni anno dalla rivista Fortune, la Cina occupa certo sempre più posizioni, ma l’economia globale è ancora dominata dalle grandi imprese americane ed europee. 134 delle Fortune’s Global 500 sono americane (come peraltro la grande maggioranza delle imprese nei settori all’avanguardia) ed anche il piccolo drappello di aziende italiane è uniformemente distribuito su tutta la classifica. Queste aziende hanno beneficiato enormemente della possibilità di sfruttare una catena di fornitura globale che può disporre di merci e servizi in tutto il mondo, contenere il costo del lavoro e situarsi in prossimità dei mercati di sbocco.

 

Gli effetti sulla società

Ovviamente, la globalizzazione ha effetti rilevanti sull’economia e sulle società di tutti i paesi, e causa più di un problema. Ma quale fenomeno complesso non lo fa? Tuttavia, genera anche opportunità, innovazione e ricchezza, che ogni paese può poi usare per affrontare questi problemi attraverso idonee strategie nazionali.

Le soluzioni sono facili da affermare in teoria (istruzione, training qualificante e retraining, infrastrutture), ma sono costose, e le riforme, come sappiamo bene, sono difficili da realizzare. È molto più facile puntare il dito contro gli invasori e promettere barriere, tariffe doganali e sanzioni contro lo «straniero». Non per caso, ieri sera Marine Le Pen ha rimproverato aspramente Macron: «Vous avez vendu les Chantiers de l’Atlantique aux Italiens».

Il costo di queste politiche è però enorme. L‘Economist ha riportato, in una indagine sulla globalizzazione, che nel 2009 l’amministrazione Obama ha «punito» la Cina imponendo dei dazi sui pneumatici. Due anni dopo, il costo per i consumatori americani era di 1.1 miliardi di dollari (900.000 dollari per ogni posto di lavoro «salvato»).

Senza contare che l’impatto di tali misure lo subiscono, in maniera sproporzionata, proprio i poveri e la classe media, che adoperano una quota più ampia del loro reddito per comprare merci d’importazione, come il cibo e i vestiti. E uno studio (citato nella stessa inchiesta) ha calcolato che, in 40 paesi, se il commercio internazionale dovesse avere fine, i consumatori più ricchi perderebbero il 28% del loro potere di acquisto, ma quelli più poveri perderebbero un incredibile 63%.

 

Il ruolo della tecnologia

Il fatto è che l’elemento chiave che sta riducendo i salari ed eliminando molti lavori nel mondo industrializzato è la tecnologia, non la globalizzazione. Tanto per capirci, tra il 1990 e il 2014, la produzione di automobili americana è aumentata del 19%, ma con 240 mila lavoratori in meno. Non sono solo le nuove fabbriche di Intel che hanno sempre meno lavoratori. Adidas ha costruito una nuova fabbrica di scarpe in Germania che è gestita quasi interamente dai robot. E i non molti lavoratori di queste fabbriche tendono ad essere programmatori e tecnici altamente specializzati.

La rivoluzione tecnologica non si può arrestare. E non c’è nemmeno una soluzione immediata per impedire al business di delocalizzare le produzioni in altri paesi. Aumentare i dazi sulle merci cinesi significherebbe semplicemente far arrivare prodotti da qualche altro paese in via di sviluppo.

Piuttosto, ciascun paese dovrebbe riconoscere che l’economia globale e la rivoluzione tecnologica richiedono ampi e sostenuti sforzi nazionali per equipaggiare i lavoratori con le abilità, il capitale e le infrastrutture di cui hanno bisogno. Dobbiamo certamente accettare un mondo aperto, ma allo stesso tempo, dobbiamo assistere i «perdenti» e attrezzarci in modo adeguato per competere. Quel che davvero conta è l’empowerment. E questo richiede politiche nazionali (ed europee) intelligenti e concrete (e piuttosto costose), non il rovesciamento della globalizzazione nel suo contrario. «La grande prêtresse de la peur, elle est en face de moi», ha ricordato ieri Macron. Ma la paura si può vincere.

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