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La Russia di Putin e il nostro “dovere morale”- Il Riformista, 14 Marzo 2022

Torna in libreria oggi, pubblicato da Adelphi nella traduzione di Claudia Zonghetti, “La Russia di Putin” della giornalista moscovita Anna Politkovskaja, uccisa da due sicari a Mosca nel 2006. Nell’incipit c’è già tutto: “Questo libro parla di un argomento che non è molto in voga in Occidente: parla di Putin senza toni ammirati”. “A scanso di equivoci – prosegue Politkovskaja –, spiego subito perché tale ammirazione (di stampo prettamente occidentale e quanto mai relativa in Russia, dato che è sulla nostra pelle che si sta giocando la partita) faccia qui difetto. Il motivo è semplice: diventato presidente, Putin – figlio del più nefasto tra i servizi segreti del Paese – non ha saputo estirpare il tenente colonnello del KGB che vive in lui, e pertanto insiste nel voler raddrizzare i propri connazionali amanti della libertà, come ha sempre fatto nel corso della sua precedente professione”.

Sono passati quasi vent’anni dalla pubblicazione di “La Russia di Putin” (un volume, come ha osservato la traduttrice, concepito “per l’Occidente”, più esplicativo, più “didattico” degli altri), ma il libro è attualissimo. Anna Politkovskaja racconta la Russia di oggi: un mondo a sé stante, separato dalla cultura occidentale, ancora traboccante di corruzione, purghe, terrore. Una Russia soffocata da un regime che dietro la facciata democratica (un “mostro di democrazia” come la definisce la stessa giornalista per rimarcare il fatto che la democrazia, in Russia, non è che il camuffamento di regime dittatoriale), si rivela ancora avvelenato di sovietismo.

Putin, nel capitolo finale viene ritratto come un modesto ex ufficiale del KGB divorato da ambizioni imperiali: “Siamo solo un mezzo, per lui. Un mezzo per rag­giungere il potere personale. Per questo dispone di noi come vuole. Può giocare con noi, se ne ha voglia. Può distruggerci, se lo desidera. Noi non siamo niente. Lui, finito dov’è per puro caso, è il dio e il re che dobbiamo temere e venerare. La Russia ha già avuto governanti di questa risma. Ed è finita in tragedia. In un bagno di sangue. In guerre civili. Io non voglio che accada di nuovo. Per questo ce l’ho con un tipico čekista sovietico che ascende al trono di Russia incedendo tronfio sul tappeto rosso del Cremlino”. “Con il presidente Putin – scriveva la giornalista moscovita – non riusciremo a dare forma alla nostra democrazia, torneremo solo al passato. Non sono ottimista in questo senso e quindi il mio libro è pessimista. Non ho più speranza nella mia anima. Solo un cambio di leadership potrebbe consentirmi di sperare”. Si tratta di parole che oggi appaiono profetiche. Ora, dopo aver aggredito l’Ucraina, in patria Putin ha infatti restaurato il terrore, trasformandosi, come ha scritto l’Economist, “in uno Stalin del XXI secolo, ricorrendo più che mai alla menzogna, alla violenza e alla paranoia”.

Che a tutto questo, gli ucraini preferiscano, per sé e per i propri figli, il modello di società aperta e di democrazia europea, non è poi così strano. Aggiungo, visto che in questi giorni si è parlato del “dovere della resa”, che gli ucraini continueranno a combattere. Semplicemente perché, come ripeteva Bruno Trentin, “la libertà viene prima”. Di fronte all’aggressione di Putin, gli ucraini hanno scoperto di essere pronti a morire per un principio: l’idea che tocca a loro scegliere il proprio destino. A noi tocca decidere se aiutarli o abbandonarli al loro destino. Per parte mia, non ho dubbi su quale sia il nostro “dovere morale”.

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