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La Cina potrebbe invecchiare prima di diventare ricca – Il Riformista, 11 maggio 2021

«L’onore è salvo», ha scritto Frédéric Schaeffer su Les Echos: la Cina resta ufficialmente il paese più popoloso del mondo con oltre 1 miliardo e 400 milioni di abitanti (scongiurando il sorpasso da parte dell’India).

Dopo diverse settimane di ritardi e di speculazioni, Pechino ha pubblicato i dati molto attesi del suo censimento decennale. In un primo tempo, i funzionari cinesi avevano rinviato la diffusione dei dati e, alla fine di aprile, l’Istituto nazionale di statistica aveva smentito le anticipazioni del Financial Times, secondo il quale la Cina aveva registrato, per la prima volta dal «grande balzo in avanti» di Mao Zedong, un calo della popolazione in grado di innescare un momento di crisi in un paese già molto preoccupato per l’invecchiamento demografico.

Secondo i dati del censimento la Cina è cresciuta nell’ultimo decennio ad un tasso annuale dello 0, 53%. Insomma, non c’è nessun calo e la popolazione cinese continua a crescere. Si tratta, tuttavia, della crescita della popolazione più contenuta dagli anni ’60 (da quando, cioè, il paese era alle prese con le conseguenze della carestia nella quale morirono decine di milioni di persone) ed il picco demografico avanza a grandi passi. Con il rischio, per la Cina, di scoprirsi un paese vecchio prima di diventare ricco.

Il governo cinese sperava che, dopo l’abrogazione formale, nel 2015, della «politica del figlio unico» (una delle politiche di controllo delle nascite attuata dal governo nell’ambito della pianificazione familiare per contrastare l’incremento demografico del paese), ci sarebbe stato un boom delle nascite. I dati mostrano che le cose sono andate diversamente, anche perché avere figli in Cina è molto costoso.

Nei paesi comunisti, i censimenti sono sempre stati molto delicati dal punto di vista politico, dato che spesso rivelano politiche fallite e disastri sottratti alla vista.

Il calo non ha niente da che vedere con le morti dovute al Covid-19. Per incidere davvero sulla popolazione cinese, il bilancio ufficiale delle vittime (4.636) avrebbe dovuto essere di molto superiore; e sebbene molti ricercatori sostengano che le cifre reali potrebbero essere cinque o dieci volte maggiori, i decessi su una scala decisamente più elevata si sarebbero notati sui social media o nei dati sulla mortalità. La censura cinese è forte ma non è onnipotente, come hanno dimostrato le testimonianza sugli abusi di Stato nello Xinjiang.

È senz’altro possibile che, alle prese con la pandemia, i cinesi l’anno scorso abbiano accantonato l’idea di avere dei figli. Ma quel che più conta è la trasformazione della società, con una crescente classe media che preferisce non avere figli o averne solo uno per non intaccare il benessere conquistato.

James Palmer ha fatto notare su Foreign Policy che il calo della popolazione riflette una realtà molto semplice: avere dei bambini in Cina è costoso e impegnativo, come accade in tutte le economie più sviluppate. Dopo la fine del periodo in cui vigeva la politica del figlio unico, sono stati i costi sociali ed economici di crescere dei bambini a trattenere le famiglie urbane della classe media dal farne altri, e non le regole della pianificazione familiare. Sempre su Foreign Policy, Rui Zhong racconta efficacemente come Chinese parents, un recente videogame, abbia catturato le angosce dell’essere genitori in Cina.

Oltretutto, molti cinesi devono prendersi cura dei genitori più anziani, il che non è facile per una generazione di figli unici, e devono affrontare lo stigma sociale che accompagna i genitori single (come riporta NPR, i figli di ragazze madri potrebbero vedersi negato l’accesso all’assistenza sanitaria e all’istruzione). Inoltre, i poveri devono affrontare ulteriori ostacoli: lo stress e la separazione dai bambini dovuta alla migrazione interna per trovare lavoro, la difficoltà di accedere all’istruzione o all’assistenza sanitaria nelle grandi città, l’impossibilità di comprare appartamenti (spesso un requisito sociale per il matrimonio), ecc.

La Cina non è un’economia sviluppata, perciò il suo basso tasso di natalità rappresenta un peso maggiore di quanto non sia per paesi come il Giappone e l’Italia. Nonostante la sua ampia economia, la Cina ha ancora un reddito pro capite sotto la media globale, e ciò rende più acuto il problema di sostenere una popolazione che sta invecchiando con una forza lavoro che si sta restringendo.

Il modello di crescita cinese è ancora labour-driven, e a differenza dei paesi europei o degli Stati Uniti, non può contare sui flussi migratori per bilanciare il calo delle nascite; e la svolta etno-nazionalista impressa dal presidente Xi Jinping rende improbabile che ciò possa accadere.

Inoltre, le autorità cinesi tengono molto a quella che definiscono la «qualità umana». Vogliono che siano le donne istruite che hanno fatto l’università, e non le contadine, ad avere dei figli. Infatti, le pressioni sulle donne affinché abbandonino la carriera per dedicarsi alla cura dei bambini sono aumentate, assieme, ovviamente, alle resistenze, in particolare delle femministe. Lo shock dei nuovi dati sulla popolazione è probabile che determini un salto verso politiche più nataliste. Il che potrebbe significare più risorse pubbliche da destinare all’assistenza sanitaria, alla cura dei bambini e all’istruzione.

Ma, come scrive James Palmer, l’apparato statale cinese è più incline alla repressione che alle riforme, ed è più probabile che finisca per adottare politiche per limitare l’aborto e costringere le donne ad uscire dal mercato del lavoro. Dopotutto, «Pechino ha già speso decenni a rivendicare la propria autorità sulla riproduzione delle donne e c’è un’estesa burocrazia che si occupa di pianificazione familiare che ha bisogno di fare qualcosa». Alessandro Maran

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