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Assemblea Onu, Guterres: “Come nel 1945” – Il Riformista, 25 settembre 2020

Aprendo, martedì scorso, la 75esima Assemblea generale delle Nazioni Unite (la prima assemblea “virtuale” della storia), il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, proprio nel giorno dedicato agli interventi (da remoto e pre-registrati) dei leader, ha definito la pandemia da coronavirus ed i suoi effetti “our own 1945 moment”, alludendo alle devastazioni della Seconda guerra mondiale.

Il segretario generale dell’Onu, ha anche denunciato l’emergere di una Guerra fredda tra Stati Uniti e Cina, dicendo: “Dobbiamo fare di tutto per evitare una nuova Guerra fredda. Ci stiamo muovendo in una direzione molto pericolosa, il mondo non può permettersi un futuro in cui le due maggiori economie dividono il globo in una Grande Frattura, ciascuna con le proprie regole commerciali e finanziarie, con le proprie capacità per quel che riguarda internet e l’intelligenza artificiale”. “Un divario tecnologico ed economico – ha precisato Guterres facendo riferimento a Stati Uniti e Cina – rischia inevitabilmente di trasformarsi in un divario geostrategico e militare. Dobbiamo evitarlo a tutti i costi”.

Trump ha risposto da par suo, con un attacco durissimo e quasi tutto centrato sulla Cina. Ma la geremiade del presidente americano (registrata alla Casa Bianca) conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, che Trump non ha una politica estera.

Trump si è scagliato contro la Cina e quanti criticano la sua politica ambientale che nega il cambiamento climatico, ha celebrato i suoi scarsi risultati diplomatici ed ha mentito a proposito del contrasto alla pandemia da parte degli Stati Uniti. Insomma, il suo discorso ha sintetizzato il modo in cui il presidente americano ha interpretato la politica estera del suo Paese: al servizio di obiettivi politici interni e personali, anziché sulla base della tradizionale valutazione dei più ampi interessi degli Stati Uniti.

Tutte le mosse di politica estera di Trump sono, infatti, dirette ad accrescere il suo peso politico all’interno degli Stati Uniti. Quando cercava un accordo commerciale con Pechino, Trump era il migliore amico del presidente cinese Xi Jinping, al punto da elogiarne ingiustificatamente la gestione della pandemia. Ma quando la sua stessa disastrosa gestione del virus ha rischiato di compromettere le sue possibilità di rielezione, Trump ha scelto la Cina come capro espiatorio, anche a costo di innescare una nuova Guerra fredda. Il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo nucleare con l’Iran ha contribuito di sicuro a distruggere l’eredità di Barack Obama, ma forse permetterà a Teheran di ottenere la bomba. Gli accordi di normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein mirano anche a compiacere gli evangelici negli Stati Uniti; e sebbene le smancerie con il leader nordcoreano Kim Jong Un non abbiamo contribuito a smantellare le sue testate, in compenso hanno prodotto grandi foto.

“Solo quando ti prenderai cura dei tuoi cittadini troverai una base reale per la cooperazione”, ha detto Trump all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, sintetizzando così il suo credo, quell’ “America First”, che ha ribaltato 80 anni di leadership globale degli Stati Uniti.

Se, tra sei settimane, dovesse perdere le elezioni, il suo discorso sarà ricordato come un attacco provocatorio di commiato. Ma se Joe Biden dovesse prendere il posto di Trump all’Onu l’anno prossimo, affronterà un mondo che è diventato molto scettico sulle capacità di tenuta dell’America e dei nemici che, vista l’assenza degli Stati Uniti, hanno colto la palla al balzo.

Anche stavolta il presidente cinese Xi Jinping ha approfittato della politica estera di Trump per accreditare il ruolo della Cina presso gli organismi internazionali. Anche stavolta il presidente cinese ha esortato il mondo a “unirsi per sostenere i valori della pace, dello sviluppo, dell’equità, della giustizia, della democrazia e della libertà condivisi da tutti noi”; e, come è accaduto in tutti i precedenti incontri internazionali di alto profilo, ha indossato i panni del paladino del libero scambio e del multilateralismo, in contrasto con l’America di Trump, sempre più isolazionista. Il conflitto tra Trump e Xi all’Onu non poteva essere più evidente, anche se, tra i due, il vero despota resta il leader cinese.

La retorica, infatti, non ha molto a che vedere con la realtà: nonostante i discorsi di Xi sul libero scambio (a Davos e all’Onu), l’accesso al mercato cinese rimane straordinariamente difficile per molte aziende straniere; e mentre il presidente cinese spende tante belle parole sulla pace mondiale, la Cina di Xi sta sviluppando in modo imponente le proprie forze armate e sta facendo mosse sempre più aggressive nel Mar Cinese meridionale, nello Stretto di Taiwan e lungo il confine himalayano con l’India. Inoltre, nonostante lo sforzo evidente per costruire consenso all’Onu, il leader cinese ha dimostrato di non essere disposto a tollerare a casa propria nient’altro che devozione assoluta. Da quando Trump è entrato in carica, Xi ha rafforzato il controllo del Partito comunista, che ora guida senza limiti temporali, e schiacciato tutte le forme di opposizione sia a Hong Kong e nello Xinjiang sia all’interno del Partito.

Trump può anche desiderare di chiudere a chiave i propri rivali, ma i limiti costituzionali al suo potere non gli permettono di farlo. Ed è forse per questo che, all’Onu, Xi si è permesso il lusso di indossare i panni dello statista, mentre Trump ha sentito il bisogno di andare all’attacco.

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