L’enorme esplosione di Beirut sembra sia stata un incidente. Ma non bisogna prendersela con il destino, sostengono molti degli osservatori internazionali che, non per caso, continuano a sottolineare l’inefficienza di una governance che si basa su una rigida ripartizione delle cariche pubbliche in base all’appartenenza etnico-religiosa e di un sistema politico dominato da partiti violenti e affaristi.
L’analista politico libanese Faysal Itani ha scritto sul New York Times che quel che è accaduto è un tragico riflesso dei problemi di lunga data del paese. Come ha riportato la CNN, il primo ministro Hassan Diab ha attribuito l’esplosione ad uno stock di 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio (per capirci, più di 1500 volte la quantità dello stesso composto usato da Timothy McVeigh nell’attentato dinamitardo di Oklahoma City del 1995), stoccato, dal 2014, in un magazzino portuale. Per l’appunto, Frida Ghitis ha scritto che a provocare l’esplosione sembra essere stata la «convergenza di pratiche ridicolmente sconsiderate e di una preoccupazione per la sicurezza del tutto assente».
«C’è una diffusa cultura del menefreghismo, della piccola corruzione e dello scaricabarile radicata nella burocrazia libanese, il tutto gestito da una classe politica caratterizzata dall’incompetenza e dal disprezzo per il bene pubblico», scrive Itani. «Non è chiaro quale combinazione di questi elementi abbia permesso che una bomba rimanesse in attesa in un magazzino per quasi sei anni… Ma la catastrofe, sebbene eccezionalmente grave, è frutto del business as usual». Il paese, come sottolinea Itani, ha una certa familiarità con le esplosioni. Si potrebbe stilare la cronologia delle esplosioni da quando l’ex primo ministro Rafik al-Hariri fu assassinato nel febbraio del 2005 da un’autobomba: nel gennaio 2018 una bomba ha ferito un membro del gruppo palestinese Hamas nella città di Sidone; nel giugno del 2016 una bomba è esplosa davanti alla sede della Lebanese Blom Bank nel centro di Beirut; nel novembre 2015 almeno 43 persone sono state uccise e più di 240 ferite in due attentati suicidi rivendicati dallo Stato islamico in un quartiere residenziale affollato nella periferia meridionale di Beirut, una roccaforte del gruppo musulmano sciita Hezbollah, dove, nel gennaio 2014, un’altra autobomba ha ucciso almeno cinque persone; nel giugno del 2014 un agente di sicurezza è stato ucciso da un attentatore suicida che ha fatto detonare un’autobomba vicino a un posto di blocco dell’esercito libanese a Beirut; nel dicembre del 2013 l’ex ministro libanese Mohamad Chatah, che si opponeva al presidente siriano Bashar al-Assad, è stato ucciso in una esplosione che uno dei suoi alleati politici ha attribuito alla milizia sciita di Hezbollah, e si potrebbe continuare. Ma il paese, scrive Itani, «ha altrettanta familiarità con i disastri causati dai fallimenti dei servizi pubblici: una emergenza rifiuti che risale al 2015, una catastrofe ambientale nel 2019 (che ha devastato il Libano con numerosi incendi) e blackout che quest’anno durano anche 20 ore al giorno».
Il guaio è che, dopo l’esplosione al porto, le cose potrebbero peggiorare. Di recente, Steven A.Cook ha scritto su Foreign Policy che l’economia del paese quest’anno è crollata, sostenendo che una svalutazione dell’85% della valuta è stata solo l’ultima avvisaglia del fatto che il sistema politico del Libano (in cui il potere è condiviso tra sunniti, sciiti e cristiani) è più incline al clientelismo e all’inefficienza che alle riforme. E su Bloomberg, Hussain Ibish ricorda che un tribunale delle Nazioni Unite sull’assassinio del 2005 dell’ex primo ministro Rafik Hariri dovrebbe emettere una sentenza su quattro sospetti legati a Hezbollah, la milizia iraniana che da tempo controlla parti del paese e si è trasformata in un partito politico. La lettura del verdetto è stata rinviata al 18 agosto. Ma la decisione incombe da anni sul paese. «Un verdetto di colpevolezza aumenterebbe la pressione interna su Hezbollah, sui suoi alleati e sul governo», scrive Ibish. «Quando i libanesi avranno finito di piangere i loro morti, tornerà la rabbia, quella rabbia che ha alimentato le massicce manifestazioni di strada che hanno fatto cadere il predecessore di Diab lo scorso ottobre».
Sul New Yorker, Robin Wright suggerisce che l’esplosione potrebbe segnare infatti «la fine del Libano moderno come lo conosciamo. I segni tangibili sono dovunque: una volta celebre per la sua vivace vita notturna e la ricchezza culturale, recentemente Beirut è rimasta senza elettricità per più di 20 ore al giorno. I tentativi di soccorso sono stati ostacolati dalle interruzioni di energia. L’immondizia fetida si allinea sulle strade e riempie gli spazi aperti, a causa dei litigi tra le fazioni politiche su quale dei loro alleati dovrebbe ottenere il contratto per raccoglierla. L’acqua potabile scarseggia spesso». C’è tuttavia chi continua a sperare. Rami Khouri della American University di Beirut ha detto a Wright che l’attuale picco negativo finirà per imporre il cambiamento, che i cittadini, che ormai non ne possono più, sfratteranno le élite dal potere e che questa «non è la fine del Libano. È l’inizio di un Libano differente».
È probabile che malgrado siano stremati, i libanesi manifesteranno di nuovo contro la mafia politica, possibilmente in numero ancora maggiore, per esigere responsabilità. È probabile che qualche testa finirà per rotolare e che alcuni funzionari dovranno dimettersi. Ma un cambiamento più significativo e duraturo è davvero possibile? Molto dipenderà dagli aiuti che la comunità internazionale (a cominciare dall’Europa) metterà in campo. Conte ha assicurato «l’incondizionato sostegno italiano alle autorità e al popolo libanesi». Ma l’impegno umanitario stavolta non basta, non basteranno ospedali da campo e vigili del fuoco. «Questa esplosione deve diventare l’inizio di una nuova era. Sono qui anche per lanciare una nuova iniziativa politica. Questo è ciò che dirò questo pomeriggio ai leader e alle forze libanesi», ha annunciato Macron nel suo blitz in Libano dopo il dramma, rivolgendosi alla gente, precisando che chiederà «di attuare riforme per cambiare il sistema, per fermare la divisione del Libano, per combattere la corruzione». Ma per riuscirci, dobbiamo tenere a bada, per un momento, la nostra preoccupazione ossessiva dei migranti per guardare a quest’ultima tragedia, e alla sponda sud del Mediteranno nel suo complesso, in un’ottica strategica. Non sarà facile.
Alessandro Maran