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«Il coronavirus e il modello Kerala» – Il Foglio, 26 aprile 2020

La pandemia potrebbe avere un impatto durissimo nei paesi in via di sviluppo. Ecco cosa possiamo imparare dall’approccio “rapido e assennato” dello stato indiano

Non che, in genere, la cosa da queste parti (e di questi tempi) ci importi granché, ma la pandemia potrebbe avere un impatto durissimo nei paesi in via di sviluppo. I paesi al centro della pandemia globale (Cina, Italia, Spagna, Stati Uniti, Regno Unito e i paesi sviluppati dell’Asia orientale come la Corea del Sud, Singapore e il Giappone), sono tutti (chi più, chi meno) sufficientemente attrezzati per affrontare il contagio, ma nel mondo in via di sviluppo si profila una catastrofe.

Ovviamente, in quei paesi, la carenza di attrezzature, registrata perfino negli Stati Uniti, sarà incomparabilmente peggiore, e con centinaia di migliaia di casi riscontrati in posti come l’India, il Brasile, il Venezuela e la Nigeria, il disastro è annunciato. La mancanza di accesso all’acqua potabile, l’alta densità demografica e la coabitazione familiare potrebbero, ovviamente, contribuire alla diffusione virale; senza contare che quei paesi, che ora saranno alle prese con il distanziamento sociale e il tracciamento dei contatti, hanno anche i sistemi sanitari più compromessi e le economie più precarie. “Una grave epidemia di Covid-19 in ognuno di questi paesi, potrebbe condurre ad un numero incalcolabile di morti”, hanno scritto infatti Robert Malley e Richard Malley in un saggio su Foreign Affairs. Gli Stati Uniti “hanno approssimativamente 33 letti di terapia intensiva ogni 100.000 persone. Il numero si riduce a circa due posti India, Pakistan e Bangladesh. Nell’Africa sub-sahariana la situazione è ancora più terribile: lo Zambia ha 0.6 posti di terapia intensiva ogni 100.000 abitanti; il Gambia ne ha 0.4e l’Uganda 0,1”.

Eppure, chi fosse alla ricerca di esempi positivi, di successo, nella lotta al Covid-19, dovrebbe soffermarsi ad analizzare la risposta dello stato indiano del Kerala, che è stato il primo a cimentarsi con un caso importato di Covid-19. I funzionari hanno agito in modo rapido ed efficiente, come ha riportato perfino il Washington Post, e i pazienti sono stati dimessi all’inizio di aprile. Negli anni scorsi, in Italia si è molto parlato del Kerala, lo stato dell’India meridionale che occupa una striscia della costa sud-occidentale del paese. Proprio al largo del Kerala è avvenuto l’incidente in mare del 15 febbraio 2012 che ha coinvolto i militari italiani Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, in missione su una petroliera battente bandiera italiana, accusati di aver ucciso due pescatori locali – accusa che i due italiani hanno sempre respinto.

Lo stato indiano (nel quale i comunisti sono stati al potere per più di trentanni in diversi governi dagli anni 50) ha investito massicciamente nellistruzione e nellassistenza sanitaria universale. Il Kerala è infatti lo stato indiano con il più elevato tasso di alfabetizzazione (il 94% della popolazione), gode del sistema sanitario pubblico più efficiente del paese ed ha una stampa vivace. Mentre altrove nel paese, la gente prendeva per oro colato le voci che si rincorrevano su WhatsApp (diffondendo, ad esempio, messaggi che sostenevano che l’esposizione al sole li avrebbe protetti dal virus), gli abitanti del Kerala, come ha scritto Sonia Faleiro sulla MIT Technology Review, hanno preso il virus sul serio. E come racconta la scrittrice, la storia a lieto fine ha anche un eroe: un funzionario distrettuale di 40 anni, Nooh Pullichalil Bava (che in precedenza aveva guidato i soccorsi durante le devastanti inondazioni del 2018: allora gli ammiratori gli avevano dedicato una fan page su Facebook chiamata “Nooh Bro’s Ark”), che lavora per il ministero della sanità del Kerala, guidato da KK Shailaja, che i media hanno soprannominato la “Sterminatrice di Coronavirus”.

Quando una famiglia è tornata in Kerala dall’Italia (sì, dall’Italia) alla fine di febbraio ed è risultata positiva al test, di fronte alla riluttanza dei componenti del gruppo familiare a condividere le informazioni sui loro spostamenti, Nooh non si è scoraggiato, “ha coinvolto 50 tra agenti di polizia, paramedici e volontari, e li ha divisi in squadre. Poi li ha mandati a ripercorrere i movimenti della famiglia in quella settimana cruciale…utilizzando i dati GPS estratti dai telefoni cellulari della famiglia e i filmati di sorveglianza presi all’aeroporto, per strada e nei negozi”. Per garantire il rispetto della quarantena, Nooh ha creato un call center nel suo ufficio, reclutando più di 60 studenti di medicina e personale del dipartimento sanitario del distretto il cui compito era quello di chiamare tutte le persone poste in isolamento, ogni giorno. In contrasto con il governo nazionale, documenta Faleiro, l’approccio del Kerala è stato “rapido e assennato”. Del Kerala, appunto.

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