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«Isolazionisti o poliziotti del mondo? Il pendolo su cui oscilla (da sempre) la politica estera degli Stati Uniti» – Linkiesta, 21 febbraio 2020

Washington sta mettendo in discussione il ruolo globale di un tempo. Ma la sua storia è fatta di presidenti “retrencher” contro “massimalisti” e tentativi di stabilire una nuova linea di condotta. Fare troppo è sempre stato seguito dal fare troppo poco, e viceversa

«Le nazioni in ascesa sognano in grande – scrive Gideon Rose nell’introduzione al nuovo numero di Foreign Affairs – e osano in modo grandioso, vedono il fallimento come una sfida da superare. Ma lo stesso processo funziona anche al contrario: le nazioni in fase calante ridimensionano le loro ambizioni, tagliano le spese e vedono il fallimento come un presagio a cui dare ascolto». Trump è quello che è («Non ha una politica estera. Ha una serie di impulsi – isolazionismo, unilateralismo, bellicosità – alcuni dei quali contraddittori», ha scritto Fareed Zakaria), ma quel che davvero conta è che gli Stati Uniti stanno mettendo in discussione il ruolo globale di un tempo: «L’impero che Washington ha acquisito distrattamente nei tempi di vacche grasse ora sembra costare più di quanto valga e molti vogliono liberarsi del fardello» (quel che ciò potrebbe comportare è appunto l’argomento dell’ultimo numero della rivista, intitolata, non per caso, Come Home, America?).
C’è chi ritiene che nel complesso, le alleanze, le garanzie di sicurezza e la leadership economica internazionale dell’America abbiano rappresentato un successo enorme; che sia ragionevole sfoltire gli impegni, ma che non abbia alcun senso abbandonare il ruolo globale fondamentale di Washington. All’opposto, c’è chi ritiene che sia proprio l’idea del primato americano che debba esalare l’ultimo respiro e che, invece di vigilare sul mondo con continui interventi militari, Washington dovrebbe ritirarsi da buona parte del Medio Oriente, mettere un freno alla war on terror, fare affidamento sulla diplomazia anziché sulla forza e concentrare la sua attenzione nel cercare di indirizzare l’economia globale «verso pascoli più equi e più verdi».

Del resto, a ben guardare, il ruolo internazionale degli Stati Uniti non ha mai riflettuto, come a molti piace pensare, unità bipartisan, continuità strategica nelle policy e una particolare capacità di lavorare assieme agli altri. In un bel libro di qualche anno fa, Maximalist. America in the World From Truman to Obama, Stephen Sestanovich (un ex diplomatico americano) ha raccontato una storia diversa, fatta di amministrazioni discordi, divise al loro interno, di decisioni laceranti, di scontri con amici e alleati e di regolari tentativi di stabilire una nuova linea di condotta. Fare troppo è sempre stato seguito dal fare troppo poco, e viceversa. Quando gli Stati Uniti si sono affermati nel mondo, lo hanno fatto non seguendo la stessa rotta ma, al contrario, cercando di cambiare orientamento, il più delle volte tra grandi controversie e grande incertezza. E perfino quelli che, a posteriori, oggi ci appaiono indubbiamente come grandi successi, allora non erano vissuti in questo modo.

Fino agli ultimi anni della Guerra Fredda, alla fine del suo mandato ogni presidente era criticato per gli esiti della sua politica estera (qualcuno fu praticamente cacciato); e ogni nuovo inquilino della Casa Bianca pensava che il mondo fosse cambiato in qualche aspetto fondamentale che il suo predecessore non era stato in grado di comprendere o che non era riuscito a gestire efficacemente. Insomma, la storia della politica estera americana non è fatta di armonia, continuità e linearità, ma di sforzi regolari, ripetuti e riusciti di cambiare rotta, in genere in risposta a due errori di tipo diverso. Il primo è il tipo di abbaglio di solito associato, durante la Guerra fredda, alla parola «crisi»: una qualche nuova sfida che suscitava grave apprensione, faceva crescere la prospettiva di una ripercussione dannosa e richiedeva una risposta urgente.

Nell’elenco di queste crisi ci sono l’imminente collasso economico dell’Europa nell’inverno del 1947, l’attacco della Corea del Nord al Sud nel 1950, il lancio dello Sputnik nel 1957, la minaccia di Nikita Khrushchev di strangolare Berlino Ovest nel 1961, la crisi cubana dei missili un anno dopo, l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979, la legge marziale in Polonia nel 1981, l’occupazione del Kuwait da parte dell’Iraq nel 1990, le uccisioni di massa nei Balcani più tardi nello stesso decennio e, ovviamente, gli attacchi dell’11 settembre del 2001. In questi momenti, nei frenetici dibattiti sul da farsi, i policy maker americani di solito finivano per concludere che una risposta massiccia era l’unico modo per allontanare la minaccia e i problemi ancora più gravi che si celavano dietro a essa.

Gli Stati Uniti avrebbero dovuto sviluppare nuove idee, generare nuove risorse, assumere nuovi impegni, scuotere lo status quo. I leader americani avevano di solito una sola risposta a questi problemi: fare di più. Vale a dire pensare in grande e spingere il pedale dell’acceleratore. I presidenti «massimalisti», ovviamente avevano ascoltato dai loro consiglieri che gli Stati Uniti stavano reagendo oltre misura, che la crisi rifletteva condizioni locali e non una sfida globale, o che fare troppo poteva peggiorare la situazione e perfino danneggiare gli interessi americani. Ma il più delle volte finivano per respingere i consigli più equilibrati. Quel che volevano (e Truman, Kennedy e Reagan sono gli esempi più ovvi) era adottare una marea di contromisure. Ovviamente, la politica massimalista non implicava necessariamente azioni spericolate o irragionevoli, e le risposte più estreme generalmente venivano scartate. Ma qualunque idea accettabile su come rispondere ai colpi dell’avversario con altri colpi trovava orecchie molto attente.

Troviamo un modello molto diverso, invece, quando guardiamo ai presidenti che hanno reagito a un secondo tipo di errore: quello di prendersi troppi impegni. In questo secondo caso, Eisenhower e Nixon sono gli esempi classici. Entrambi furono presidenti della Guerra Fredda con la responsabilità di porre termine a guerre ormai senza vie d’uscita a un costo sopportabile. Il loro compito era quello di tirarsi fuori da una situazione intricata (in parole povere, da un disastro) e mettere la politica americana su basi più sostenibili. Cercarono di calmare un’opinione pubblica arrabbiata, trasferire responsabilità ad amici ed alleati, esplorare intese con avversari, restringere gli impegni e ridurre i costi. Hanno anche dovuto fronteggiare dissensi nei loro ranghi: consiglieri convinti che la posizione globale degli Stati Uniti non avrebbe potuto sopravvivere a nessuna marcia indietro non sono mai mancati.

Ma il motto dei presidenti americani del retrenchment era l’opposto di quello adottato dai «massimalisti»: fare meno, sostenevano, non di più. Cioè, pensare più a fondo, non più in grande. Premere il freno non l’acceleratore. Del resto, prima che Trump comparisse all’orizzonte, era stato Obama ad annunciare che «il nation building di lungo periodo» e «ampie operazioni militari» non sarebbero più stati strumenti della politica americana.

Naturalmente, le strategie del “massimalismo” e del retrenchment hanno una relazione ciclica una con l’altra. In genere, quando il “massimalista” si spinge troppo oltre, il “retrencher” si fa avanti per raccogliere i cocci. Poi quando il “retrencher” non riesce a ricostruire il potere americano, ad affrontare le nuove sfide, o a competere efficacemente, il “massimalista” ricompare, pronto a farlo con formule ambiziose. È probabile che succeda ancora. A meno che per l’America, alle prese con il mutamento dei mercati energetici e con i costi umani e finanziari di guerre «effettivamente interminabili», non sia venuto davvero, come si chiede Gideon Rose, il momento di tornare a casa.

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