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«W LE LARGHE INTESE» – Il Foglio, 10 gennaio 2018

Eric J. Hobsbawm ha coniato la definizione di «Lungo Ottocento» («Long 19th Century») per il periodo che si è esteso – almeno sul piano della storiografia – tra l’anno 1789 e l’anno 1914. Analogamente, la «lunga legislatura» che sta per concludersi ha inizio idealmente nell’estate in cui gli italiani scoprirono l’esistenza dello spread. Quel che accadde allora è tutto nelle cronache dei giornali dell’epoca: dall’esplosione della crisi del debito al rischio di declassamento dell’Italia, dalla celebre lettera della Ue che impose al Paese la cura da cavallo anticrisi al precipitare della situazione, culminato con le dimissioni del Cavaliere e la nascita del governo Monti (che ottenne, giova ricordare, la fiducia al Senato il 17 novembre 2011 con 281 favorevoli, 25 contrari e nessun astenuto; e alla Camera il 18 novembre 2011 con 556 voti favorevoli, 61 contrari e nessun astenuto). È da allora che l’Italia vive di «larghe intese», palesi o nascoste. Infatti, il vero cambiamento che ha contraddistinto la politica Italiana nel periodo che va dalla nascita del governo Monti ai nostri giorni è proprio il passaggio dai governi di coalizione tra partiti che hanno un simile orientamento ideologico alle «larghe intese».

Allora, con quello che diventerà «un gouvernement de professeurs» perché i partiti preferiranno lasciare ai «tecnici» la responsabilità delle misure impopolari, decolla la «grande coalizione» che va da Forza Italia al Pd passando per le formazioni centriste. Che il governo Monti sia un governo di tecnici è, infatti, un aspetto secondario. Il dato fondamentale sta nel fatto che si tratta di un «governo di tregua» (di un «governo di impegno nazionale», come lo definì il neo-premier Monti) sostenuto da tutte le principali forze politiche. In quel momento, comincia a farsi strada la consapevolezza che di fronte alle prove molto dure che l’Italia deve affrontare nel quadro della crisi che ha investito l’Europa, occorre una coesione sociale e nazionale straordinaria; che, per dirla con Napolitano, «l’Italia non può ritrovare la propria strada in un clima di guerra politica» e che «è indispensabile un riavvicinamento tra i campi politici contrapposti, il che non significa confondersi, non significa rinunciare alle rispettive identità, ma significa condividere gli sforzi che sono indispensabili per riaprire all’Italia una prospettiva di sviluppo».

Inizia allora, con il governo Monti e la sua «strana» maggioranza, una collaborazione tra diversi che si fonda sulla consapevolezza della gravità della crisi. Ed entrambe (sia la crisi che la collaborazione necessaria) saranno destinate a durare nel tempo. Di più: da allora, riforme strutturali e riforme istituzionali tracciano il campo da gioco. Fin dall’inizio, si stabilisce che il governo Monti avrebbe cercato di mettere il bilancio pubblico su una dinamica sostenibile e di rianimare la capacità di crescita attraverso incisive riforme strutturali, mentre i partiti avrebbero affrontato il nodo delle riforme elettorali e istituzionali, poiché esiste, si sa, una connessione tra la debolezza delle istituzioni ed il declino economico. Ma non se ne fa nulla perché i limiti culturali e i tabù ideologici della vecchia sinistra hanno il sopravvento. Berlusconi propone a Bersani il sistema francese (e una concessione reciproca: doppio turno di collegio accompagnato dall’elezione diretta del presidente) e Bersani (complice anche l’ostilità di Napolitano) dice di no. Nelle aule parlamentari e in una lettera sul Corriere della Sera («Bersani apra a doppio turno e semipresidenzialismo», 18 settembre 2012) la pattuglia dei riformisti Dem sollecita Bersani ad accettare lo scambio ma l’ala destra del partito viene «silenziata» (dei firmatari verranno ricandidati solo Gentiloni, grazie a Renzi, e Tonini, grazie ai collegi elettorali del Trentino). Inoltre, in vista delle elezioni, il Pd di Bersani e Fassina si affretta a virare a sinistra e, preda una deriva identitaria che lo riporta nel recinto della sinistra tradizionale, sceglie di respingere con disgusto gli elettori del centrodestra delusi da Berlusconi (a Matteo Renzi che li aveva esortati a partecipare alle primarie fu risposto che si trattava di infiltrati che avrebbero snaturato i valori della sinistra); sceglie di restare nel perimetro del blocco sociale della Cgil e di compensare questa sua inferiorità sul piano sociale con una (supposta) superiorità «morale»; sceglie di combattere dall’opposizione la campagna elettorale, dopo aver sostenuto per un anno il governo Monti. Le cose vanno come devono andare. Col risultato che nemmeno con una coalizione di destra fortemente indebolita, questa sinistra riesce a vincere. Il Pd conquista la maggioranza assoluta per il rotto della cuffia alla Camera ma non al Senato; il Movimento Cinque Stelle fa il pieno, riesce la rimonta (irresistibile) di Berlusconi, la formazione di Monti in termini di seggi non è decisiva. Insomma, l’Italia è ingovernabile e la situazione politica nel caos. E dopo l’incontro streaming tra Bersani, Crimi e Lombardi si torna daccapo alle larghe intese. Il 28 marzo 2013 il presidente della Repubblica annuncia di voler cercare soluzioni alternative per la formazione di un nuovo governo visto che Pier Luigi Bersani non è riuscito a trovare la maggioranza stabile richiesta al Senato. E si riparte dalle riforme: il 30 marzo 2013 il presidente della Repubblica forma due gruppi di lavoro per i contatti con i gruppi parlamentari: il primo di tipo istituzionale, formato da Valerio Onida, Mario Mauro, Gaetano Quagliariello e Luciano Violante; il secondo per la materia economico-sociale ed europea, formato da Salvatore Rossi, Giovanni Pitruzzella, Enrico Giovannini, Giancarlo Giorgetti, Filippo Bubbico e dal ministro del governo Monti Enzo Moavero Milanesi.

Nella grave situazione venutasi a determinare col succedersi delle votazioni per l’elezione del Capo dello Stato, il 20 aprile viene richiesta da un ampio schieramento parlamentare la disponibilità di Napolitano a essere rieletto. Il presidente uscente accetta la ricandidatura e viene eletto alla sesta votazione. «Auspico fortemente che tutti sapranno onorare i loro doveri concorrendo al rafforzamento delle istituzioni repubblicane» sono state le prime parole di Giorgio Napolitano dopo la rielezione; e ai partiti chiede di trovare la forza di dare il loro «apporto alle decisioni da prendere per il rinnovamento del Paese. Senza temere di convergere», poiché «i risultati complessivi delle elezioni indicano tassativamente la necessità di intese tra forze diverse per far nascere e per far vivere un governo oggi in Italia, non trascurando, su un altro piano, la esigenza di intese più ampie per problemi di comune responsabilità istituzionale». Si riparte da lì. Napolitano affida l’incarico di formare un «governo di larghe intese» a Enrico Letta il 24 aprile in quanto «sola prospettiva possibile, quella cioè di una larga convergenza tra le forze politiche che possono assicurare al governo la maggioranza in entrambe le camere». Letta si dimette il 14 febbraio 2014, il giorno dopo che la Direzione nazionale del Partito democratico aveva rilevato «la necessità e l’urgenza di aprire una fase nuova, con un nuovo esecutivo». Nel frattempo (il 18 gennaio 2014), Renzi aveva accolto Silvio Berlusconi nella sede del Pd in largo del Nazareno per discutere di riforme e legge elettorale: i leader di Pd e Forza Italia siglano il «patto del Nazareno».

Matteo Renzi riceve l’incarico di formare un nuovo Governo dal presidente della Repubblica il 17 febbraio 2014. Chiedendo la fiducia per il suo governo al Senato, in quel 24 febbraio di quasi quattro anni fa, Renzi disse testualmente: «Comunico fin dall’inizio che vorrei essere l’ultimo presidente del Consiglio a chiedere la fiducia a quest’Aula (…). Noi oggi non immaginiamo di essere gli ultimi a chiedervi la fiducia perché abbiamo un pregiudizio su di voi, ma perché abbiamo un giudizio organico sull’Italia (…)». Nel suo discorso, Renzi sfida il protocollo dell’Aula con un atteggiamento informale e persino sfrontato: parla con una mano in tasca e con la giacca sbottonata ad arte. Tra il giovane premier e gli italiani si accende una passione travolgente: alle europee del 25 maggio il Pd stravince con una percentuale mai raggiunta dalla sinistra: 40,8 per cento. Renzi risponde facendo approvare dalle Camere il divorzio breve, il decreto “Sblocca Italia” per velocizzare le opere pubbliche e nasce la riforma costituzionale progettata dal ministro Maria Elena Boschi.

Poi vengono gli errori. Aumentano gli screzi con l’Europa e il 31 gennaio 2015 Renzi ignora il veto di Berlusconi: Sergio Mattarella viene eletto presidente della Repubblica. Si chiude il patto con l’ex Cavaliere. «C’est pire qu’un crime, c’est une faute», direbbe Joseph Fouché; un errore che condanna la riforma costituzionale al fallimento. Dopo quasi mille giorni di governo, a quattro anni dalla discesa sul campo della politica nazionale, Matteo Renzi perde il referendum costituzionale e lascia la guida del governo. «Non sono come gli altri, non resto per la poltrona», rivendica, nell’annunciare il passo indietro, il «rottamatore» che aveva lanciato la scalata al Pd partendo dalla poltrona di presidente della Provincia di Firenze, prima, e di sindaco della città subito dopo.

Paolo Gentiloni riceve l’incarico di formare un nuovo governo quattro giorni dopo le dimissioni di Renzi. Il suo governo ottiene la fiducia alla Camera dei deputati il 13 dicembre 2016 ed il giorno seguente ottiene quella del Senato. Doveva rimanere in sella pochissimo, appena il tempo per indire le elezioni, ma in Italia, si sa, niente è più duraturo di una situazione provvisoria. Gentiloni governa scegliendo di non apparire, eppure la sua popolarità cresce nei sondaggi e il suo governo porta a termine la legislatura e resta in vita anche a Camere sciolte. Ottantacinque leggi approvate, quasi una ogni quattro giorni (lo stesso ritmo dell’esecutivo Renzi): tagliano il traguardo importanti provvedimenti di iniziativa parlamentare (la riforma elettorale e l’introduzione nell’ordinamento italiano del reato di tortura) e provvedimenti rilevanti di iniziativa del governo (dalla manovrina della scorsa primavera e dal decreto legge fiscale collegato alla manovra 2018 al decreto Sud e ai tre decreti salva banche e risparmiatori); ottiene il via libera, dopo un lungo travaglio, anche il disegno di legge annuale sulla concorrenza (presentato dal Governo Renzi nel 2015) e la riforma del processo penale, con la delega al riordino della disciplina delle intercettazioni.

Dalla brutta botta di quel 4 dicembre Renzi (ed il Pd) non si sono ancora ripresi. Anche perché quell’evento traumatico ha un significato particolarmente difficile da elaborare. Dal crollo della Prima Repubblica, consentire ai cittadini di scegliere col voto un leader e la sua maggioranza, è stata, infatti, la fonte principale di forza e di legittimazione di tutta la strategia riformista sul tema della forma di governo e delle leggi elettorali. Ora investitura diretta di leader e programma di governo ce li siamo giocati col referendum e gli interventi della Corte costituzionale, ma toccherà ripartire da lì, se vogliamo evitare che la politica italiana torni nella palude in cui era impantanata all’inizio della legislatura.

Renzi ci avrà messo del suo, ma, a ben guardare, non è tutta colpa di Renzi. E’ l’ottavo tentativo di riforma che fallisce. Perché? Perché, come ha spiegato Giovanni Sartori, «la costruzione di un sistema di premiership sfugge largamente alla presa dell’ingegneria costituzionale. Le varianti britannica o tedesca di parlamentarismo limitato (di semi-parlamentarismo) funzionano come funzionano soltanto per la presenza di condizioni favorevoli»; e come abbiamo visto, «un passaggio “incrementale”, a piccoli passi, dal parlamentarismo puro al parlamentarismo con premiership rischia di inciampare ad ogni passo». Non per caso, Sartori riteneva che «in questi casi la strategia preferibile non è quella del gradualismo, ma piuttosto una terapia d’urto. Insomma, le probabilità di riuscita sono minori nella direzione del semi-parlamentarismo, e maggiori se si salta al semi-presidenzialismo». Dal giorno dopo le elezioni politiche del 2018 si dovrà ripartire da li, provando a realizzare da subito la riforma istituzionale per introdurre anche in Italia il semipresidenzialismo alla francese. Infatti, non diversamente dalla crisi europea, la crisi italiana è stata e continua ad essere, per dirla con Sergio Fabbrini, «la conseguenza dell’intreccio tra grandi cambiamenti e piccole istituzioni»; e l’Italia non potrà ritornare a crescere senza un sistema decisionale riformato; senza cioè mettere mano finalmente ad un sistema istituzionale slabbrato e farraginoso.

Ora che Renzi non piace più (tutta colpa dello storytelling, si dice) ed è accusato di ogni sorta di nefandezza, bisogna riconoscere che ha saputo rianimare una legislatura che sembrava finita in un vicolo cieco. I governi Renzi e Gentiloni ci hanno regalato quattro anni di attività frenetica (in armonia con l’obiettivo fondamentale dell’integrazione europea) in cui molte cose sono cambiate in meglio: la riforma del lavoro, il reddito di inclusione, la riforma delle banche popolari, la responsabilizzazione dei dirigenti degli istituti scolastici, la riscrittura integrale del diritto fallimentare, il divorzio breve, le unioni civili, il biotestamento, si sono gettate le basi di una politica europea sull’immigrazione e parecchio altro ancora. Senza contare che, se l’Italia non avesse avviato in modo credibile un progressivo allineamento dei propri conti pubblici e del proprio sistema di welfare con quelli dei paesi più virtuosi, Mario Draghi non avrebbe mai potuto impegnare la Bce (vale a dire, i soldi di tutti gli europei) nelle misure espansive che hanno dato ossigeno alla nostra economia. In altre parole: senza le leggi Fornero e il Jobs Act oggi non potrebbe esserci il Quantitative Easing di Draghi.

Renzi, inoltre, ha costretto la sinistra a fare i conti con i suoi limiti e la salutare «trasformazione genetica” della sinistra (secondo Claudio Cerasa «una delle notizie politiche più importanti di questa legislatura») passa per una data simbolica. Il 7 marzo 2015 con l’entrata in vigore dei primi due decreti attuativi del Jobs Act, il nostro diritto del lavoro ha compiuto una svolta di portata probabilmente più grande di quella compiuta nel 1970 con l’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori. «L’ordinamento italiano – sottolinea Pietro Ichino – cambia il proprio paradigma fondamentale: non soltanto sostituisce drasticamente la property rule che ha costituito fino ad allora la chiave di volta del sistema, ovvero la regola della reintegrazione nel posto di lavoro, con la liability rule, cioè con la regola che limita la responsabilità contrattuale dell’imprenditore a un indennizzo di entità allineata rispetto agli standard prevalenti nel continente; ma manifesta anche, in modo inequivoco, l’intendimento di garantire la certezza per l’impresa dell’entità del costo di separazione così predeterminato». Si passa cioè ad un apparato sanzionatorio «la cui ratio fondamentale è quella di garantire il più possibile la prevedibilità e al tempo stesso il contenimento del costo di separazione» (quando riguarda vicende fisiologiche come l’aggiustamento degli organici, il mutamento tecnologico, il mutamento organizzativo, ecc.); e la protezione della sicurezza del lavoratore si sposta dal rapporto al mercato del lavoro (con un sistema di sostegno al reddito universale, allineato ai migliori standard europei, e con un assetto profondamente rinnovato dei servizi per l’impiego). Una piccola rivoluzione culturale che uniforma l’Italia ai paesi dell’Europa centrosettentrionale, dove la normalità non è la lite, ma l’accordo (facile) tra le parti. Che oggi la sinistra si divida con asprezza su norme che hanno prodotto, anche per gli incentivi fiscali collegati, un’ondata di assunzioni, la dice lunghissima sulla battaglia che si combatte da quelle parti. Ma tra qualche anno nessuno più a sinistra proporrà di tornare indietro per ripristinare la job property. E’ accaduto con il part-time, con la scala mobile, con il monopolio statale del collocamento, con il lavoro temporaneo tramite agenzia, con il decentramento contrattale. Su tutti questi capitoli l’Italia si è allineata ai maggiori partner europei con un ritardo di vent’anni. Erano sempre in gioco la «dignità» e i «diritti fondamentali dei lavoratori», ricorda Ichino, eppure dopo qualche anno non c’era più nessuno che proponesse di tornare indietro.

Il percorso imboccato da Renzi e dalla sinistra italiana non è più reversibile. La sinistra di «prima del 2013» è finita per sempre. Le primarie del 2013 sono la conclusione vera del Congresso di Rimini del 1991. Certo, l’ascesa dei populisti ha complicato le cose e non solo in termini aritmetici; ha alterato in modo determinante il gioco politico: è riuscita a screditare il compromesso come valore fondamentale della democrazia. Perfino in Germania, dove la ricerca del compromesso era considerata una «virtù politica» (contro una visione politica come contrapposizione «amico-nemico» secondo la famigerata formulazione di Carl Schmitt che ha intossicato la Repubblica di Weimar fino a causarne la fine), l’accordo è diventato «inciucio». Ma a quattro anni dall’arrivo di Renzi alla guida del Pd, c’è un’altra sinistra, una sinistra moderna, non giustizialista, non anti-mercatista; e la ricetta per il Paese resta ancora quella delle «riforme, riforme, riforme», sia nel senso di nuovi interventi da mettere in cantiere (produttività, ha ricordato Francesco Giavazzi, in Italia vuol dire comprimere lo spazio occupato da imprese che sono poco produttive perché controllate dalla politica, come le municipalizzate, o perché protette dalla concorrenza, o perché troppo piccole e non inserite in filiera), sia nell’ottica dell’attuazione piena di quelli già approvati. Il che presuppone una nuova collaborazione tra diversi: il ritorno alle larghe intese.

Renzi, insomma, ha avuto il merito indiscutibile di tagliare il cordone ombelicale con il cattolicesimo democratico e con le ambiguità del postcomunismo. Di più: l’ex sindaco di Firenze ha ripreso quasi tutte le idee-chiave della sinistra liberale e con queste idee ha sfidato la maggioranza del Pd. Il vero senso politico della rottamazione è stato questo, molto oltre le questioni anagrafiche (il rischio per il Pd, come per i Dem americani, semmai, è ora quello diventare vittima della politica dell’identità. Come ci ricorda Mark Lilla, quando la politica dell’identità prende il sopravvento, lo fa a discapito della politica di governo: le lotte per i diritti sono parte integrante della vita democratica, e nessuna democrazia può vivere senza diritti, ma allo stesso tempo nessuna democrazia può vivere soltanto di diritti).

Non sappiamo che fine farà Renzi, se riconquisterà il trono o se sarà esiliato a Sant’Elena. Ma a modo suo, Renzi ricorda un pò il Napoleone che porta in tutta Europa, con le sue incessanti guerre, le grandi idee della Rivoluzione. Dopo di lui, anche gli Stati che, con il Congresso di Vienna, ristabilirono l’equilibrio europeo precedente alla «tempesta» napoleonica, finirono per confermare buona parte delle innovazioni introdotte dall’imperatore deposto. Semplicemente perché, così, lo Stato funzionava; e funzionava meglio. È il segreto di Pulcinella della politica italiana. Come le larghe intese.

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