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In discussione non è l’istituto del referendum, ma “un modo curioso di procedere”

Un lettore ha scritto a Pietro Ichino a proposito di Europa, Regioni e referendum autonomistici e, in riferimento ad un mio recente articolo (Referendum lombardo-veneto sull’autonomia e la questione del federalismo), lamenta l’insofferenza dei politici italiani per l’istituzione referendaria e la giustificazione (storica) delle Regioni a statuto speciale. Ichino ha pubblicato sul suo sito la lettera e la mia risposta. Faccio altrettanto.

LA LETTERA

Caro Ichino, sono d’accordo con la conclusione del suo editoriale sul conflitto fra Catalogna e Spagna: “La salvezza, per tutti, sta nella costruzione della nuova Europa”. Ma di quale Europa? Denis de Rougemont, uno dei primi grandi profeti del federalismo europeo, non aveva dubbi: “La nuova Europa sarà l’Europa delle Regioni, o non sarà”. E precisava: non soltanto delle regioni spesso anacronistiche di oggi, che ricalcano le frontiere degli antici Stati, ma anche delle nuove regioni create dall’evoluzione economico-sociale. Rougemont sembrava prevedere l’affermarsi della moderna (e ancora senza confini ben definiti) Regio basiliensis, a cavallo fra Svizzera, Francia e Germania, o l’incombente Regione ginevrina, che si allarga sia sulla Savoia sia sull’Ain. L’Europa degli Stati sta rivelandosi un assurdo storico, che vorrebbe perpetuare il fenomeno ottocentesco degli Stati-nazione, tutti ancorati al binomio della Rivoluzione francese, “uni e indivisibili”. Tanto che il  suo “telegramma” funziona benissimo anche (e soprattutto) se vi si legge “nazione” dove lei ha scritto “regione”.

Esempio: “Rivendicare l’indipendenza sovrana per una nazione poteva avere un senso due secoli fa, non ha più senso oggi”. Sorvolo sulla sua strana precisazione “”regione di qualche milioni di abitanti”: il Lombardo -Veneto  conta oggi sedici milioni di abitanti, quasi due volte la Svizzera; e il Giura, l’ultimo Stato svizzero la cui esistenza fu riconosciuta dopo decenni du lotte – e due occupazioni militari da parte di Berna – conta 80mila abitanti, e non per questo,ecc. …

Per finire debbo dirle che mi ha colpito l’elenco di sciagure che, a suo dire, funesterebbero la Catalogna semmai ottenesse l’indipendenza. Sono le stesse sciagure che altri “legalitari” profetizzavano trent’anni orsono alla Svizzera se non avesse aderito alla UE. Abbiamo poi visto come sono svanite quelle minacce: le stesse, giova ricordarlo tanto per restare in casa nostra,  formulate quasi due secoli orsono dagli austriacanti lombardi e veneti contro chi osava proporre l’indipendenza delle loro regioni dall’impero asburgico.

Mi creda, con la stima di sempre,

il suo Attilio Pandini

PS: Lo scritto del sen Malan rivela, ancora una volta, l’insofferenza dei politici italiani per l’istituzione referendaria; anche se incompleta e limitatissima (esclude i trattati internazionali e le leggi finanziarie, da cui l’incredibile divieto ai cittadini di respingere un uso sbagliato delle loro tasse). Ma venendo egli dal partito comunista e dalla professione di funzionario di partito ciò è purtroppo ben comprensibile. In secondo luogo, Malan limita a motivi storici, linguistici o diplomatici la concessione dello statuto speciale alle Regioni e Province italiane. E perché non a motivi economici? Vedi per es. la profonda crisi delle province di Sondrio e Belluno, a grande vocazione turistica, costrette a subire la pesante concorrenza  del Trentino-Sud Tirolo, delle Val  d’Aosta, del Ticino, dei Grigioni, della Slovenia, e anche del Friuli-Venezia Giulia del sen. Malan, tutti Stati indipendenti o Regioni a statuto speciale.

LA MIA RISPOSTA

L’istituto del referendum non c’entra nulla; e neppure la tradizione comunista italiana. Peraltro, è appena il caso di sottolineare che la riforma costituzionale Renzi-Boschi, bocciata il 4 dicembre dello scorso anno, mirava a introdurre nell’ordinamento due nuovi tipi di referendum: il referendum propositivo e quello di indirizzo.

In discussione è, invece, quello che il prof. Roberto Bin ha definito “un modo curioso di procedere”. Scrive, infatti, Roberto Bin in un articolo (Il Veneto non è la Catalogna. Non serve la Guardia civil, basta la Corte dei conti) su www.lacostituzione.info: “La Corte costituzionale aveva dichiarato illegittime due leggi venete che prevedevano una serie di referendum dal tenore più o meno apertamente secessionista. Un unico referendum era sopravvissuto al controllo di costituzionalità (a cui non erano sopravvissuti neppure precedenti leggi referendarie venete e lombarde), ed è sopravvissuto grazie alla sua perfetta inutilità: “il quesito referendario non prelude a sviluppi dell’autonomia eccedenti i limiti costituzionalmente previsti” (sent. 118/2015): un modo cortese per dire, appunto, che si tratta di una consultazione il cui esito non produce alcuna conseguenza giuridica. A che serve chiedere al corpo elettorale se è favorevole o contrario a che il Presidente della Regione svolga una funzione che già la Costituzione lo autorizza a svolgere?”.

“Un modo curioso di procedere”, come osserva Bin, proprio perché l’art. 116.3 Cost. prevede già che “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” possano essere attribuite alle Regioni ordinarie con legge dello Stato frutto di una negoziazione tra il Governo e il presidente della Regione, per iniziativa di quest’ultimo. Il punto è che quel che a Zaia (o a Maroni) interessa “non è il risultato giuridico, cioè le maggiori competenze, ma quello politico di una mobilitazione elettorale che faccia montare la pressione autonomistica della sua Regione”. Per questo il Presidente Zaia e il presidente Maroni hanno deciso di saltare la fase di negoziato con il Governo, benché il Governo stesso si fosse più volte dichiarato disponibile ad aprire tale negoziato. E per questo un costituzionalista di indubbio valore come Bin, che certo non ha i miei trascorsi “scellerati”, non le manda a dire: “Qualcuno sta giocando con cose troppo serie e sta usando l’amministrazione pubblica e le risorse collettive per finanziare questo gioco. Non sarebbe male che la Corte dei conti se ne accorgesse”. Infatti, si chiede: la procura della Corte dei conti regionale, “sempre molto attenta a frugare nelle pieghe della spesa pubblica – per esempio per controllare il motivo per cui un consigliere regionale ha chiesto il rimborso di un pedaggio autostradale di pochi euro – davvero può restare indifferente davanti a un così evidente e ingente spreco del danaro pubblico?”

Non è in discussione neppure il “federalismo differenziato”, cioè la realizzazione di quel “federalismo a geometria variabile” più volte sollecitato da alcune Regioni del Nord. La riforma del Titolo V della Costituzione (voluta dal centrosinistra e sottoposta poi a referendum confermativo), concede alle Regioni ordinarie la possibilità di richiedere la competenza legislativa esclusiva su una serie di materie conferite completamente o in via concorrente allo Stato. L’articolo 116, comma terzo, introduce il principio di differenziazione degli ordinamenti delle Regioni a statuto ordinario, principio che può riverberare i suoi effetti relativamente all’autonomia legislativa e attribuisce a ciascuna Regione la possibilità di negoziare con lo Stato forme e condizioni particolari di autonomia che incidono, soprattutto, sul piano amministrativo e finanziario, ma che possono estendersi al piano legislativo. Si tratta, come ho scritto, di darsi una mossa; e a 16 anni dalla riforma del 2001, sarebbe l’ora.

Quanto alle specialità, mi sono limitato a ricordare che la specialità, o meglio le singole Regioni a statuto speciale, hanno una giustificazione e una identità politico istituzionale che sono date esclusivamente dalla storia. L’origine storica delle Regioni a statuto speciale spiega la casualità e la disorganicità nell’individuazione iniziale delle competenze e nelle successive integrazioni, realizzata prevalentemente estendendo le norme che attribuivano nuove competenze alle regioni ordinarie. All’origine della Repubblica non c’è, dunque, una nozione unitaria di specialità regionale, che non emerge neppure nella successiva storia repubblicana, nella quale, anzi, si sono realizzati processi di ulteriore differenziazione tra le regioni a statuto speciale, in particolare sul piano dello sviluppo economico, delle dimensioni della popolazione, ecc. Dunque, come ha osservato Giovanni Pitruzzella, «la storia repubblicana ha visto l’istituzione delle regioni speciali fin dal suo avvio e quindi molto prima della nascita delle regioni ordinarie, e ha dato luogo alla strutturazione ordinamentale di ciascuna di esse secondo modalità specifiche che non sono state la messa a punto di un disegno costituzionale a priori. La storia politica, economica e sociale del Paese le ha plasmate in un certo modo, ne ha definito i campi di intervento, i livelli di spesa pubblica, il tipo di rapporto con la società e l’economia regionale. In ciò sta la giustificazione e anche il limite di qualsiasi intervento di ridefinizione degli assetti istituzionali e finanziari». Il che spiega come mai la categoria continui a resistere nelle riforme costituzionali, sia in quelle finora realizzate, sia in quelle progettate. Tanto per fare un esempio, l’accordo di Parigi De Gasperi-Gruber del 5 settembre 1946, che stabilisce l’autonomia regionale del Trentino-Alto Adige/Südtirol, è inserito nel Trattato di pace con l’Italia del 10 febbraio 1947. Qualunque suo superamento richiederebbe una modifica dell’assetto dei rapporti internazionali, impensabile allo stato dei fatti. Tutto qua.

Aggiungo che il sen. Malan (Lucio) è un senatore piemontese di Forza Italia.

Molto cordialmente,

Alessandro Maran

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