IN PRIMO PIANO

Maran, il dissidente renziano «Congresso prima del voto» – MessaggeroVeneto, 2 febbraio 2017

Il vicecapogruppo Pd al Senato si muove in controtendenza rispetto all’ex premier

«La questione centrale non è la data, ma come si presenterà il partito agli italiani»

di Mattia Pertoldi – UDINE

C’è un renziano, di ferro e della prima ora, che dal cuore del Friuli frena sulla data delle elezioni. E il piede levato dall’acceleratore non è quello di un renziano qualsiasi, bensì porta il nome il cognome di Alessandro Maran, senatore e vicecapogruppo Pd a palazzo Madama. Ex segretario dei Ds, ideatore del referendum sull’elezione diretta del presidente della Regione che anticipò la vittoria di Riccardo Illy, dopo lo strappo con il Pd di Pierluigi Bersani e la candidatura con i centristi di Mario Monti alle ultime Politiche ha fatto ritorno a febbraio di due anni or sono nelle fila democratiche guidate da Matteo Renzi.

Maran, senza dubbio, è stato il primo renziano del Fvg, schierato da sempre con l’attuale segretario dem, sin dal momento in cui l’ex sindaco di Firenze rappresentava soltanto una corrente minoritaria nel partito. Fino allo strappo successivo alla vittoria di Bersani alle primarie che lo avevano portato a scegliere Scelta Civica per continuare la propria attività politica. E oggi, dal suo scranno di palazzo Madama, invita il “rottamatore” a rallentare, mentre per la Regione sostiene che il giochino non sia tanto “Serracchiani sì-Serracchiani no” – anche se per la presidente non sarebbe politicamente una passeggiata decidere di non ricandidarsi –, quanto lo schema di gioco con cui ci presenterà alle elezioni e la volontà, più o meno forte, di difendere le riforme messe in cantiere nell’arco di questa legislatura.

Senatore pare di capire che lei sia tra i pochi renziani a non volere andare alle urne a breve a tutti i costi…

«La disputa sulla data del voto è stucchevole. Il tema vero è capire cosa vogliamo fare. In altre parole, cioè, se ce la facciamo a scrivere una legge elettorale in grado di fare funzionare il Parlamento riuscendo a mettere in sicurezza la prossima legislatura. Al Paese serve una legge che ci consenta non dico la certezza, ma almeno la speranza, di avere un Governo stabile. La nostra preoccupazione principale dovrebbe essere questa, non se andiamo a votare in primavera o in autunno. So bene come non sia facile e lo spazio di manovra molto stretto, ma visto che qualcosa comunque andrà fatto per armonizzare i metodi di elezione di Camera e Senato abbiamo il dovere di provarci. Se poi la prospettiva è quella di cincischiare senza fare nulla, allora tanto vale votare a giugno».

Teme anche lei che con questo sistema l’unica soluzione possibile, dopo il voto, sia una sorta di grande coalizione Pd-Forza Italia?

«Visto l’orientamento dei partiti in Parlamento è improbabile che si riesca a resuscitare il Mattarellum con il risultato che il Governo di “larghe intese”, vale a dire un’alleanza tra Pd e Forza Italia sempre che ci siano i numeri, rischia di essere una strada obbligata. Chi pensa, però, che si possa tornare al passato si illude. Come si fa a tornare alla prima Repubblica senza i partiti? All’epoca quel sistema elettorale era sorretto da un sistema forte dei partiti. Oggi le fratture sociali sono diverse, non ci sono le forti appartenenze di allora, gli elettori sono più mobili e i partiti molto più deboli. Detto semplicemente: la Prima Repubblica aveva partiti forti che compensavano istituzioni deboli. Ora abbiamo istituzioni deboli e partiti liquefatti».

Resta il fatto, al di là di tutto, che Renzi vuole andare al voto a tutti i costi…

«Sì, però l’esito delle elezioni, al netto di quando saranno, dipenderà da come sarà il Pd che si presenterà al voto, dalla sua chiarezza e dalla sua determinazione sulle questioni fondamentali. Il voto del 4 dicembre ha segnato una cesura nella storia del nostro Paese. Il colpo è stato forte non soltanto per Renzi, ma per la prospettiva riformista in Italia. Il punto ora è capire come si riparte. E per riprenderci ci vuole un nuovo decollo. Bisogna ripartire da quel 40% di elettori che, è vero, non si riverseranno automaticamente nel Pd o nel consenso a Renzi, ma rappresentano persone che non sono né contro il Pd né contro Renzi. Gente che crede che le riforme in Italia siano necessarie e vedono in noi, magari ancora non compiutamente, la forza che può pensarle e realizzarle. La questione centrale, quindi, non è quando si vota».

Va bene, allora quali sono i problemi fondamentali che deve affrontare il Pd?

«La prima questione è capire se vogliamo essere il partito della sinistra riformista che ha per scopo il Governo di questo Paese oppure pensiamo che la funzione naturale della sinistra sia l’opposizione. Il secondo problema, quindi, rimane quello che riguarda la democrazia e lo Stato in Italia e in Europa: garantire strumenti più efficaci al Governo è una questione irrisolta sin dai tempi di Degasperi. La società italiana e non solo, poi, è attraversata da una faglia che divideinclusi ed esclusi. Bisogna rassicurare i primi e lavorare per includere i secondi, specie i giovani, il che ci riporta alla questione dello sviluppo. Perché se non fai ripartire il Paese non crei le condizioni per l’inclusione. E se non si taglia il debito con misure di forte impatto, di sviluppo non ce ne sarà mai abbastanza».

Secondo lei Renzi, prima di andare alle urne, dovrebbe passare per il congresso del partito?

«Il Pd deve vincere la battaglia contro posizioni alla Speranza oppure non ci sarà più la sinistra al Governo. Per questo, sì, ci serve un congresso. Oggi l’esercizio della leadership si misura innanzitutto nella capacità di raccogliere questa sfida che scaturisce dal voto referendario perché altrimenti Renzi corre il rischio di commettere lo stesso errore di Veltroni nel 2008, mentre vincendo il congresso ne uscirebbe rilanciato e legittimato anche a portare il Paese a votare».

Passiamo in Regione. Ci sono ampie fette del partito che chiedono alla presidente Debora Serracchiani di scegliere in anticipo tra Roma e Trieste…

«Mi sembra, anche in questo caso, una discussione stucchevole. Tanto per capirci, quando i bersaniani, per primi, hanno candidato Serracchiani che cosa volevano fare? Sfruttarne la notorietà, impedire la candidatura di Sergio Bolzonello oppure realizzare delle riforme? E ora, invece, premendo sulla ricandidatura oppure sulla sua sostituzione che direzione vogliamo intraprendere? Bisognerebbe concentrasi su questo. So bene che le riforme sono difficili da realizzare e da accettare. Ci vuole capacità di ascolto, umiltà e tenacia. Ma non è pensabile che si facciano soltanto quanto la folla ti acclama».

Sta sostenendo che Serracchiani dovrebbe ricandidarsi per completare quello che ha cominciato in questa legislatura?

«Dico soltanto che non credo che la presidente possa semplicemente togliere il disturbo. Non siamo alla fine di un ciclo con una eredità consolidata e un erede designato. Si tratta, invece, di affermare delle idee in condizioni difficili. E’ la condanna laica del riformismo».

Secondo lei ci sono ancora le carte in regola per riconquistare la Regione?

«Non siamo sconfitti in partenza. Molto dipenderà da come si presenteranno gli avversari e quale sarà il profilo complessivo del Pd, ma possiamo farcela. L’election day? È sempre stato un errore, sin dai tempi di Illy. Conviene sempre separare il voto locale da quello più ideologico legato alle Politiche. Al di là di questo, però, credo che conterà anche il momento in cui andremo a votare e se ci confronteremo con un’Europa “scoppiata” oppure ripartita. Anche per noi il contesto conta. Il Friuli non è una realtà separata come l’Alto Adige, ma è parte integrante dello scenario nazionale e internazionale. E attenzione: il nuovo spartiacque non è più tra destra e sinistra, ma tra apertura e chiusura. Se l’Europa si spacca e l’America si ritira in una sua cuccia isolazionista, il vuoto verrà riempito da poteri molto meno benevoli di quelli che oggi ci governano».

 

 

 

You may also like
Il problema? La paralisi dell’Europa. Ma per problemi comuni, servono soluzioni comuni.
E’ troppo tardi per la democrazia turca?
Verso un “Governo della nazione”?